La Stampa 4.3.16
Rodchenko
Sperimentare. Dovere d’artista
Mostra a Lugano sul padre del costruttivismo russo. Dal furore rivoluzionario alle purghe staliniane
di Andrea Colombo
Genio
dai mille talenti, pittore, designer, fotografo, grafico, Rodchenko è
stato l’artista che più di tutti ha incarnato il mito sovietico, salvo
poi finire stritolato negli ingranaggi del regime stalinista. Ora una
grande mostra a Lugano, con quasi 300 opere, incentrata principalmente
sulla sua ricca attività fotografica, ne celebra la creatività e il
coraggio sperimentale (“Aleksandr Rodchenko”, Lac, a cura di Olga
Sviblova, fino all’8 maggio).
Attraverso gli scatti, i
fotomontaggi, la grafica di riviste, libri e poster, l’esposizione
ripercorre la tormentata vicenda di un artista che, nato povero nel 1891
a San Pietroburgo, raggiunge negli Anni 20 i vertici dell’élite
culturale sovietica. Diventato famoso per aver rivoluzionato la
fotografia attraverso prospettive e angolature vertiginose e insolite,
inizialmente è attratto dal dinamismo futurista.
L’amico Majakovskij
Nel
1914 incontra per la prima volta Majakovskij in una serata infuocata
all’Assemblea dei nobili di Kazan. Inizia così un’amicizia che
sconvolgerà i canoni della letteratura e della grafica d’avanguardia
russe. Un legame immortalato nei ritratti fotografici esposti a Lugano,
dove gli occhi del poeta sprigionano un’energia inquietante, presagio di
una tragedia incombente.
Rodchenko, ormai trasferitosi a Mosca,
accoglie con entusiasmo la rivoluzione dell’ottobre del 1917 ed è
convinto che bisogna fare tabula rasa del passato. Allo stesso tempo
sogna di costruire un mondo nuovo e nel 1921 realizza le
fantascientifiche Costruzioni spaziali in alluminio. In mostra si
possono ammirare tre riproduzioni di queste opere andate perdute: grossi
fiori metallici collocati in una sala dalle grandi vetrate, con vista
sul lago. Il contrasto non può essere più netto: le visioni futuristiche
delle sue sculture irrompono nella placida armonia del paesaggio
cittadino svizzero.
Sperimentare!
Nei primi Anni 20
Rodchenko conia lo slogan «il nostro dovere è sperimentare». Realizza
diversi fotomontaggi per illustrare i libri di Majakovskij dove la
poesia si sposa con una grafica aggressiva e sorprendente. Si dedica
anche alla pubblicità: celebre il poster dove una ragazza sorridente
amplifica, con un megafono composto in caratteri cirillici, il proclama
«Leggete!». Nel 1924 illustra i funerali di Lenin con un fotomontaggio
costruttivista dove la salma del leader è riprodotta più volte ed è
sospesa fra linee rosse. Il messaggio è chiaro: la rivoluzione continua.
«Non imbalsamate Lenin» è il suo grido d’allarme, puntualmente
disatteso dal regime.
Ma in questo periodo c’è ancora sintonia fra
autorità bolsceviche e artisti d’avanguardia: Rodchenko ottiene vari
incarichi statali come insegnante di design e arte. Nel 1925 arriva la
consacrazione internazionale: progetta il padiglione russo
all’Esposizione internazionale di Parigi. Tornato in patria dai trionfi
parigini, si rende però conto che quello che doveva essere il paradiso
degli operai e degli artisti si sta trasformando in un inferno grigio e
repressivo.
Fine degli esperimenti
Negli Anni 30 avanza il
realismo socialista e iniziano tempi duri per gli esponenti delle
avanguardie. Rodchenko viene sollevato da ogni insegnamento. Relegato in
un angolo, non stupisce se nel 1933 accoglie con entusiasmo l’incarico
ufficiale di andare in Carelia per fotografare i lavori del canale sul
Mar Baltico. L’artista scatta oltre duemila fotografie dei
lavoratori-prigionieri del «canale Stalin».
Alcuni di questi
scatti sono in mostra a Lugano e fanno emergere tutta la drammaticità di
questa colossale impresa schiavistica. L’artista s’illude ancora di
poter sperimentare, pur nel recinto ristretto delle regole imposte dal
regime. Ma si sbaglia. Le foto degli Anni 30 presenti nella
retrospettiva, spesso smaccatamente propagandistiche, sono solo un
pallido ricordo del Rodchenko futurista e costruttivista. Riprende a
disegnare, quasi di nascosto. Fotografa clown tristi e bizzarri, tragici
spettri di un mondo impaurito. Sono scatti dai contorni sfumati: è il
suo tentativo, dall’esito paradossalmente antiretorico, di interpretare
il realismo socialista.
La guerra
Scoppia la guerra, con la
famiglia è evacuato nella gelida regione di Perm. Dopo il conflitto si
trova ancora più emarginato. Tradito dai seguaci di un tempo, lavora a
progetti che non verranno mai pubblicati. L’estrema umiliazione giunge
nel 1951 quando il sindacato degli artisti lo depenna dalla lista degli
iscritti. Alla persecuzione politica si aggiunge la salute malferma:
soffre infatti di frequenti attacchi di ipertensione. Nel 1953 muore
Stalin. Due anni dopo, ormai alla fine della sua parabola esistenziale,
viene riammesso nel sindacato ed espone nella mostra fotografica della
Casa dei giornalisti a Mosca. Ma la riabilitazione arriva troppo tardi.
Dopo aver lavorato alla grafica del poema di Majakovskij Bene!, dedicato
alle imprese della rivoluzione d’ottobre, si spegne, circondato dai
pochi amici rimasti e dai familiari, in una notte di dicembre del 1956.