La Stampa 31.3.16
La Sanità pubblica, la bomba che ticchetta inesorabile
di Luigi La Spina
C’è
una bomba sociale nel futuro degli italiani. Non è eventuale, come
quella del terrorismo, perché lo scoppio è, purtroppo, inevitabile. Non è
percepita nella sua gravità, come quella dell’immigrazione, esasperata
per motivi elettorali da una politica che, invece, preferisce ignorarla.
Ma è quella che rischia di sconvolgere di più l’esistenza di tanti
nostri cittadini e delle loro famiglie: l’impossibilità, per i prossimi
decenni, di assicurare a tutti la Sanità pubblica.
In tutto il
mondo, il giudizio sull’assistenza che il nostro Stato fornisce a chi si
ammala è molto positivo. È vero, infatti, che la riforma del 1978,
quella che istituì il Servizio sanitario nazionale, è tuttora un modello
invidiato da molte nazioni, ma, con il passare del tempo, il rispetto
del dettato costituzionale che prescrive il diritto alle cure per tutti i
cittadini è rimasto sulla carta. In concreto, già oggi è ormai
largamente disatteso. In futuro, sarà una garanzia inattuabile.
I
motivi sono molteplici, ma, tutti insieme, costringeranno a prendere
atto dell’insostenibilità di un sistema di welfare sanitario che si
fondava su una situazione demografica, economica, sociale molto diversa
dall’attuale.
I numeri non sono opinioni e le previsioni della
demografia sono più attendibili di quelle meteorologiche. Alla fine
degli Anni 70 del secolo scorso, una grande moltitudine di giovani, nati
nell’epoca del baby-boom, con il loro lavoro prevalentemente a tempo
indeterminato e, quindi, con i loro contributi, poteva assicurare a un
numero abbastanza ridotto di nonni e di genitori un futuro garantito da
pensioni e cure sanitarie. Quel futuro, purtroppo, non era molto lungo,
perché le aspettative di vita erano minori, i progressi della medicina
non così promettenti, le condizioni economiche peggiori. Ora le
prospettive sono totalmente differenti: pochi giovani, in larga parte
con occupazioni precarie, chiamiamole pure «flessibili» per pudore
linguistico, dovranno mantenere generazioni numerosissime, longeve, per
fortuna, ma costrette a lamentare quei tanti acciacchi che l’età
comunque non risparmia. È dunque inevitabile che i costi dell’attuale
sistema sanitario siano destinati a un fragoroso e doloroso scoppio.
Non
sono solo demografi ed economisti, però, ad accendere le micce a questa
bomba. Due sciagurate decisioni, a cavallo del secolo, hanno peggiorato
ulteriormente la situazione. Dal 1999, una serie di sentenze hanno
fatto nascere in Italia un tale contenzioso giudiziario nel settore
delle sanità da provocare la nascita della cosiddetta «medicina
difensiva». Sono circa 300 mila, infatti, le cause pendenti nei
confronti dei medici, per un costo stimato di 10-14 miliardi di euro,
cioè quasi il 10% del fondo sanitario nazionale. L’ovvio risultato è
quello di un aggravio sensibile sia sul sistema giudiziario italiano,
considerato, poi, che il 97 % dei procedimenti si conclude con un
proscioglimento, sia sui costi di quello sanitario, perché non c’è
argine alla valanga di cure, medicine, esami diagnostici non necessari,
ma utili per evitare denunce che nascono dalla falsa convinzione, ormai
diffusa, che il «diritto alla cura» equivalga al «diritto alla
guarigione».
Su questo fronte, bisogna dare atto che è stata
approvata dalla Camera, e lo sarà pure dal Senato entro l’estate, una
legge che modifica la normativa, in modo da assicurare ai malati una
doverosa tutela e un doveroso risarcimento negli effettivi casi di
«malasanità», ma che riduce i rischi di speculazione, le cosiddette
«liti temerarie». Come, d’altra parte, si è riconosciuta la pericolosità
di restrizioni burocratiche, dettate puramente da esigenze finanziarie,
al libero giudizio dei medici sulle necessità dei loro pazienti.
L’altra
decisione, questa volta di natura politica, che ha reso di fatto
inevaso il dettato costituzionale sul diritto dei cittadini alle cure è
la pessima riforma federalista del 2004, quella che ha prodotto 21
modelli diversi di sistema sanitario sul territorio nazionale. Si è
prodotto un infernale circolo vizioso fondato sulla mancata eguaglianza
degli italiani di fronte alla malattia. Le regioni con una sanità di
migliore livello attirano pazienti che arrivano dai territori più
penalizzati. Con il risultato, non solo di maggiori disagi e costi per i
malati «migranti», ma di impoverire sempre di più le regioni di
provenienza, costrette a pagare rimborsi cospicui a quelle che hanno
provveduto, in vece loro, alle cure dei loro corregionali. Così le casse
sanitarie più gonfie diventano sempre più ridenti, quelle più misere,
sempre più piangenti.
Anche su questo federalismo «malato», per
restare in tema, si sta cercando di porre qualche rimedio, perché la
riforma costituzionale che dovrà essere sottoposta a un prossimo
referendum riduce le competenze delle Regioni nella sanità ai soli
aspetti organizzativi e di programmazione, riservando al governo
centrale il compito di stabilire gli indirizzi generali. Così come la
legge di stabilità dovrebbe garantire minori influenze politiche nella
scelta dei direttori generali e dovrebbe porre un freno a quella
scandalosa «gonfiatura» del personale amministrativo dovuta agli
interessi clientelari ed elettorali dei partiti.
Provvedimenti,
per carità, opportuni e che potranno essere utili a tamponare una
situazione che si avvia al collasso e soprattutto che costringe molti
italiani a rivolgersi o all’assistenza privata, per chi se lo può
permettere, o a rinunciare, in molti casi, alle cure anche più
necessarie. Le lunghe, insopportabili, vergognose attese per una visita o
per un intervento nei nostri ospedali pubblici sono la dimostrazione,
più evidente e più clamorosa, che il modello della nostra sanità,
concepito nel 1978, è ormai scaduto.