La Stampa 6.3.16
Quei malati fantasma di Hiv
In Italia il virus silenzioso contagia 11 persone al giorno
Quattro sieropositivi su dieci lo nascondono ai familiari, il 5% al partner
Quasi uno su tre è immigrato. Arriva il primo piano nazionale anti-Aids
di Giacomo Galeazzi Ilario Lombardo
Ogni
giorno, in Italia, 11 persone scoprono di essere sieropositive. Secondo
l’Istituto Superiore di Sanità le nuove diagnosi di infezione da Hiv
sono 4 mila l’anno. Siamo il secondo Paese in Europa per incidenza di
Aids, dopo il Portogallo. Nel passaggio dall’infezione alla malattia ci
sono ancora drammi nascosti come quello di un uomo e una donna,
residenti ad Anzio e a Civitavecchia, entrambi sieropositivi. Barricati
in casa, si fanno identificare con un numero. Neanche chi li assiste a
domicilio conosce il loro nome. Ogni volta che l’équipe della Caritas va
a prendere le loro medicine in farmacia usa un codice fornito
dall’istituto Spallanzani di Roma. Perché queste due persone vogliono
restare fantasmi. «I pazienti ci chiedono che la nostra macchina non sia
riconoscibile e di non far indossare alle suore abiti religiosi»
racconta al centro Caritas di via Casilina Massimo Pasquo, responsabile
delle terapie a domicilio per malati gravi di Aids. Accanto a lui siede
Mario Guerra, una vita a contatto di un male dimenticato che condanna
ancora all’isolamento: «Le famiglie sono impreparate, li chiudono in una
stanza e chiedono se per disinfettare gli ambienti serva la
varecchina».
Infezione silenziosa
L’ignoranza e la
sottovalutazione fanno dilagare il virus dell’Hiv anche per l’errata
convinzione che in Occidente sia un flagello ormai debellato e relegato
nei Paesi più poveri. Sono morti oltre 40 mila italiani per l’Aids,
un’epidemia che si è depotenziata a metà Anni Novanta. La peste del
nuovo secolo sembrava passata, ma il ventennio trascorso senza più paura
ha però fatto dimenticare che l’Hiv continuava a diffondersi. Una cappa
di silenzio infranta qualche mese fa dal clamore di una vicenda con al
centro un trentenne romano di nome Valentino T. e le numerose ragazze da
lui infettate. Nella semplificazione mediatica il ritorno dell’«untore»
ha riaperto uno squarcio di luce su una malattia che per molti è
confinata nell’immaginario degli Anni Ottanta ma che invece è ancora
attualissima. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della
Sanità la percentuale di infezione in Europa non è molto inferiore a
quella di trenta anni fa. «Dal 2005 le nuove diagnosi sono più che
raddoppiate in molti Paesi Ue, segno che la risposta al virus non è
stata efficace nell’ultimo decennio» ammette Andrea Ammon, direttore del
Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc).
Cosa è
mancato? Le campagne di comunicazione e di prevenzione sono scomparse.
Ma il problema sarebbe ancor più a monte. In Italia, in particolare, le
strategie di contrasto all’Aids hanno una falla alla radice: i numeri.
Se si osservano i diagrammi delle nuove diagnosi si nota una
stabilizzazione sospetta dal 2010 che fa dire a tutti, associazioni dei
malati e autorità sanitarie, che i 4 mila casi annui sono
«sottostimati». Le diagnosi registrano contagi che possono risalire fino
a 15 anni prima, per la lunga incubazione dell’Hiv. Diverso è il
discorso sulle «nuove infezioni», cioè chi ha preso il virus di recente,
che permetterebbe un’analisi più precisa del fenomeno: qui però c’è una
stima che, secondo l’Istituto superiore di sanità, si avvicina al
numero delle diagnosi per il fatto che questo è rimasto costante negli
anni.
Carenza di dati certi
Da tempo la Lega italiana per la
lotta all’Aids (Lila) ha posto la questione della carenza di dati,
prima al Comitato tecnico del ministero della Salute, poi all’Iss,
infine al Capo dello Stato Sergio Mattarella, con una lettera inviata lo
scorso dicembre. «Innanzitutto non si sa quanti siano i test effettuati
in Italia - spiega Massimo Oldrini, presidente Lila -. L’Ecdc ci chiede
che venga resa nota la base sulla quale vengono calcolati i 4 mila casi
annui. Perché l’Italia non la comunica?».
