La Stampa 6.3
Le aperture della Chiesa hanno dei limiti
di Enzo Bianchi
Nella
chiesa del tempo post-conciliare, da quando papa Giovanni con il suo
discernimento profetico individuò tra i «segni dei tempi» l’ingresso
della donna nella vita pubblica, più volte si sentono voci - a
cominciare da quelle dei papi che si levano per chiedere una più grande
valorizzazione della donna nella chiesa, una sua maggior partecipazione
alle diverse istituzioni che la reggono e la organizzano, un
riconoscimento a lei di tutte le facoltà che in quanto battezzata - e
ciò vale anche per i laici battezzati - possiede di diritto.
Come
negare che dopo il Vaticano II ci sia una forte presenza femminile nella
maggior parte dei servizi e delle diaconie ecclesiali? Nella catechesi,
nella formazione cristiana, nell’animazione liturgica sovente oggi sono
le donne a supplire alla mancanza di presbiteri. Qua e là esistono
ancora posizioni indurite che negano la possibilità alle donne, e di
conseguenza alle ragazze, di essere ammesse attorno all’altare, ma
all’ambone ormai salgono più donne che uomini a proclamare le sante
Scritture. Va effettivamente riconosciuto che la presenza e il servizio
delle donne è ritenuto necessario, ma quanto all’ammetterle negli spazi
di partecipazione alle responsabilità e alle decisioni per la vita
ecclesiale, l’esitazione è ancora grande sicché l’icona che la chiesa
presenta alla società è quasi totalmente maschile e appare, lo si voglia
o no, un corpo mutilato.
Giustamente le teologhe chiedono di
evitare la ricerca di una teologia speciale della donna, ma di far
partecipare le donne alla vita della chiesa: basterebbe che là dove ci
sono uomini non ordinati - cioè non preti o vescovi - si potessero
vedere anche delle donne, battezzate come loro. Nessun attentato alla
dottrina, ma una semplice adesione alla realtà della chiesa, composta
come l’umanità da uomini e donne. Molte sono le possibilità rispettose
dell’attuale dottrina cattolica sul ministero ordinato: basterebbe un
po’ di audacia e di volontà di non limitarsi a fare come si è sempre
fatto, un po’ di coraggio nell’intraprendere vie che conferirebbero alla
donna non «immagini stereotipate romantiche e poetiche», ma un
riconoscimento di ciò che è una cristiana: una battezzata con la
possibilità di prendere la parola in ecclesia, di essere ascoltata
collaborando ai processi decisionali nella chiesa. Se sinodalità come la
intende papa Francesco è un camminare insieme non solo di vescovi, ma
di tutto il popolo di Dio, allora si devono immettere anche le donne
cristiane in questo cammino fattosi così urgente anche se tanto
difficile e faticoso.
Papa Francesco nella «Evangelii gaudium»
stigmatizza le guerre presenti nello stesso popolo di Dio ed è proprio
in questo contesto che non dimentica come il maschilismo e il
clericalismo non riconoscano con sufficienza «il bisogno di allargare
gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella chiesa» (EG
103): perciò si augura questa presenza anche dove vengono prese
decisioni importanti e chiede a pastori e teologi di cercare e di
impegnarsi per dare alla donna un ruolo conforme alla sua dignità di
membro del corpo di Cristo nella storia che è la chiesa. Certo, anche
papa Francesco non può far altro che ribadire la dottrina tradizionale
circa il ministero presbiterale riservato sin dall’età apostolica solo
agli uomini e ancor oggi così normato nella chiesa cattolica e in tutte
le chiese ortodosse.
Ma questo non significa che la chiesa debba
appiattirsi su posizioni che poco hanno a che fare con questa
preclusione limitata al ministero ordinato e che pur hanno
caratterizzato il modo in cui la chiesa ha considerato le donne nel
corso della sua storia bimillenaria. A ragione alcune teologhe sapienti
esprimono il timore che oggi «nel momento di passaggio tra il secondo e
il terzo millennio cristiano, abbia luogo un riflusso involutivo analogo
a quello che ha segnato il passaggio tra il primo e il secondo secolo
cristiano e che ha portato alla marginalizzazione delle donne
dall’ecclesia cristiana». E se le mutate condizioni socio-culturali
rendono meno concreta questa possibilità, resta la nostra grave
responsabilità di operare affinché ciò non avvenga.
Oggi, infatti,
nella nuova situazione segnata da una rivoluzione antropologica e
culturale inedita in gran parte avviata dalle donne, non possiamo più
dilazionare una serie di possibilità di presenza della donna nella vita
della chiesa e nell’assemblea liturgica. Quello che si dovrebbe
chiedere, almeno in obbedienza al messaggio di Gesù, è che sia
consentito alle donne ciò che è consentito agli uomini laici, come da
sempre è avvenuto nel monachesimo,che riconosce anche alla donna
possibilità di governo, di predicazione, di insegnamento dottrinale, di
guida spirituale. Non c’è mai stata nessuna differenza nel servizio
dell’autorità tra un abate e un’abbadessa, tra un priore e una priora,
né si vede perché, se ci sono «padri spirituali», non ci possano essere
«madri spirituali». La valorizzazione della presenza, dei carismi e dei
ministeri delle donne nella chiesa cattolica non può dipendere da
semplici «auguri» mai attuati, né da ostinate rivendicazioni: passa
attraverso l’ormai ineludibile riscoperta della pienezza della vocazione
battesimale e del conseguente apprezzamento della chiamata che ogni
cristiano ha ricevuto per annunciare e testimoniare il vangelo di Gesù
Cristo agli uomini e alle donne del proprio tempo.
Il teologo
Armando Matteo ha scritto «La fuga delle quarantenni» per indicare la
disaffezione e l’abbandono della chiesa da parte delle donne, ma presto
se le cose non mutano, registreremo il venir meno anche delle donne più
giovani: chi accetta di abitare una casa senza aver possibilità di
viverla, governarla, rinnovarla ogni giorno assieme agli altri?