Repubblica 4.3.16
Perché Hillary non è il femminismo
di Camille Paglia
QUANDO
a inizio febbraio Bernie Sanders ha vinto su Hillary Clinton in modo
schiacciante nelle primarie in New Hampshire, l’establishment femminista
statunitense della vecchia guardia ha incassato un brutto colpo.
Malgrado i tentativi in extremis di Gloria Steinem, l’astuta e
incontestata sovrana del femminismo, di spingere un’insicura Hillary
oltre la linea del traguardo, Sanders ha conquistato i voti delle donne e
lo ha fatto in ogni fascia di età a eccezione di quella più anziana.
Quando poi ha dichiarato in tv che le giovani che sostengono la campagna
di Sanders lo fanno semplicemente per avere l’occasione di conoscere
giovani uomini, con un colpo solo Gloria Steinem è riuscita a infliggere
una batosta all’intelligenza e all’idealismo delle giovani e a far
scomparire, quasi spettrale non-persona, ogni sostenitrice lesbica di
Sanders.
La maschera umanitaria di Steinem, levigata in modo
sapiente e raffinato, è quindi caduta. Prima d’ora non era mai accaduto
che l’opinione pubblica, qui o all’estero, si rendesse conto con
altrettanta evidenza dell’arroganza e dell’amorale dinamica
manipolatoria dell’élite al potere che ha fatto deragliare e fermato per
sempre la seconda ondata del femminismo.
Il giorno seguente, l’ex
segretaria di Stato Madeline Albright (nominata da Bill Clinton) ha
accompagnato a un comizio Hillary e, tra le risate e i battimani di
quest’ultima, ha proclamato che «all’inferno esiste un posto speciale
riservato alle donne che non aiutano le altre donne». A quanto pare,
governare stizzosamente il mondo non è bastato al politburo femminista,
che adesso interviene a sproposito nel gioco della salvezza e della
dannazione.
Ma quali autentici successi lascia Hillary dietro di
sé, dopo una carriera così evanescente per ciò che concerne i risultati
concreti? È vero, le hanno assegnato un incarico dopo l’altro, ma per lo
più in ragione del suo legame, assai poco femminista, con un uomo. Da
senatrice non ha dato vita a nulla di significativo, e da segretaria di
Stato è inciampata in un catastrofico fiasco dietro l’altro, accrescendo
la destabilizzazione del Nordafrica e del Medio Oriente.
Quando e
in che modo Hillary è assurta allo status di presunta icona del
femminismo, come sembrano evidentemente credere così tante giovani
donne? La sua fama ha sempre avuto i suoi presupposti non in un
risultato da lei conseguito bensì nel suo matrimonio con un uomo
carismatico, oggi rimbambito. Nel suo discorso alla Quarta Conferenza
Mondiale sulle Donne delle Nazioni Unite a Pechino, nel 1995, Hillary
elencò gli ostacoli e gli orrori patiti da donne e bambini nel Terzo
Mondo, ma il suo appello ad “andare oltre la retorica” rimase
inascoltato e privo di un risultato concreto. Oltre a ciò, in un brano
cruciale di quel discorso, ogni singola frase riguardante i suoi
incontri con donne in stato di necessità iniziava con il pronome
personale “io”, inquietante anticipazione dell’uso eccessivo di “io” che
fa nella sua attuale campagna elettorale.
Hillary frequentava la
Law School di Yale quando io, proprio di fronte a lei, studiavo per il
master. Nel 1970, alla Law School si tenne una conferenza femminista
alla quale ci fu scarsa partecipazione, ma in quell’occasione presero la
parola personaggi di spicco come Kate Millett e Naomi Weisstein. Se
Hillary fu presente, di sicuro non fece nulla per farsi notare. Fu
proprio a quella conferenza che mi resi conto che il femminismo di
ritorno – che allora compiva poco più di tre anni – stava già
deragliando. Per esempio, ricordo Rita Mae Brown, lesbica radicale,
dirmi: «La differenza tra te e me, Camille, è che tu vuoi salvare le
università, mentre io vorrei raderle al suolo».
Ho già raccontato,
altrove, dei miei molteplici scontri burrascosi con le prime femministe
– da quando per poco non feci a pugni con la Liberation Rock Band delle
donne di New Haven per il mio struggente amore per quei “sessisti” dei
Rolling Stones, al livoroso alterco sull’esistenza stessa degli ormoni
sessuali con alcune docenti di studi femminili in un ristorante di
Albany. E fu proprio a causa della follia borderline di molte di quelle
donne che io diventai un’ammiratrice di Gloria Steinem dal primo istante
che lei fece la sua comparsa sulla scena nazionale.
