martedì 8 marzo 2016

La Stampa 8.3.16
I figli del privilegio sprofondati
nell’abisso della disumanità
di Antonio Scurati

«Volevamo uccidere qualcuno…Volevamo vedere l’effetto che fa». Una voce chiama dal profondo, ma non è una voce umana. Qualcosa gratta alla porta di casa ma non è una mano. Forse un uncino, forse un artiglio. Nel terribile assassinio di Luca Varani, da qualunque lato si prenda, sembra non esserci nulla di umano. Più si svela, anzi, e più ci appare un abisso di disumanità.
Due giovani uomini, belli, palestrati e narcisi, eterni studenti figli del privilegio, modaioli, festaioli, idiotizzati da quegli amplificatori del Sé che sono i social network, nel corso di un party a base di cocaina ed alcol protrattosi per 48 ore, giunti al punto più basso dell’ottenebramento più cieco, si mettono in auto e battono le strade del quartiere alla ricerca di qualcuno da uccidere. Così, tanto per vedere l’effetto che fa. In strada non lo trovano. Allora uno dei due brandisce lo smartphone come un’arma da taglio, chatta un po’ e pesca la vittima dall’agenda elettronica. L’agnello sacrificale si consegna da solo a domicilio bussando il campanello di un condominio borghese. Se ne ritroverà il cadavere nudo, disteso su di un letto, il corpo straziato, il cranio sfondato, la gola garrotata. Niente, non sembra esserci niente di umano.
I delitti che spopolano nella cronaca nera di questo nostro tempo della cronaca incantato dalla morte altrui possono essere ricondotti a due grandi categorie: i delitti-specchio e i delitti-pozzo.
Nei delitti-specchio il pubblico del voyeurismo di massa si appassiona morbosamente al fatto di sangue in base a un perturbante meccanismo di rispecchiamento. L’efferatezza funge da superficie riflettente di una generazione o, talvolta, di un’intera società. La situazione limite, in questi casi, ci restituisce a noi stessi. Fu il caso, ad esempio, di Pietro Maso, che massacrò padre e madre per fare la bella vita grazie a una modesta eredità nel Nord-Est degli Anni 80, travolto da una delirante crescita economica in assenza di qualsiasi sviluppo socio-culturale. «Ipertrofia narcisistica» fu la diagnosi formulata all’epoca del processo. Una perizia che poteva valere per un’intera generazione o per la sua parte maledetta che dimora in ciascuno di noi.
Ci sono poi i delitti-pozzo, quelli cui si accosta l’orecchio, dopo aver lasciato cadere il sassolino della nostra curiosità, per scoprire quanto è profondo l’abisso della psiche umana. In questi casi nessun sociologismo, nessuna psicologia collettiva può inquadrare la violenza omicida. Il tonfo del sasso che risale in superficie dalle profondità del pozzo riecheggia nell’eternità oscura il tonfo sordo di origini remote e ancestrali, di scene selvagge e dimenticate da millenni. Sono i raptus omicidi di mariti gelosi, di hooligan scatenati o di madri «snaturate».
Poi, però, ci sono i casi come questo. I più terrificanti. Quelli che sfuggono a entrambe le categorie precedenti, quelli dell’abisso senza fondo: i casi in cui il sasso lanciato nel pozzo non restituisce nessun rumore d’acque, nessun tonfo, per quanto remoto. Ci rifugiamo allora nella parola-amuleto, nel termine rassicurante e insensato: disumanità.
Eppure… eppure i filosofi da parecchio ci ammoniscono che il secolo appena trascorso, il secolo degli stermini di massa su scala planetaria, avrebbe prodotto una «svalutazione della morte», che la morte per buona parte dell’umanità contemporanea sarebbe diventata «asettica» (Steiner).
Da molto tempo gli storici ci insegnano che la morte nella tarda modernità, divenuta per un verso tabù, occorrenza occultata fino all’ultimo allo stesso moribondo, segregata in istituzioni specialistiche, sottoposta a protocolli medici igienizzanti e, per altro verso, iper-pubblicizzata dai media elettronici in osceni spettacoli a distanza della morte altrui, la morte di questo passo viene negata e rimossa nella sua realtà esperienziale (Ariès). Non intendo con questo fornire un quadro storico o sociale in cui collocare questo delitto «disumano».
Voglio solo ricordare, a noi che lo stiamo a guardare inorriditi, che viviamo nel tempo in cui ci si è «proibita la morte», in cui la morte è negata nella sua realtà, suprema ed ultimativa, il tempo in cui fino all’ultimo bisogna fingere che non moriremo mai.