domenica 6 marzo 2016

La Stampa 6.3
Le aperture della Chiesa hanno dei limiti
di Enzo Bianchi


Nella chiesa del tempo post-conciliare, da quando papa Giovanni con il suo discernimento profetico individuò tra i «segni dei tempi» l’ingresso della donna nella vita pubblica, più volte si sentono voci - a cominciare da quelle dei papi che si levano per chiedere una più grande valorizzazione della donna nella chiesa, una sua maggior partecipazione alle diverse istituzioni che la reggono e la organizzano, un riconoscimento a lei di tutte le facoltà che in quanto battezzata - e ciò vale anche per i laici battezzati - possiede di diritto.
Come negare che dopo il Vaticano II ci sia una forte presenza femminile nella maggior parte dei servizi e delle diaconie ecclesiali? Nella catechesi, nella formazione cristiana, nell’animazione liturgica sovente oggi sono le donne a supplire alla mancanza di presbiteri. Qua e là esistono ancora posizioni indurite che negano la possibilità alle donne, e di conseguenza alle ragazze, di essere ammesse attorno all’altare, ma all’ambone ormai salgono più donne che uomini a proclamare le sante Scritture. Va effettivamente riconosciuto che la presenza e il servizio delle donne è ritenuto necessario, ma quanto all’ammetterle negli spazi di partecipazione alle responsabilità e alle decisioni per la vita ecclesiale, l’esitazione è ancora grande sicché l’icona che la chiesa presenta alla società è quasi totalmente maschile e appare, lo si voglia o no, un corpo mutilato.
Giustamente le teologhe chiedono di evitare la ricerca di una teologia speciale della donna, ma di far partecipare le donne alla vita della chiesa: basterebbe che là dove ci sono uomini non ordinati - cioè non preti o vescovi - si potessero vedere anche delle donne, battezzate come loro. Nessun attentato alla dottrina, ma una semplice adesione alla realtà della chiesa, composta come l’umanità da uomini e donne. Molte sono le possibilità rispettose dell’attuale dottrina cattolica sul ministero ordinato: basterebbe un po’ di audacia e di volontà di non limitarsi a fare come si è sempre fatto, un po’ di coraggio nell’intraprendere vie che conferirebbero alla donna non «immagini stereotipate romantiche e poetiche», ma un riconoscimento di ciò che è una cristiana: una battezzata con la possibilità di prendere la parola in ecclesia, di essere ascoltata collaborando ai processi decisionali nella chiesa. Se sinodalità come la intende papa Francesco è un camminare insieme non solo di vescovi, ma di tutto il popolo di Dio, allora si devono immettere anche le donne cristiane in questo cammino fattosi così urgente anche se tanto difficile e faticoso.
Papa Francesco nella «Evangelii gaudium» stigmatizza le guerre presenti nello stesso popolo di Dio ed è proprio in questo contesto che non dimentica come il maschilismo e il clericalismo non riconoscano con sufficienza «il bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella chiesa» (EG 103): perciò si augura questa presenza anche dove vengono prese decisioni importanti e chiede a pastori e teologi di cercare e di impegnarsi per dare alla donna un ruolo conforme alla sua dignità di membro del corpo di Cristo nella storia che è la chiesa. Certo, anche papa Francesco non può far altro che ribadire la dottrina tradizionale circa il ministero presbiterale riservato sin dall’età apostolica solo agli uomini e ancor oggi così normato nella chiesa cattolica e in tutte le chiese ortodosse.
Ma questo non significa che la chiesa debba appiattirsi su posizioni che poco hanno a che fare con questa preclusione limitata al ministero ordinato e che pur hanno caratterizzato il modo in cui la chiesa ha considerato le donne nel corso della sua storia bimillenaria. A ragione alcune teologhe sapienti esprimono il timore che oggi «nel momento di passaggio tra il secondo e il terzo millennio cristiano, abbia luogo un riflusso involutivo analogo a quello che ha segnato il passaggio tra il primo e il secondo secolo cristiano e che ha portato alla marginalizzazione delle donne dall’ecclesia cristiana». E se le mutate condizioni socio-culturali rendono meno concreta questa possibilità, resta la nostra grave responsabilità di operare affinché ciò non avvenga.
Oggi, infatti, nella nuova situazione segnata da una rivoluzione antropologica e culturale inedita in gran parte avviata dalle donne, non possiamo più dilazionare una serie di possibilità di presenza della donna nella vita della chiesa e nell’assemblea liturgica. Quello che si dovrebbe chiedere, almeno in obbedienza al messaggio di Gesù, è che sia consentito alle donne ciò che è consentito agli uomini laici, come da sempre è avvenuto nel monachesimo,che riconosce anche alla donna possibilità di governo, di predicazione, di insegnamento dottrinale, di guida spirituale. Non c’è mai stata nessuna differenza nel servizio dell’autorità tra un abate e un’abbadessa, tra un priore e una priora, né si vede perché, se ci sono «padri spirituali», non ci possano essere «madri spirituali». La valorizzazione della presenza, dei carismi e dei ministeri delle donne nella chiesa cattolica non può dipendere da semplici «auguri» mai attuati, né da ostinate rivendicazioni: passa attraverso l’ormai ineludibile riscoperta della pienezza della vocazione battesimale e del conseguente apprezzamento della chiamata che ogni cristiano ha ricevuto per annunciare e testimoniare il vangelo di Gesù Cristo agli uomini e alle donne del proprio tempo.
Il teologo Armando Matteo ha scritto «La fuga delle quarantenni» per indicare la disaffezione e l’abbandono della chiesa da parte delle donne, ma presto se le cose non mutano, registreremo il venir meno anche delle donne più giovani: chi accetta di abitare una casa senza aver possibilità di viverla, governarla, rinnovarla ogni giorno assieme agli altri?