La Stampa 4.3.16
Sara e Rachele, l’utero in affitto ai tempi dei patriarchi
Pubblichiamo stralci dell’articolo tratto da «Pagine Ebraiche»
di Riccardo Di Segni
Rabbino capo di Roma Vicepresidente del Comitato nazionale di Bioetica
Nella
animata discussione che si sta sviluppando sul tema della maternità
surrogata è stata tirata in ballo la matriarca Rachele come modello
antico e sacro. La storia biblica racconta che la moglie prediletta del
patriarca Giacobbe non riusciva ad avere figli e questo la faceva molto
soffrire, fino al punto di offrire al marito la serva Bilhà: «unisciti a
lei, che partorisca sulle mie ginocchia, e anche io possa avere figli
da lei» (Gen. 30:3). Giacobbe obbedisce, Bilhà partorisce e Rachele
dice: «il Signore mi ha giudicato e ha anche ascoltato la mia voce e mi
ha dato un figlio» (v. 6). Il paragone con la maternità surrogata
starebbe nel fatto che una donna che non riesce ad avere figli ricorre a
un’altra donna per averli. Ma fino a che punto il paragone regge?
Intanto bisogna ricordare ai frequentatori casuali della Bibbia che la
storia di Rachele che citano è la seconda di questo tipo, essendo
preceduta da quella di Sara, moglie di Abramo, nonno di Giacobbe. Al
capitolo 16 della Genesi si racconta che Sara non avendo figli consegna
al marito Hagàr, la sua serva con la speranza di avere figli da lei;
Abramo obbedisce, la mette incinta e a questo punto si scatena un dramma
tra le due donne che porta alla cacciata di Hagàr, poi al suo ritorno e
alla nascita di un figlio: «Abramo chiamò il nome di suo figlio che
aveva generato Hagàr, Ismaele» (v. 15; si noti l’attribuzione della
paternità e maternità). Anche qui c’è una situazione di sterilità che
viene gestita con l’aiuto di una seconda figura femminile. L’analogia
con la maternità surrogata ci sarebbe solo nel primo caso, ma con una
fondamentale differenza: nella surrogata («in affitto») la madre
biologica scompare del tutto di scena, nella storia biblica la madre
affronta diverse vicende: Bilhà resta in famiglia, fa un altro figlio e
alla morte di Rachele diventa la favorita; Hagàr entra in contrasto
definitivo con Sara che la caccia via di nuovo e per sempre (almeno
finché vivrà Sara); quanto ai figli, altra differenza essenziale: quelli
di Bilhà, benché Rachel dica «mi ha dato un figlio», restano figli
della madre biologica, divenuta «moglie» (Gen. 37:2), e quello di Sara
rimane legato al destino di Hagàr e per questo vittima di una violenta
reazione di rigetto («caccia via questa amà e suo figlio», ibid. 21:10).
Nel caso di Rachele, quindi, il tentativo di appropriarsi di un figlio
altrui sottraendolo alla madre biologica riesce solo in parte e questa
madre non scompare; nel caso di Sara tutta la procedura sembra essere
piuttosto una cura contro la sterilità, e il legame naturale tra madre e
figlio non si interrompe. Tutto molto diverso dalla maternità
surrogata. E ovviamente non si può dimenticare l’altra differenza:
l’inevitabile necessità – in tempi biblici – di ricorso alle vie
naturali di procreazione, mentre, e solo ai nostri giorni, queste
possono essere sostituite dalla più asettica e certo meno appassionante
soluzione della provetta. In più il modello biblico è quello di una
famiglia patriarcale dove c’è un uomo fecondo con la sua signora
sterile, diverso da alcune situazioni di single o di coppia in cui oggi
si ricorre alla maternità surrogata; nella Bibbia in queste storie si
apprezza il desiderio di maternità, non quello di paternità. Il
messaggio biblico poi insegna una morale: nel caso di Bilhà il dramma si
ricompone integrando in famiglia madre e figli, che però restano con
una connotazione un po’ secondaria, come figli di una madre meno
importante; nel caso di Sara c’è solo dramma, e addirittura, secondo la
spiegazione di Nachmanide, questo dramma starebbe all’origine del
risentimento storico dei discendenti di Ismaele nei confronti dei
discendenti del figlio naturale di Sara, Isacco. Come a dire: andiamoci
piano con certe procedure.
Un’ultima considerazione: le persone
che vengono usate per questo «esperimento» biologico sono delle serve.
Se si fanno confronti tra maternità surrogata e storia di Rachele e
Sara, per dire che c’è un precedente che la giustifica, va tenuto ben
chiaro che si tratta di sfruttamento di persone non libere. Il che non è
un bel modo per giustificare moralmente una procedura attuale.