il manifesto 31.3.16
Gianmaria Testa, una voce tra impegno e poesia
Musica.
Morto a 57 il cantautore cuneese. Sapeva trovare le parole giuste, sia
che cantasse di migranti o e della necessità di conservare la memoria
storica
di Guido Festinese
«Eppure lo sapevamo
anche noi l’odore delle stive, l’amaro del partire, lo sapevamo anche
noi. E una lingua da disimparare e un’altra da imparare in fretta prima
della bicicletta, lo sapevamo anche noi. E la nebbia di fiato alle
vetrine, il tiepido del pane e l’onta di un rifiuto. Lo sapevamo anche
noi questo guardare muto». Sono parole dedicate allo scrittore amico
Jean Claude Izzo, le trovate in una canzone disseccata e meravigliosa
che si intitola Ritals, su un disco che, a sua volta, si intitola Da
questa parte del mare. E che il 19 aprile prossimo sarà anche un libro
pubblicato da Einaudi. Parole che andrebbero scolpite sui muri e nelle
coscienze, perché invece «l’amaro del partire» è diventato, nella
Fortezza Europa, filo spinato, muri alzati, e la voglia spietata e
sinistra di «non lasciarsi commuovere dagli occhi dei bambini migranti»,
come si sente dire in giro da qualche politico.
Gianmaria Testa
ha perso la sua battaglia fiera e dignitosa contro un cancro non
curabile, ma ci lascia parole come quelle che abbiamo segnalato in
apertura di questo ricordo. Che dovrebbe e vorrebbe essere pudico e
sottovoce come il suo protagonista, il piemontese cinquantasettenne con
gli occhiali tondi, i baffi, e la voce bella e amara screziata da troppe
sigarette e dalla fatica, sempre, di trovare le parole giuste. Perché
Gianmaria Testa l’aveva scoperto, il piccolo segreto di Homo Sapiens:
che siamo creature costruite sulle storie, e che le storie le costruiamo
per lasciarle alla generazione che verrà e che ne sarà formata.
E
sono favole, canzoni, racconti di dignità da non perdere e di dignità
da ritrovare, come quella dei migranti a cui Testa regalò le parole del
suo disco più bello. Tra le moltissime riserve di dignità di un uomo che
aveva sempre tenuto la schiena dritta, anche in un mondo fatto di
ammicchi e piccole concessioni «al mercato», quello della canzone
d’autore, piace ricordarne una speciale. Gianmaria Testa non era
contattabile e reperibile per spettacoli il giorno del 25 aprile, la
festa degli italiani con la schiena dritta.
Era sempre in uno di
quei santuari civili del suo Piemonte a cantare per i partigiani e a
ricordare che se lui aveva avuto la piccola grande fortuna di poter
tenere una chitarra in mano per raccontare le proprie storie in libertà,
era per via di quei ragazzi che avevano rischiato e spesso perso la
vita nella prima metà del secolo breve e spietato, il Novecento. Una
religione civile che non ammetteva deroghe. Perché Gianmaria Testa, che
all’inizio molti confusero, per snobismo e supponenza, solo con un
bizzarro piemontese innamorato degli chansonniers cugini d’Oltralpe, una
specie di Paolo Conte in minore, era una specie di roccia lucida e
intransigente, quando si trattava di prendere posizione.
Il suo
impegno era quello di una persona che non aveva mai perso i punti di
riferimento della dignità civile: il valore del lavoro messo sotto
scacco come fosse un orpello o un privilegio occasionale, il rispetto
per gli altri, in primis quelli che vanno a cercare fortuna dove
possono, perché gli esseri umani, come dicono gli antropologi, hanno i
piedi per muoversi, non le radici, la necessità della memoria. Triade
spessa assai, ma che in Testa decantava in voli di sublime, compatta
leggerezza: perché Gianmaria Testa entrava sui palcoscenici e nelle cose
da descrivere in punta di piedi, ma poi sferrava offensive di
intelligenza poetica ai bordi della visionarietà. Ad esempio: non c’era
quasi concerto in cui non riproponesse Miniera, la canzone sul minatore
migrante che salva tutti gli altri, ma non se stesso, e che nelle mani
di un altro sarebbe sembrata solo retorica da cartolina pencolante sui
tre quarti di un valzerino.
Ad esempio: il ripercorrere qualche
traccia lasciata dai passi di Fabrizio De André, restituendo ispida
selvatichezza all’Hotel Supramonte. O accennando una canzone dimenticata
ma costruita con pezzi di memoria sul palco dei teatri a fianco
dell’amico di sempre, Erri De Luca, per raccontare le storie dello
sconfitto ma «invincibile» Don Chisciotte. Con accanto, anche , l’altro
amico il clarinettista jazz Gabriele Mirabassi.
Gianmaria Testa
non ha mai avuto i grandi numeri nelle classifiche, ma neppure l’urgenza
di fare uscire dischi a comando, perché il mercato li richiede.
Scriveva e registrava quando aveva qualcosa da dire. Piace ricordarlo
con l’uniforme da capostazione, in Piemonte, a scrivere nelle sere
gelide le storie di mongolfiere e barchette di carta, e poi trovare la
voglia e il coraggio di dire addio anche a quello, allo stipendio che
arrivava tutti i mesi, e mettersi in gioco totalmente. Certo, il
pubblico francese ed europeo s’era accorto di lui ben prima che gli
annoiati italiani con buona dose di spocchia verso i cantautori.
Lui
non se ne curava, e dopo aver flirtato con i ricordi della canzone
francese e dello swing, aveva trovato la sua strada vera, un gioco da
equilibrista maestro tra impegno civile e poesia e scrittura e anche per
i bambini, perché l’uomo cresciuto nel Piemonte più duro e contadino
era capace di struggenti capacità di ascolto, per i più piccoli, e di
scrittura, per loro. Erano scaturiti dischi bellissimi come Altre
Latitudini, il citato Da questa parte del mare, Vitamia. L’ultimo regalo
Men At work, dal vivo. Si noti il titolo: lavori in corso. Gianmaria
Testa sapeva trovare le parole giuste, e i cercatori di parole sono
migliori dei cercatori d’oro, perché noi umani, si diceva, siamo
creature fatte per ricevere e raccontare storie, non oro. E’ l’unico
patrimonio che non ha degrado né abiezione.