giovedì 31 marzo 2016

La Stampa 31.3.16
Owens, l’uomo che umiliò Hitler
In “Race” la storia dell’atleta nero che a Berlino batté l’asso tedesco Lutz Long
di Alessandra Levantesi Kezich

Stephan James è Jesse Owens nel film «Race - Il colore della vittoria» di Stephen Hopkins Alcune situazioni colpiscono forte il segno come per esempio la coraggiosa solidarietà del collega Lutz Long verso il rivale statunitense

Si rivedono sempre con sottile soddisfazione le immagini che mostrano la stizza di Hitler mentre, ai Giochi Olimpici di Berlino 1936, assiste alla storica gara di salto in lungo in cui l’atleta nero Jesse Owens si aggiudicò la seconda medaglia d’oro delle quattro complessivamente conquistate, battendo l’asso tedesco Carl Lutz Long.
Nella trionfalistica macchina in celebrazione del Terzo Reich e della supremazia ariano-germanica approntata da Goebbels - avvalendosi del talento scenografico di Albert Speer e del mitizzante occhio di cinema di Leni Riefenstahl - la vittoria dell’uomo di colore rappresenta una macchia. E, nel raccontare i retroscena dell’evento, il film Race evidenzia altre questioni importanti: fra cui, come si conciliavano segregazionismo e presenza di sportivi di colore nel team olimpico Usa?
Saggiamente la sceneggiatura di Anna Whitehouse e Joe Shrapnel sceglie di concentrare il biopic sull’arco di un triennio, partendo dal 1933: quando Owens (Stephan James, già in Selma nei panni di John Lewis), studente all’Ohio State University, viene preso sotto tutela, a dispetto dei pregiudizi dell’establishment bianco, dall’illuminato coach Larry Snyder (Jason Sudeikis). E intanto all’Aoc (il Comitato Olimpico Americano) si dibatte se boicottare la manifestazione in segno di dissenso verso il nazismo.
Ad avere la meglio è la tesi diplomatico-conciliatoria dell’imprenditore Avon Brundage (Jeremy Irons), che qui sembra un cinico pragmatista e in realtà pare fosse un autentico antisemita; mentre Owens si trova a dover fronteggiare l’analogo dilemma - partecipare o no? - in chiave di esponente-simbolo della minoranza oppressa di un paese ancora profondamente razzista.
Pur interessante, il complesso quadro dialettico non sempre è messo bene a fuoco: alla fine a risultare paradossalmente poco espressa è la figura del protagonista; e la diligente regia di Stephen Hopkins non riesce a compensare certe carenze del copione. Tuttavia alcune situazioni colpiscono forte il segno: per esempio, le coraggiosa solidarietà di Lutz Long verso il rivale statunitense; o quando Owens, in occasione di una serata in suo onore al Waldorf Astoria, è invitato, come ogni nero, a entrare dall’ingresso di servizio.