Abbiamo girato la
domanda al direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Iss
Gianni Rezza e a Maria Grazia Pompa, direttrice della Prevenzione
sanitaria al ministero della Salute. Una risposta chiara non arriva.
Vengono riconosciute le difficoltà di trasmissione dalla periferia
(ospedali, Asl) al centro (l’Iss) mentre Pompa parla di «incongruenza»
in quanto molti potrebbero ripetere più volte il test. «Ma senza numeri
certi non si possono mettere in campo azioni concrete ed efficaci -
continua Oldrini -. Manca pure una cabina di regia istituzionale».
Pronto il piano sanitario
Dal
ministero finalmente sta per arrivare una risposta che però dà anche la
dimensione della nuova emergenza: è quasi pronto il primo piano
nazionale Aids che farà il tagliando di tutta una serie di misure
arrugginite dagli anni, puntando a migliorare il flusso di informazioni,
a monitorare i finanziamenti alle Regioni, che intanto dirottano i
fondi per l’Hiv su altre voci, a incoraggiare l’accesso ai test in forma
gratuita e anonima. E soprattutto ad assicurare il cosiddetto
«trattamento preventivo» che mette in sicurezza chi è infettato e si
pone l’obiettivo di azzerare i contagi.
È una corsa contro il
tempo: diagnosticare il prima possibile l’infezione significa rendere
più efficace la cura della persona ammalata, diminuire la sua carica
virale e ridurre le possibilità di trasmissione. Proprio quello che non è
successo a Marco, 46 anni, tecnico di reti informatiche: «La mia
fidanzata aveva l’Hiv ma non lo sapeva, e ciò le ha impedito di essere
curata. La sua carica infettiva, così, è rimasta elevata e mi ha
contagiato». Prevenzione e trattamento permetterebbero di abbattere
anche la spesa dello Stato appesantita dal costo altissimo dei sette
farmaci antiretrovirali, fra i trenta più cari per la sanità pubblica.
Anche perché ogni diagnosi salva una vita ma comporta in media 40 anni
di terapie. In Italia si calcolano poco meno di 130 mila sieropositivi,
cui va aggiunto circa un 20% di «inconsapevoli» che non sanno di avere
il virus. E il 60% delle diagnosi avviene con malattia in stato
avanzato. Tradotto, circolano persone infette che possono trasmettere
l’Hiv senza saperlo, accrescendo il numero dei contagiati. «Il fatto che
siamo fermi sempre a 4 mila diagnosi l’anno è preoccupante» concorda
Rezza.
Calata l’attenzione per l’Aids, l’effetto è quello di un
progressivo oblio che crea lacune nella comunicazione. Sopravvivono solo
pregiudizi: l’Aids ancora oggi è una malattia ricondotta a quelle che
venivano chiamate «categorie a rischio»: gay e drogati. La realtà invece
è questa: dal 1985 al 2014 la proporzione dei tossicodipendenti per ago
è passata dal 76,2% al 3,8%, mentre l’84,1% delle nuove diagnosi è
attribuibile a rapporti sessuali senza preservativo: 43,2% etero e 40,9%
Msm (rapporti omosessuali maschili). E’ il sesso quindi, di gran lunga,
il principale veicolo di trasmissione del virus tra persone lontane da
mitologie trasgressive. 25-29 anni la fascia più colpita nell’ultimo
biennio: i costumi tornano disinibiti anche per effetto delle nuove
droghe sintetiche e l’Hiv si conferma una malattia metropolitana,
diffusa soprattutto a Roma, Milano e in Emilia.
Boom tra gli immigrati
Ovviamente
la società è cambiata e un fattore che non può essere sottovalutato è
l’incidenza dell’immigrazione, soprattutto dall’Africa: in Italia il 27%
degli Hiv positivi è straniero, quasi 1 su 3. In generale, il fatto che
la percezione del rischio sia crollata dopo la metà degli Anni Novanta
ha portato di nuovo a minori cautele nei comportamenti sessuali. Lo
dimostra l’aumento di casi di gonorrea e sifilide, considerati dagli
esperti indicatori indiretti per la sieropositività. Purtroppo la
disinformazione non risparmia neanche i camici bianchi, come ci dice
Laura Rancilio del comitato ministeriale, in prima linea a Milano: «Ci
sono medici convinti che l’Aids sia ancora la malattia di trans, gay,
prostitute e tossici. E molte volte si vergognano di prescrivere il test
a pazienti che hanno comportamenti socialmente accettabili».
