La Stampa 5.3.16
La strettoia e il conto alla rovescia
di Marcello Sorgi
Almeno
una cosa è chiara, nel confuso scenario dell’intervento in Libia: Renzi
non ha alcuna intenzione di entrare in guerra, né di accelerare la
realizzazione degli impegni presi fin qui sul piano internazionale, in
particolare con gli Usa, che premono perché l’Italia assuma
effettivamente la guida della missione sulla sponda che guarda la costa
siciliana. L’ondata emotiva sollevata giovedì dall’uccisione dei due
operai italiani sequestrati, fortunatamente seguita ieri dalla
liberazione degli altri due ostaggi, non ha fatto cambiare idea al
presidente del Consiglio, sempre più convinto che in questo momento la
Libia sia un vespaio, con in corso una guerra per bande, in cui sarebbe
rischioso e sbagliato andarsi a cacciare.
Interventi «chirurgici», azioni di intelligence contro obiettivi mirati, sì. Ma niente fughe in avanti.
Renzi
si è rafforzato nelle sue convinzioni ragionando proprio sugli opposti
destini toccati ai quattro emigrati italiani: i primi due sarebbero
stati vittime di una banda affiliata all’Isis.
Gli altri due
sarebbero stati liberati dai loro avversari, che ovviamente, nel
restituirli alle autorità italiane, si sarebbero presentati come nostri
alleati.
In un quadro del genere, è difficile stabilire a chi
credere e ancor di più capire che margini avrebbe un governo di unità
nazionale imposto dalla comunità internazionale. Sta di fatto che quel
governo che avrebbe dovuto insediarsi già uno o due mesi fa, ancora non
c’è. Questo è l’esile gancio a cui è appesa la resistenza di Renzi. Una
posizione razionale, ma giorno dopo giorno sempre più difficile da
sostenere, mentre gli Usa bombardano con i droni partiti da Sigonella e
francesi e inglesi sono già in Libia.
Ma così come gli attentati
di Parigi del 2015 a Charlie Hebdo e al Bataclan sono considerati legati
alla decisione di Hollande di scegliere la linea dura contro il
terrorismo islamico e puntare sulla Libia, anche la sorte dei due operai
italiani uccisi e degli altri due liberati prima di essere condannati a
morte è il primo effetto del ruolo più visibile assunto dall’Italia.
Basta solo ricostruire la sequenza delle ultime settimane: le lodi del
segretario alla Difesa americana Carter all’Italia dopo l’incontro a
Palazzo Chigi con Renzi e l’annuncio della disponibilità italiana a
coordinare la missione in Libia.
L’incontro a Washington tra Obama
e il presidente Mattarella, seguito dalla convocazione, da parte del
Capo dello Stato, del Consiglio supremo di difesa, e dal decreto del
governo che apre alla collaborazione, in Libia, tra i servizi e i corpi
speciali delle Forze armate italiane. L’Italia è entrata così nel mirino
dell’Isis, prima ancora di aver mosso un dito in territorio libico. E
per Renzi, dopo quel che è accaduto agli italiani sequestrati, ora c’è
una ragione in più per tenere subordinati gli impegni presi con gli
alleati all’effettivo insediamento del governo libico e alla creazione
di una coalizione internazionale in cui Usa, Francia e Inghilterra
collaborino realmente, e non si muovano in ordine sparso come hanno
fatto finora.
Una logica del genere, è inutile nasconderlo, in
prospettiva è difficile da accettare per gli Usa, che avevano salutato
la disponibilità italiana come garanzia di affidabilità di un vecchio
alleato. Renzi insomma è entrato in una strettoia, perché in questo
momento, in Europa, ha bisogno dell’appoggio di Hollande e Moscovici per
ottenere flessibilità e aiuti per l’immigrazione, evitare la procedura
d’infrazione e portare a casa l’approvazione della legge di stabilità a
Bruxelles. Ma allo stesso tempo sa di non poter reggere a lungo le
pressioni americane.
Pur razionale, di fronte alla confusione
libica, la linea attendista che prevedeva un primo e un secondo tempo
tra il dire e il fare - subito gli impegni diplomatici e solo dopo le
iniziative strategiche e militari - è messa a dura prova. La sensazione è
che anche per l’Italia il conto alla rovescia si stia avvicinando.