domenica 6 marzo 2016

La Stampa 6.3.16
Nell’“ambasciata” curda di Mosca
“Qui lavoriamo per un nostro Stato”
In Russia la prima sede estera del Kurdistan siriano: Putin è con noi
di Lucia Sgueglia


Tekstilshiki, semi-periferia a Sud-Est di Mosca. Tra autoricambi e condomini sovietici, un business center nuovo e moderno, c’è un’insegna: «Associazione degli imprenditori curdi». Al terzo piano un piccolo ufficio asettico, tutto è nuovo a partire dai mobili. Alla parete il ritratto di Abdullah Ocalan, il leader del Pkk turco che Mosca non considera «terrorista», a corona una bandiera russa e una del «Rojava», la regione Nord della Siria autonoma de facto dal 2013. Qui potrebbe realizzarsi il sogno dei curdi siriani, l’incubo di Erdogan, un Medioriente ridisegnato. Dal 10 febbraio è la prima sede estera del «Kurdistan occidentale». Non una rappresentanza ufficiale, formalmente una «Ong». Ma la speranza è conquistare l’appoggio russo per l’autodeterminazione nella Siria che sarà.
«Per noi è un passo storico, vi abbiamo lavorato anni, la rottura tra Mosca e Ankara dopo l’abbattimento del jet a novembre ci ha aiutato», dice il giovane capo missione, Rodi Osman, ex insegnante passato all’attivismo politico. Viene da Sari Kani, a ridosso del confine turco poco distante da Cezri, la «Seconda Kobane». Con lui l’interprete-assistente Farhat Patiev, uno dei 64 mila curdi di Russia, e membro del Consiglio di Putin per i rapporti inter-etnici.
«Qui noi dirigenti abbiamo trovato comprensione», spiega Osman, che avrebbe svolto incontri con «alti ufficiali» dal parlamento agli Esteri, ma non rivela i nomi degli «sponsor». Qualcuno parla già di un Putin «padrino del Grande Kurdistan»: i raid di Mosca hanno aiutato l’avanzata dell’Ypg, le milizie del partito curdo-siriano Ypd (ritenuto vicino al Pkk), cui la sede moscovita è legata ideologicamente: «Quello non è solo il ritratto di un uomo, ma la filosofia di un intero popolo». Ankara è infuriata.
Osman non si sbilancia. Assicura che l’obiettivo del Rojava non è l’indipendenza come per Erbil, ma «una nazione confederata democratica e multietnica, con organi di governo eletti localmente e delegati centrali. Un potere concentrato solo a Damasco sarebbe un grosso errore». È il piano di Siria federale che circola sempre più. Modello Svizzera. Bandiera, il laicismo: pochi mesi fa la Siria secolare pareva seppellita, ora per Osman che ricorda il ruolo eroico delle donne Rojava, ha una chance.
Ma l’ottimismo per le «buone notizie» dal fronte trapela, il momento è propizio. Patiev indica una mappa a parete: «Questo è il Kurdistan siriano, con i 3 Cantoni di Cizre, Kobane e Afrim, attualmente quasi l’85% è sotto il nostro controllo, e probabilmente in futuro aiuteremo i nostri alleati sunniti arabi a liberare i loro territori e dirigersi a Sud». Se cade Azaz, «sarà fatta, l’Isis non passa più, la frontiera turca è bloccata. Dobbiamo solo pazientare ancora un po’», sorride. La tregua? «Solo autodifesa». È Ankara a violarla, accusano. A Mosca stampano un mensile in cirillico, Kurdistan libero, e il sito web Kurdinfo.ru.
Lavrov a gennaio ha ammesso di fornire armi ai curdo-iracheni via Baghdad. E il Rojava? L’unico aiuto militare ufficiale per ora, precisano senza smentire, viene dagli Usa: «La Russia è attenta su questo, qualsiasi fornitura deve passare da Damasco e Baghdad, rispettandone la sovranità. Loro poi possono passarle a Erbil o Shangal, ma è un affare interno». Riassumendo: «No al nazionalismo arabo di Assad, no al radicalismo islamico». Di rovesciare il leader di Damasco alleato della Russia non hanno fretta: «Prima serve un piano». Mosca, Usa e De Mistura li vogliono a Ginevra, ma «per ora nessun invito».
Intanto continuano a giocare su più fronti: il progetto è aprire a breve altre sedi a Berlino, Parigi, Washington, e a Praga una «rappresentanza militare». In Italia «un primo passo è già stato fatto quando Roma approvò il gemellaggio con Kobane nel 2015». Nel corridoio un cartellino: «Sezione visti». Nucleo della futura ambasciata? Si schermiscono: «Non c’entra con noi, ma in teoria forse potremmo già rilasciarli».
Un’amicizia storica, con Mosca: da Caterina la Grande che usò le tribù curde contro Persiani e Ottomani, al «Kurdistan Rosso» creato nel 1923 dai bolscevichi nel Caucaso, al distretto Mahabad in nord Iran voluto da Stalin (1945), al sostegno materiale dato dall’Urss al Pkk in funzione anti-turca. Ieri come oggi. Ocalan nel 1998 chiese asilo in Russia, ma ricevette un niet.
Ora che Washington ha problemi con l’alleato Erdogan, il Grande gioco mediorientale potrebbe compiere un’altra giravolta. Iran permettendo.