Con i suoi
occhiali chic da aviatore, i suoi pantaloni attillati a vita bassa e la
sua chioma fluente e le mèche bionde, la telegenica Steinem diede una
certa normalità all’immagine pubblica del femminismo, rendendolo
attraente per un vasto seguito di conservatori benpensanti. Steinem
emanava fermezza e cordialità, e presentava gli obbiettivi del
femminismo come qualcosa di assolutamente ragionevole. Cofondatrice di
Ms, creò la prima rivista femminista su carta patinata venduta nelle
edicole: quella testata dette un contributo significativo alla lingua
inglese, priva di un appellativo di cortesia che non esprima per forza
lo status delle donne sposate o non sposate.
Quando all’inizio
degli anni Settanta la rivista Times per la prima volta sollecitò a
candidare una donna alla presidenza, io spedii una fiorita presentazione
per proporre il nome di Gloria Steinem, intuendo che si sarebbe
affermata «quando l’età avrebbe appannato la sua bellezza» come donna
saggia e autorevole, rispettata da tutti. Tenuto conto di questo passato
fatto di rispetto e ammirazione, sono rimasta fortemente delusa dalla
direzione imboccata dalla carriera di Steinem. La rivista
Ms
divenne ideologicamente sigillata, non consentì un dibattito aperto su
numerose questioni urgenti, quali la frettolosa e ignorante istituzione
di un curriculum di studi femminili che, del tutto irrazionalmente,
escludeva lo studio della biologia. La mia stessa ala femminista pro-sex
fu del tutto estromessa da Ms.
Quando dichiarò che «una donna ha
bisogno di un uomo come un pesce ha bisogno di una bicicletta», Steinem
entrò in combutta con le furiose femministe che davano addosso ai maschi
con aggressività. Il tono mellifluo, sprezzante e condiscendente che
adottava quando parlava degli uomini divenne lo stile abituale delle
femministe. Senza figli, degradò le mamme che stavano a casa allo status
di donne di serie B. Col suo fanatismo ebbe un ruolo determinante
nell’infiammare un tema cruciale, l’aborto, e lo fece al punto da
allontanare decine di migliaia di potenziali reclute del femminismo,
tutte quelle donne che nutrivano obiezioni di natura etica nei confronti
dell’aborto per la loro fede religiosa.
Steinem e le leader
dell’Organizzazione nazionale per le donne hanno permesso che la loro
agenda faziosa snaturasse l’autentica universalità del femminismo.
Dietro le quinte sono diventate tutte agenti segrete del partito
democratico. Permettendo a Bill Clinton di passarla liscia per aver
violato in modo così basso e volgare i principi fondamentali sulle
molestie sessuali – quando indusse una giovane stagista, Monica
Lewinsky, a soddisfarlo negli uffici della Casa Bianca —, Steinem ha
peccato di sfacciata ipocrisia.
La rivolta delle femministe
pro-sex contro l’establishment femminista ebbe inizio a San Francisco,
alla fine degli anni Ottanta, con lesbiche dall’aspetto spiccatamente
femminile e si diffuse in tutta la nazione negli anni Novanta. Io entrai
in aperto conflitto con le leader del movimento quando nel 1990 la Yale
University Press pubblicò il mio primo libro, Sexual Personae, respinto
da sette editori. Steinem, che ovviamente non si era presa neppure la
briga di leggerlo, paragonò quel volume di 700 pagine sulla letteratura e
l’arte al
Mein Kampf di Hitler e di me disse: «Che si reputi
femminista è un po’ come per un nazista affermare di non essere
antisemita». È così che funzionava l’establishment femminista: con la
diffamazione automatica.
Per quasi 25 anni, Hillary Clinton – col
suo modo di alludere sotto sotto a una sprezzante considerazione degli
uomini –, è stata scortata, sospinta e sostenuta da una schiera di
potenti giornaliste della carta stampata e della televisione e di intime
amiche o simpatizzanti di Steinem che avrebbero molto di cui
rispondere. Affascinate da Hillary durante i loro pranzi esclusivi e le
loro chiacchierate a porte chiuse, hanno tutte incoraggiato le sue
ambizioni a diventare presidente. Tuttavia, dopo due campagne elettorali
nazionali, dovrebbe essere ormai ovvio che Hillary non possiede né
l’istinto né l’abilità naturale di comprendere l’opinione pubblica e di
comunicare con lei come esige la carica di presidente. E il sessismo non
ha niente a che vedere con questo.
Camille Paglia è docente di
materie umanistiche e mass media all’Università delle Arti di
Filadelfia. L’ultimo libro che ha pubblicato si intitola Seducenti
immagini: un viaggio nell’arte dall’Egitto a Star Wars.
Traduzione
di Anna Bissanti Questo articolo è stato pubblicato su www. Salon. com.
Una versione online è disponibile nell’archivio di Salon
©RIPRODUZIONE RISERVATA
“ ”
Le hanno assegnato un incarico dopo l’altro per il suo legame con un uomo