La Stampa 31.3.16
Dai pakistani agli etiopi
Quei nuovi cittadini che danno un futuro a Riace
Viaggio nel Comune diventato simbolo di accoglienza. Per le stradine donne con il velo e arabi a cavallo
di Mimmo Gangemi
Incontro
la tabella “Riace marina, la città dei Bronzi” nell’ora più accaldata
di un inizio di primavera che sembra già volersi arrendere all’estate.
Devio verso Riace superiore, in collina. Percorro una strada che
serpeggia nel tagliare in due la campagna verde, a tratti ingentilita da
un mantello giallo. Ai bordi, pareti di argilla, costoni con ammassi di
fichidindia, querce, ginestre in fiore, qualche albero di ulivo.
Arrivo. Non più “la città dei Bronzi”, ma “il paese dell’accoglienza”.
Che è ancora meglio: ai due guerrieri capitò d’annegarsi in quel tratto
di mare, l’accoglienza è invece un merito da ascrivere agli uomini. Il
deserto nella piazza dove affaccia il Municipio.
Il sorriso
Poi,
un ragazzo e una ragazza, sui sedici anni, lo zaino di scuola dietro le
spalle. Entrambi belli e aggraziati. Entrambi neri. Lei di più, e ha un
sorriso solare, occhi grandi, la pelle di un bronzeo dorato. Ci parlo.
Rispondono in un italiano perfetto, più spigliata lei, più timido lui.
Sono Etiopi. Vivono qui da tanto. Sono giunti con la famiglia dopo aver
attraversato il Canale di Sicilia che ci separa dalla quarta sponda
d’Italia di mussoliniana, e nefasta, memoria. Non trattengono ricordi di
quel viaggio su una carretta del mare. Erano troppo piccoli. Per
fortuna. Non avrebbero quel sorriso altrimenti, ne porterebbero ancora
le stimmate. Mi mostrano l’anfiteatro. Accanto, c’è un grande parco
giochi per bambini dove una donna, nera e dai capelli corti e crespi, fa
divertire il suo piccolo. Parliamo allontanandoci assieme dalla piazza e
penetrando le viuzze, diretti al Centro interculturale. Mehrét mi
racconta che frequentano il liceo scientifico giù a Roccella - non le ho
chiesto il nome, mi piace appiccicarle quello della dolce etiope del
mio “La signora di Ellis Island”. Hanno acquistato casa, una delle tante
abbandonate. Questo significa paesani per sempre.
La nuova terra
Dai
vicoli spuntano uomini, donne e bambini con la carnagione dalle tinte
più svariate e i passi sicuri di chi si trova a proprio agio, ha saputo
far diventare sua la nuova terra. Si salutano affabili con tutti,
scambiano battute scherzose, le etnie saranno pure diverse ma si sentono
un unico popolo. Alcune donne portano il velo. Copre loro i capelli.
Non fosse che accerchia il collo, sarebbe uguale alla veletta sempre in
testa alle nostre nonne. I ragazzi mi salutano cordiali e se ne vanno.
Io mi trattengo a parlare con due uomini. Li scopro Pakistani - “del
Kashmir” mi dice orgoglioso uno, e si presenta «Jamil». Sono stati
accolti anche loro. Hanno potuto attingere a uno dei progetti
dell’accoglienza predisposti dal Comune e finanziati con fondi
regionali. Per ora campano con una diaria. Sperano di trovare un lavoro
duraturo. Tra i trecento e più ospitati alla marina e qui, sono parecchi
i Pakistani, ci sono anche sei o sette famiglie intere.
Locali,
pochi. Qualche vecchio con la coppola e la pelle scurita dal lavorio del
sole e rattrappita più d’un pomodoro essiccato, un paio di avventori
nel bar. Ad animare le vie sono più gli stranieri. I loro bambini
trasmettono l’idea di un futuro possibile, sono la continuità per questo
piccolo borgo destinato altrimenti a diventare fantasma, con i vicoli
muschiati di verde per i passi che vi mancano, com’è già capitato a
tanti paesi dell’interno, svuotati dall’emigrazione e dall’abbaglio
delle luci della marina e dell’orizzonte acquoso sullo sfondo.
Il
centro storico è ben tenuto, pulito. La piazza, le strade e i
marciapiedi hanno il decoro di un gradevole lastricato con tagli
rettangolari di pietra locale - basta con il porfido del Trentino, oltre
che brutto, ci inchioda anche colonia, ne copiamo persino le geometrie.
E le case sono quelle dei miei più antichi ricordi, l’espressione di
una sana civiltà contadina, senza i guasti della modernità con i suoi
rattoppi, le lamiere, il cemento. E non è un caso: la civiltà della
conservazione e quella dell’accoglienza sono le facce di un’unica
medaglia.
«Jamil, vieni a prenderti il caffè» chiede al mio amico
pakistano un “indigeno” seduto davanti al piccolo bar. Jamil ringrazia
con un sorriso.
Larghi orizzonti
Riprendo la strada del
ritorno. M’imbatto in un giovane arabo che monta a pelo un cavallo. Do
un passaggio a un ragazzo del Mali con cui rinfresco il mio scarso
inglese. Alla marina, una donna nera che parla al cellulare, qua e là
altri paesani d’importazione intenti a chiacchierare con i locali, un
paio in bicicletta. È l’integrazione. È la specie umana che si scopre
uguale. È la civiltà. Prima d’andarmene, un’occhiata al lungomare. È in
costruzione. Vi potranno accedere solo i pedoni e i ciclisti. Un altro
segno di orizzonti larghi sul mondo che mi fanno capire perché qui è
potuta succedere l’accoglienza.
Chapeau a Riace: ha così reso
onore anche ai nostri antenati che percorsero odissee simili pur di
sfuggire alla fame e alla miseria.