Vanessa
è un avvocato, di Roma, 33 anni, figlia di due medici che non sanno
nulla della malattia della figlia: nel 2013 ha contratto l’Hiv con un
rapporto non protetto: «Il ginecologo mi fece domande su di me e sul mio
partner, chiese se ci drogavamo, e quando gli dissi che ero un avvocato
mi guardò stupito quasi a dirmi “Una professionista come lei?”». Ma i
medici sono impreparati anche di fronte a casi più esposti visto che il
70% dei tossici non viene sottoposto al test-Hiv.
L’incognita dei test
Il
piano nazionale Aids dovrà riportare sotto controllo la situazione. E
la grande sfida della sanità pubblica parte proprio dai test: se più
persone lo facessero la catena infettiva si interromperebbe. Invece più
di un italiano su 3 (il 37%) non lo ha mai fatto. Spesso la causa è da
ricercarsi nelle difficoltà di accesso o nelle mancate garanzie su
anonimato e gratuità dei test, requisiti previsti dalla legge 135 del
1990. Ci sono zone di Italia, anche nella ricca Lombardia, dove si paga
il ticket: per questo motivo il ministero ha affidato alla Rancilio un
progetto per uniformare l’accesso gratuito.
Chi va allo
Spallanzani invece non paga e può restare anonimo se lo vuole. Deve
chiedere della «Stanza 13», l’ambulatorio che si trova al piano terra di
un reparto con un lungo corridoio sempre affollato. Le stanze dei test
vanno dalla 16 alla 18, ma si usa il numero 13 per una scaramanzia
condivisa dai medici con un loro storico paziente. Qui lavora la squadra
di Vincenzo Puro, Gabriella De Carli e Nicoletta Orchi, che hanno
impressi negli occhi trent’anni di volti, terrorizzati quando l’Aids era
un’epidemia, spaesati oggi quando scoprono che l’Hiv è ancora una
minaccia. Ci sono giovanissimi come Martina e Claudia, 24 anni, che
hanno trovato sesso non protetto in chat e sono corse allo Spallanzani
pentite ma sollevate alla notizia che sarebbe rimasto tutto anonimo:
«Abbiamo scoperto questo centro cliccando su Google. Avevamo paura di
andare dal nostro medico». Per lo stesso motivo a Roma arriva tanta
gente dal Sud, dove l’acceso ai test è più difficile e prevale la paura
di essere scoperti.
La discriminazione
L’Hiv è ancora una
lettera scarlatta cucita addosso ai malati. «Ho visto buttare carte di
cioccolatini toccate da persone infette» racconta Pompa. Secondo uno
studio dell’Università di Bologna il 32% delle persone con Hiv è stato
vittima di episodi discriminatori. La vergogna fa il resto: il 40% non
lo rivela ai familiari; il 74% non lo dice a lavoro, ma a inquietare è
che il 5% lo nasconde al proprio partner. Per venire incontro a queste
precauzioni test rapidi salivari vengono sperimentati anche da unità
mobili in zone di prostituzione, mentre trova totale opposizione da
parte del ministero la vendita in farmacia, come avviene in Francia.
La
perdita di memoria generazionale aggrava la situazione. Le autorità
sanitarie e le associazioni chiedono di far ripartire le campagne
informative, adattandole ai social network e centrandole di più sull’uso
del preservativo. Certo non aiuta che al ministero della Salute il
budget per la comunicazione sia appena di 80 mila euro e che nelle
scuole siano stati abbandonati i progetti di educazione sessuale.
Servirebbero ad abbattere antichi pregiudizi e a convincere gli italiani
che il virus incombe su chiunque. Gli ammalati vengono ancora trattati
da appestati, la Caritas soffre l’assenza di volontari per assistere chi
ha l’Aids. In diverse parti d’Italia non ci sono strutture per
l’accoglienza e dove ci sono, sono sovraffollate. Come a Villa Glori, a
Roma, gestita da Massimo Raimondi, dove si sono conosciuti Vincenzo e
Alessia. Lui in cura nella casa famiglia, lei assistente sociale.
Entrambi sieropositivi. Si sono sposati, sono andati a vivere fuori e
hanno avuto un figlio. «Poi, Vincenzo si è aggravato - racconta Raimondi
- e ha chiesto di venire a morire qui, perché altroché se di Aids non
si muore ancora. L’ultima sera ha chiamato il suo bambino e ha trovato
la forza di giocare con lui».