La Stampa 30.3.16
La zia Margit rideva e ballava mentre i nazisti facevano strage
Il
 pronipote della contessa Thyssen-Batthyány ricostruisce in un libro il 
massacro di 180 ebrei, nel 1945, durante una festa nel castello di 
famiglia
di Carlo Grande
Le leggende familiari 
possono nascondere mezze verità, voragini. Il «così si racconta» di 
Sacha Batthyány contiene un patto familiare scellerato che il 43enne 
giornalista decide di indagare quando una collega del quotidiano 
zurighese per cui lavora gli butta sulla scrivania un articolo 
intitolato «La padrona di casa dell’inferno», chiedendo «Ma che razza di
 famiglia è la tua?». Ha la foto della prozia Margit, miliardaria 
tedesca discendente dei Thyssen e moglie di zio Ivan, conte decaduto.
Margit
 Thyssen-Batthyány (i Batthyány sono un’antica schiatta ungherese di 
principi e vescovi, in una scena di Sissi Romy Schneider balla con un 
conte Batthyány in uniforme celeste e capelli impomatati), donna algida e
 tutta d’un pezzo che odia i bambini e va a caccia («difficilmente la si
 vedeva più felice di quando abbatteva un animale»), è stata coinvolta 
nel massacro di 180 ebrei durante una festa nel suo castello di 
Rechnitz, città austriaca al confine con l’Ungheria. La notte del 24 
marzo 1945, dice l’articolo, ballò e festeggiò con i nazisti, si ubriacò
 e a mezzanotte, come dessert, puntò con altri la pistola alla testa di 
uomini e donne nude, fece fuoco.
I rimorsi della nonna
«Chiacchiere»
 dicono in famiglia, infamie, come lo spettacolo teatrale L’angelo 
sterminatore del premio Nobel per la Letteratura Elfriede Jelinek, 
rappresentato da anni a Zurigo. Era accaduto che il più importante 
gerarca nazista della regione, che partecipava alla festa, a mezzanotte 
ricevette una telefonata che ordinava di uccidere tutti i prigionieri 
alla stazione. Prese con sé una quindicina di ospiti, andò sul campo 
dove gli ebrei aspettavano nudi e in ginocchio, fece loro scavare la 
fossa e li fece giustiziare. Poi tornò alla festa.
Il pronipote 
Sacha (oggi vive a Washington, corrispondente del Tages Anzeiger e del 
tedesco Süddeutsche Zeitung), scrive a parenti e testimoni, viaggia 
dall’Ungheria all’Austria, da Mosca a Buenos Aires, scende a uno a uno i
 gironi dell’inferno familiare e consegna alla sua e nostra coscienza 
un’amara verità. È lo sconcertante e sincero romanzo Le bestie di 
Rechnitz (Rizzoli, pp. 250, € 18), nel quale rivela anche il segreto 
della nonna, affidato al diario prima di morire: ha assistito senza far 
nulla all’assassinio nazista di due giardinieri senza dire niente alla 
loro figlia, deportata ad Auschwitz. Come giustificarsi? Sacha dà voce 
ai rimorsi della nonna: «Eravamo troppo vigliacchi, io, mio padre, la 
mia famiglia, tutta la mia dannata classe sociale. Eravamo troppo sazi e
 troppo indifferenti? Non potevamo dare rifugio agli ebrei, comportarci 
da uomini, non abbiamo voluto assumerci il rischio. Non siamo una 
famiglia di eroi ma di talpe».
La scelta era tra alleviare la 
coscienza o schiantare la voglia di vivere dell’amica, sopravvissuta al 
Lager. Due verità assolute a confronto, l’essenza della tragedia.
Il
 pronipote della contessa Margit Batthyány-Thyssen scrive della memoria,
 del passato che non passa ma deve riemergere, per non trascinarlo con 
sé. Inghiotte il boccone amaro: «Zia Margit non aveva sparato quella 
notte di luna piena, non aveva ucciso nessun ebreo. Non ci sono prove, 
testimoni. Non si trovava nel gelo della mezzanotte davanti a quella 
fossa, dove uomini e donne nudi erano inginocchiati in fila. Rideva e 
ballava, mentre quei corpi cadevano a terra, uccisi da alcuni ospiti 
della sua festa, ballava con i carnefici ritornati alle tre del mattino 
al castello, dopo aver giustiziato 180 persone con un colpo alla nuca e a
 colpi di vanga». Pochi giorni dopo finiva la guerra, «Zia Margit andava
 in crociera sulle acque blu dell’Egeo, beveva Kir Royal a Monte Carlo e
 cacciava cervi in autunno nelle foreste del Burgenland. Sebbene sapesse
 di quel massacro si godette il resto della sua lunga vita. Un seme 
marcio».
Le bestie di Rechnitz
Sacha ad Auschwitz si 
interroga sulla paura di morire di migliaia di persone: «Gridavano? 
Erano muti?». L’unico antidoto per sopravvivere al ricordo è scrivere, 
come fece la nonna. Il racconto si chiude fra amarissimi dubbi. Le 
bestie di Rechnitz sono i carnefici, gli ebrei trattati come animali, o 
siamo noi quando giriamo la faccia dall’altra parte? Nemmeno Sacha aveva
 ribattuto a un parente che in una riunione famigliare dice: «Può essere
 che il massacro non abbia mai avuto luogo?». Continua a bere e mangiare
 prosciutto.
Per anni l’autore rimane nella Zurigo di Jung, «nel 
Paese più ovattato d’Europa». Si sdraia sul lettino dell’analista e 
trova la forza di parlare dell’ombra che è in noi, di fragilità e 
contraddizioni. Ricordare, capire e dimenticare, liberarci della 
zavorra: «Confrontarsi con il passato è possibile solo se si continua a 
raccontare ciò che è successo» scrive Hannah Arendt. Per questo il libro
 è un simbolo del giornalismo e della scrittura, della cultura che tenta
 di sollevarci dalla ferinità. Nomina nuda tenemus.
Dal massacro 
di Rechnitz sono passati 71 anni. Il castello è scomparso, la Svizzera 
ha accolto senza discutere Margit e i genitori di Sacha. Nessuno è stato
 condannato per quella strage. La fossa comune non è mai stata scoperta.
 
