La Stampa 30.3.16
Primo Levi
Da ragazzo ho pensato al suicidio
Le
confessioni dello scrittore in una conversazione inedita registrata
nell’87 poco prima della fine: la crisi adolescenziale, le difficoltà
nei rapporti con il mondo, i traumi oltre il Lager
di Giovanni Tesio
Torniamo ancora un poco sull’amicizia. Sentivi la differenza dell’amicizia maschile e di quella femminile?
«Qui
tocchi un tasto molto delicato, perché io ero un timido, un timido
patologico, per cui avevo delle amicizie femminili, ma si fermavano lì.
La mutazione, il salto della barricata è arrivato per me estremamente
tardi, dopo Auschwitz. È un argomento di cui parlo con un certo
imbarazzo, una certa difficoltà. Sta di fatto che io ero un inibito, lo
si vede dalle cose che ho scritto. Io ero fortemente inibito, anche per
via delle campagne razziali, perché era un taglio netto. Molte ragazze,
con le buone, senza offendere, si allontanavano, ma io cercavo proprio
quelle con cui non potevo avere rapporti».
Cercare chi ti respinge?
«Forse sì, ma io questo lo lascio agli altri. Di fatto ho avuto parecchie amicizie femminili, ma nessuna è sfociata in amore».
Neanche
con la compagna d’università con cui - ne hai parlato sotto mentite
spoglie nel Sistema periodico- vi scambiavate le letture?
«Neanche. Cioè, sì. Io ne ero vagamente innamorato, ma in modo estremamente casto».
E ne soffrivi?
«Sì,
ne soffrivo tremendamente, soffrivo in modo pauroso perché vedevo tutti
i miei amici che ci passavano da questa esperienza, avevano esperienze
anche sessuali. Io no e ne ho sofferto in un modo spaventoso, fino a
pensare al suicidio».
Forse anche perché avevi compagni che esibivano fin troppo i loro trofei…
«Certo. Qualcuno andava al casino, ci andava con la tessera falsa. Io non avrei mai fatto una cosa simile».
Amicizie femminili che siano durate nel tempo?
«Oh,
parecchie, sì, parecchie. C’è stata, per esempio, quella della ragazza
del Fosforo nel Sistema periodico. È tuttora mia amica. Ma è proprio un
periodo, questo, di due o tre anni, in cui le amicizie si sono
sfaldate».
Perché?
«Per ragioni diverse. Intanto per le mie
ragioni, vicissitudini familiari, per cui mi muovo poco, e poi… chi
muore, chi si ammala, chi perde interesse per la vita… È un capitolo che
sta estinguendosi».
Il sentirsi invecchiare è questo?
«Sì».
Vedersi corrodere l’ambiente che ti sta intorno?
«Sì, questo è molto doloroso, molto doloroso e irreversibile».
Ma tu nel complesso ti giudichi una persona di natura vincente?
«Mah!
Io mi ritengo uno che ha combattuto parecchie battaglie. Che ne ha
perse alcune e ne ha vinte altre. Devo avere una certa forza profonda,
perché sono sopravvissuto ad Auschwitz, questa è una grossa battaglia.
Anche come chimico ho sopportato sconfitte, ma ho vinto parecchie volte.
Poi, come scrittore. Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi
mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo. Mi è venuta addosso a
scalini, prima in Italia e poi all’estero, questa ondata di successo che
mi ha squilibrato profondamente, mi ha messo nei panni di qualcuno che
non sono io».
Quello dello scrittore è il mestiere più pesante?
«Più pesante?».
Sì, questa è la domanda.
«Come
effetti senza dubbio sì. Come fatica e durata direi di no, perché ho
scritto i miei libri generalmente volentieri, in modo facile, senza
sentirne il peso».