Corriere La Lettura 6.3.16
All’empatia serve un progetto
Solo così genera condivisione
Un libro a più voci su un concetto in voga
di Adriano Favole
S
haring o «condivisione», nell’imperfetta traduzione italiana, è senza
dubbio una parola chiave del nuovo millennio. Abitanti di un pianeta
dominato da un «uomo economico» che compete e persegue i propri
interessi anche nelle istituzioni che, tradizionalmente, stavano fuori
dal mercato, come le università e gli ospedali, aspiriamo tuttavia alla
condivisione.
Il sogno di un mondo condiviso è stato alimentato in
questi anni da vari fattori: la rivoluzione digitale in primo luogo,
che sembrava poter trasformare la precedente epoca del possesso in una
nuova era dell’accesso senza limiti (Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso ,
Mondadori 2001). Un secondo fattore è il persistere di una lunga crisi
economica, che ha messo in evidenza i limiti dello sviluppo e delle
risorse, l’impossibilità di una crescita infinita, i fallimenti del
modello economicista e finanziario. E poi, non ultima, una seppur timida
motivazione di ordine morale, l’aspirazione a un’umanità capace di
promuovere la giustizia e l’uguaglianza, di abbattere il muro più
solido, quello che dai tempi del colonialismo divide i Paesi ricchi da
quelli poveri — praticamente il contrario di quanto succede, in questi
giorni, in Europa, da Calais alla frontiera tra Macedonia e Grecia.
Abbiamo
immaginato che questa rivoluzione potesse infiammarsi soprattutto per
le qualità dell’epoca digitale: la costruzione di un infinito spazio
virtuale poteva aprire nuovi orizzonti in cui le frontiere politiche,
etniche, economiche e di genere avrebbero vacillato, dando a ciascuno la
possibilità di giocare le proprie carte. A conti fatti però, la rete ci
ha connessi o ci ha imprigionati (entrambe le metafore sono
pericolosamente presenti nel termine)? La cosiddetta sharing economy ha
incoraggiato forme reali di «condivisione» delle ricchezze, oppure, a
giudicare dal crescere delle diseguaglianze e dai nuovi monopoli
digitali, ha finito per favorire una «spartizione» ulteriore delle
risorse tra una élite sempre più ristretta? Non dimentichiamo che to
share in inglese significa sia «spartire» sia «condividere» e, ironia
della sorte, sha res sono le «azioni» nel senso finanziario del termine.
Viviamo dunque in un mondo più condiviso o la sharing economy è solo
l’ultima delle ideologie con cui un’economia di mercato sempre più
aggressiva, arrogante e invisibile si sta affermando nel nuovo
millennio?
Di questi temi discute un bel volume curato da Giulia
Cogoli dal titolo Un mondo condiviso (Laterza). Il libro raccoglie gli
interventi di otto tra i più noti e brillanti intellettuali del nostro
tempo. Gli autori si confrontano a distanza in un dialogo a più voci
che, grazie alla mano della curatrice, riesce a tessere una trama
comune.
Andrea Moro e Giacomo Rizzolatti affrontano
rispettivamente il tema delle matrici biologiche del linguaggio e i
meccanismi del cervello empatico. Rizzolatti è internazionalmente noto
per i suoi studi sui neuroni specchio e ripercorre qui alcune tappe di
un appassionante percorso di ricerca. Come e più delle scimmie, siamo
esseri empatici e i nostri circuiti neuronali ci mettono in risonanza
con gli altri. Tuttavia, il cervello empatico non produce
automaticamente una civiltà dell’empatia , per dirla con Jeremy Rifkin,
uno dei più entusiasti cantori dell’epoca dello sharing . L’empatia non
diviene condivisione sociale senza una progettualità che è tutta interna
alla società e alla politica e non scaturisce automaticamente dalla
neurofisiologia.
«Empatia oggi è una parola chiave. Ne parlano
tutti, da Obama al Dalai Lama, e alcuni la considerano una rivoluzione»,
scrive Laura Boella. Parliamo di empatia globale riferendoci alla
possibilità di connetterci in tempo reale al resto del mondo, vivendo
online emozioni comuni, davanti a catastrofi e guerre, calamità naturali
e più raramente lieti eventi. Ma attenzione ai facili entusiasmi: la
condivisione è insieme la malattia e la cura del nostro mondo, il
problema e una possibile via di uscita. Il palcoscenico globale del
dolore e della morte non ci rende necessariamente più sensibili alla
concreta sofferenza altrui e spesso la narrazione dell’empatia globale
nasconde odio e stigmatizzazione del diverso — come non ricordare la
celebre e contestata vignetta di «Charlie Hebdo» che ritraeva il piccolo
Aylan morto e la proiezione della sua vita adulta immaginata attraverso
gli stereotipi sugli stranieri, sintesi perfetta della odiempatia verso
l’altro? Oggi c’è anche chi scrive contro l’empatia, osserva Boella,
denunciando il suo carattere limitato, il suo essere modello di
socialità istintiva, di un’affettività conformista, acritica,
addomesticata. Di nuovo: la condivisione richiede progetti politici e
sociali, una capacità di «fare società» che forse abbiamo smarrito.
Nel
suo contributo Ilvo Diamanti si interroga proprio sull’incapacità
politica e progettuale dell’Europa, il cui unico orizzonte di
condivisione sembra oggi, paradossalmente, l’antieuropeismo. Ci sentiamo
vicini ai contadini greci quando esprimono le proprie critiche a
Bruxelles, agli allevatori francesi quando protestano contro l’Ue per il
prezzo del latte. Non ci sarà un’Europa condivisa finché gli euro e gli
anti-euro domineranno la scena e finché trionferanno le logiche
nazionaliste contro l’invasione dei profughi.
Ricchi e poveri
possono condividere un mondo globalizzato? (Non possono) : è il titolo
del contributo di Jared Diamond che, come di consueto, non manca di
arguta ironia. Condividere il mondo è impossibile se prendiamo come
metro di valutazione lo stile di vita delle società ricche. I 60 milioni
di italiani consumano risorse pari al doppio del miliardo di africani.
Il tasso di consumo dei Paesi ricchi è in media di 32 volte più alto di
quello dei Paesi poveri. Dove sta dunque il problema? Nelle fughe dai
luoghi di guerra? Nel terrorismo? Nell’aspirazione dei poveri a una vita
più dignitosa? Oppure nell’insostenibilità delle economie dei Paesi
ricchi, che rischiano di portare al collasso l’intero pianeta, come
avvenne, a suo tempo, all’isola di Pasqua?
Condividere nella
contemporaneità significa certo dar vita a comunità empatiche che vivono
concretamente e attraverso l’esperienza diretta il dolore e la gioia,
la felicità e le preoccupazioni. Ma significa anche immaginare nuovi
orizzonti di significato slargati , capaci di promuovere un senso di
appartenenza a una comune società e umanità. Nel suo saggio, Mauro
Agnoletti rintraccia nel paesaggio la cornice di quella condivisione che
dovrebbe promuovere un senso di appartenenza al nostro Paese, ma anche
una modalità per rilanciare economicamente l’Italia. «Ciò che distingue
la complessità dei caratteri del paesaggio italiano è la molteplicità e
stratificazione delle tracce che così tante e distinte civiltà hanno
lasciato nel territorio e nelle forme delle nostre campagne». Il
paesaggio è una forma di costruzione collettiva a più mani, metafora
reale di un’appartenenza comune e plurale al tempo stesso.