giovedì 31 marzo 2016

La Stampa 31.3.16
Il malinconico sorriso di Testa lo chansonnier capostazione
Muore a 57 anni il cantautore che ha dato voce all’umanità che soffre
di Gabriele Ferraris

È stata breve ma straordinaria, la vita felice di Gian Maria Testa. È morto ieri a 57 anni, e ne aveva già 37 quando una serie di inconsuete circostanze gli aprì la strada della popolarità. In vent’anni Gian Maria ha ottenuto ciò che tanti inseguono vanamente per tutta l’esistenza. Il successo, certo. Ma anche l’amore di una donna speciale. E - ciò che più conta - la saggezza. Gian Maria Testa era un cantautore, un poeta, un artista. Ed era un uomo saggio. Di quella saggezza contadina che gli ha consentito di affrontare gli applausi senza insuperbire, e la malattia senza tremare. Conservando sempre un misterioso sorriso. Adesso la lotta di Gian Maria Testa è finita. Lui non c’è più. Come sempre si dice, restano per tutti noi le sue canzoni.
A me resta la nostalgia di un amico e un uomo speciale. Ci eravamo conosciuti nel 1996 a Parigi. Su qualche giornale avevo letto che lo «chansonnier italien» Gian Maria Testa l’indomani avrebbe tenuto un concerto all’Olympia. All’epoca sapevo poco di questo capostazione di Cuneo che scriveva canzoni bellissime, e in Francia era molto amato, mentre da noi non se lo filava nessuno. Così mi venne voglia di conoscerlo. Ci demmo appuntamento in un bistrot al Marais, la mattina del gran giorno del concerto all’Olympia. E andai a incontrare questo capostazione di Cuneo che si preparava a salire sul palcoscenico dell’Olympia immaginando che avesse addosso una strizza del diavolo.
Gian Maria Testa non dava l’impressione di aver addosso una strizza del diavolo. Lui poi mi ha confessato che ce l’aveva. Però la nascondeva molto bene dietro i baffi stropicciati. Non mi dava neppure l’impressione di essere un capostazione. Ma questo dipende dal fatto che i capistazione me li sono sempre immaginati con il berretto rosso. Lui me lo ha anche mostrato, il berretto rosso, per cui ho la certezza che all’epoca era davvero un capostazione. Ha lasciato quel mestiere molto tempo dopo: da buon cuneese di sangue contadino prima di convincersi a mollare il posto fisso in ferrovia s’è fatto anni di vita d’inferno, la notte i concerti e la mattina il lavoro, che si sa come vanno le cose nel mondo dello spettacolo, oggi sei una stella e domani ti cerca più nessuno...
Ad ogni modo: quella mattina nel bistrot del Marais parlammo a lungo di varia umanità, e poco di musica. Parlammo molto in piemontese, e ci pareva di essere la versione nordista di Totò e Peppino a Parigi. Fu una mattina piacevole. E la sera, all’Olympia, fu un trionfo. Io poi scrissi un lungo articolo raccontando la storia del capostazione all’Olympia, e subito dopo Enzo Biagi lo intervistò al «Fatto» e Gian Maria Testa divenne popolare anche in Italia.
Da quel giorno sono passati vent’anni, ed è stato bello ascoltare, in questi vent’anni, i dischi e i concerti di Gian Maria Testa. Non tantissimi, i dischi. Ma tutti necessari, precisi. Canzoni che raccontano la vita, i sentimenti, ma anche i drammi del nostro presente. Gian Maria aveva in sé una passione civile vera, una compassione profonda per l’umanità che soffre e che lotta. Nel nostro tempo sbandato, lui non s’è tirato indietro. Senza clamori né ostentazioni, affrontava nelle sue canzoni temi come l’immigrazione e le nuove povertà, che oggi non vanno in classifica. Gian Maria se ne fregava, delle classifiche. Faceva ciò che gli sembrava giusto; e perché gli sembrava giusto.
Certo, è stato un uomo fortunato: ha avuto un dono, e ha saputo metterlo a frutto. Ma dietro ad ogni uomo fortunato c’è sempre una donna intelligente e innamorata. Sua moglie Paola, manager di talento, ha inventato per lui spettacoli memorabili, affiancandogli i nomi più belli della musica e del teatro italiani, da Enrico Rava a Erri De Luca, e portandolo sui più importanti palcoscenici d’Europa e d’oltre Oceano.
L’ultima volta li avevo incontrati, lui e Paola, a Sarzana, al Festival della Mente, in settembre. Domandai come andava. Bene, mi disse lui, bene, sono un po’ affaticato ma resisto. Ci abbracciammo. Gli dissi che la prossima volta l’avrei rivisto sul palco. Sapevamo che non era vero. Ma era bello crederlo.