domenica 6 marzo 2016

Il Sole 6.3.16
Candidati incolori non aiutano né rinascite locali né sfide di governo
di Paolo Pombeni


Aspettare il risultato delle amministrative come un oracolo sul futuro dei nuovi equilibri politici (qualcosa di più e di diverso dal governo in carica) non si sa quanto sia plausibile. Certo già dall’avvio della loro campagna elettorale qualche spunto di riflessione può venire. In passato, quando molto, se non tutto era diverso, varie volte le amministrative sono state un segnale anticipatore dei cambiamenti di equilibrio nella politica nazionale: accadde ai tempi del centrosinistra, della solidarietà nazionale, della svolta verso la cosiddetta seconda repubblica. Anche oggi possiamo cogliere dei segnali, ma non come nei casi citati per capire in quale direzione ci si muove, quanto piuttosto per registrare una mutazione profonda del quadro politico senza che sia ancora possibile intuire con chiarezza dove si vada a parare. Negli ambienti politici il vero tema di dibattito non è lo scontro fra i contendenti quanto la dimensione che assumerà l’astensionismo. Sarà infatti questo, in termini di quantità, ma anche di qualità (chi saranno quelli che disertano le urne), a determinare gli scenari. Certo a giudicare dalla scarsa partecipazione del sentimento popolare a questa contesa, nonché dall’assenza di figure in qualche modo carismatiche (quanto siamo lontani dal “partito dei sindaci”!) non si può immaginare una rinascita della politica legata al sentimento civico. Piuttosto si registra una debacle a vario grado nei partiti politici. Curiosamente non c’è né una capacità di regia a livello nazionale, né una vivace dinamica locale che porti sulla scena forti partiti territoriali. I due termini antitetici per rappresentare la situazione sono Milano e Roma. Nella “capitale morale” entrambi i raggruppamenti del bipolarismo storico si sono affidati, per resuscitare una vecchia formula, a “papi stranieri”. Aggiungiamo: così stranieri che i due contendenti potrebbero scambiarsi le casacche di coalizione senza creare particolare sorpresa. Questo può essere interpretato come una resa dei partiti alla “società civile” in senso lato, ovvero a quella parte, certo non quantitativamente fortissima, di elettorato che cerca quello che una volta si sarebbe chiamato “un buon amministratore”, senza preoccuparsi tanto del suo pedigree politico. Le ideologie delle pattuglie mosse dalle diverse ortodossie politiche sopravvissute o neo inventate seguiranno, come fa l’intendenza. Nella “capitale legale” il quadro è opposto. I partiti sfasciati non possono arrendersi al loro tramonto e dunque mettono scopertamente in scena le loro lotte di fazione. Nell’elettorato si ritiene impossibile individuare un nucleo forte di società civile fiduciosa che si possa scommettere sull’avvento del buon amministratore. Del resto, con un dissesto più che decennale, è difficile dargli torto. Le direzioni nazionali (ci si consenta questo termine ormai improprio) possono al massimo inserirsi in queste lotte di fazione, del tutto incapaci di promuovere un ruolo di equilibratore e di ricostruttore di un tessuto sfatto. In mezzo a questi due estremi c’è un po’ di tutto. Il caso di Napoli, che è una specie di eterna eccezione, che non sfugge ai mali denunciati per Roma, anche se in questo caso c’è un tentativo di recuperare il bandolo della matassa parte di un esponente della vecchia guardia che a suo tempo aveva fatto la rivoluzione civica. Quanto quel passato possa far rivivere una stagione è più che incerto, ma la sua capacità di mobilitazione al momento è un’incognita. Sempre in questa linea c’è Torino, che è forse il caso più interessante. Qui si scontra la tradizione nobile della classe dirigente ex Pci che si fece carico di transitare il paese fra la prima e la seconda repubblica e la sfida innovatrice del M5S che scommette in sostanza di poter prendere su di sé la successione a quella classe dirigente facendo un salto insieme generazionale ed ideologico. Perciò sarà molto interessante vedere come va a finire, soprattutto perché in quel caso c’è, assai più che a Roma, la verifica di come si sposteranno i voti di quegli elettori di centrodestra che da Berlusconi hanno introitato le parole d’ordine anticomuniste, ma che non hanno più alcuna fiducia che il vecchio leader spompato possa condurli non diciamo alla vittoria, ma a un qualche risultato di peso. Altro caso di qualche interesse per un osservatore è Bologna. Qui un tempo c’era la vetrina di un partito assai “territoriale” come era il vecchio Pci di quelle parti e anche qui l’occupazione del municipio era il modo di mostrare quanto quel partito che era escluso dal potere a livello nazionale fosse in grado di esprimere una buona amministrazione di alto profilo. Oggi tutto si trascina stancamente nella riproposizione del sindaco in carica, personaggio poco carismatico e certo improponibile come vetrina di alcunché, dato per quasi sicuro vincitore nella totale assenza di competitori, perché tanto dal centrodestra quanto dal M5S gli si sono contrapposti personaggi altrettanto modesti e incolori. Poi ci sarà da fare i conti con l’astensione, ma è un altro discorso. Si può trarre la conclusione che siamo di fronte alla prova che il governo locale non è più una questione di fondo nella costruzione degli equilibri della classe politica, perché tutto si decide nella grande competizione nazionale dove conta solo lo scontro dei leader? C’è chi lo sostiene, più o meno apertamente. Ci permettiamo di dubitare della bontà di questa conclusione: un paese ha bisogno di essere governato, e bene, in tutta la complessità del suo sistema. L’uomo solo al comando, per quanto possa circondarsi di un po’ di proconsoli, non riesce mai a trasformare un paese se sui territori non può contare su una rete di buona amministrazione e di buona politica.