La Stampa 31.3.16
“Bisogna passare a un sistema misto. E i ricchi devono contribuire di più”
L’esperto economista: “Assistenza gratuita solo a chi è davvero indigente”
di Francesco Spini
La
Sanità come le pensioni? In un Paese sempre più vecchio e che cresce
poco, un ripensamento del Servizio sanitario nazionale «sarebbe
opportuno», dice Federico Spandonaro, docente di Economia sanitaria
all’Università di Roma Tor Vergata. Che avverte: «Bisogna fare molta
attenzione: anche nel passaggio al sistema contributivo le pensioni Inps
si sono ridotte, ma i sistemi complementari, in un momento di scarsa
crescita finanziaria, non hanno fatto faville...».
Come si può intervenire nella sanità?
«La
cosa più equa sarebbe avere una redistribuzione della spesa sanitaria
tra pubblico e privato. Dal punto di vista del cittadino è meglio
pagarsi le 10-20 euro della scatola dell’antibiotico che serve a curare
una bronchite (tanto più che circa il 28% della spesa sanitaria
farmaceutica è per scatole che costano meno di 5 euro) ma avere dal
sistema sanitario i 30 mila euro del farmaco quando si ha un problema
serio. Questo però si scontra con un problema tipicamente italiano».
Quale?
«Tutto
questo funziona bene se si ha un sistema fiscale che funziona
altrettanto bene. Chi è davvero indigente dovrebbe avere tutte le
prestazioni assicurate dal pubblico, gli altri potrebbero pagarsi una
parte delle terapie. Il problema che non sempre si capisce dove sta la
vera indigenza. In questo momento in Italia abbiamo esenzioni che sono
ridicole da un punto di vista sociale: una persona dal reddito
medio-alto se è iperteso ha diritto ad avere gratuitamente il
beta-bloccante, che costa meno di 20 euro al mese. Mi chiedo: ha ancora
senso assicurare con fondi pubblici cose del genere?».
L’ultimo
rapporto dell’Aifa segnala che l’anno scorso abbiamo «sforato» il budget
per la spesa farmaceutica per 1,7 miliardi. Come se ne esce?
«Ci
sono due strade, ma sono poco praticabili. Se il nostro Pil crescesse di
almeno il 2% l’anno i fondi ci sarebbero. Inoltre, ci sarebbe spazio
per abbassare i prezzi dei farmaci più innovativi. La sensazione è che i
prezzi non siano più giustificati dai costi della ricerca quanto da
aspetti legati alla finanza: avere un farmaco ad alto costo contribuisce
al valore dei titoli delle società farmaceutiche in Borsa. Non si può
dimostrare, ma il sospetto c’è nel caso di farmaci come quelli per
l’Epatite C. Come si vede, l’unico sistema è rimodulare la spesa tra
pubblico e privato».
Ci sono modelli in altri Paesi a cui possiamo ispirarci per ridisegnare la sanità risparmiando?
«Direi
di no, noi spendiamo un 30% in meno dei 14 principali Paesi Ue dove ci
sono sistemi mutualistici. Là si spende di più, non per via di sprechi
ma perché vengono erogati servizi superiori ai nostri».
Noi invece spendiamo meno e abbiamo sempre di meno?
«Se
si guardano le statistiche Eurostat sui cittadini che dichiarano di
avere problemi di salute di lunga durata, dieci anni fa l’Italia stava
messa molto meglio del resto d’Europa. Ora - nonostante siamo favoriti
dalla dieta e dal clima - ci stiamo allineando ai Paesi del Nord».
Riterrebbe utile importare il sistema americano in Italia?
«Spero
che non accada: la quota pubblica è talmente bassa che le disparità
sono enormi. La suddivisione tra risorse pubbliche e private è del 50%.
Non pensiamo però che in Italia la spesa sia completamente statale.
Siamo al 70% di pubblico e al 30% di privato».
Che cosa non funziona, allora?
«Il
punto è che in Italia, oggi, la spesa privata serve più che altro a
saltare le liste d’attesa e coprire altre inefficienze. Servirebbe un
sistema con una spesa meglio ridistribuita. Se chi ha maggiori
disponibilità economiche avesse una sanità integrativa con strutture
dedicate in cui lo Stato partecipasse solo in parte, questo sgraverebbe
le liste d’attesa negli ospedali pubblici e creerebbe davvero un sistema
complementare. La spesa prima ancora che cambiata, va riqualificata».