La Stampa 30.3.16
La lucida follia dell’Isis a Palmira
Cancellare gli incroci della Storia
I
fondamentalisti vivono nel presente storico, vogliono eliminare
molteplicità e differenze del passato e lasciare un unico marchio: il
loro
di Domenico Quirico
Palmira, anche quando vi
arrivavano i turisti, cinque anni fa ancora, pensate, e sembra un
millennio, ti faceva ritrovare il vero gusto del viaggio che consiste
nel riattivare la Storia, come calcare le strade che l’hanno percorsa da
secoli, le antiche rotte marinare, le piste.
Arrivavi, e questo
arrivo era come se qualcosa di vivo nascesse; era come se una porta del
tempo si aprisse e ti regalasse l’impazienza e, al tempo stesso, la fine
della tensione dell’attesa.
Era, insomma, una cosa che accadde e
accadde nella tua vita, ti appartiene come la tua mano o il tuo piede.
Nulla c’era di meno archeologico e storicamente evocativo della tremenda
punizione che Aureliano inflissse alla città secoli fa e che l’ha resa
rovina. E di quello che gli ha inflitto il califfato dei nuovi barbari
arrivati dal deserto, che bruciano, saccheggiano, twittano, lapidano,
invadono... Così, in fondo al tunnel della Storia, Palmira stava, sta,
sola, integra e distrutta.
Ci arrivi dal deserto ed è piano,
liscio quasi cosparso di ghiaia, così fina e sbriciolata da parere da
giardino. Le piste, un tempo, erano vaghe e con l’arrivo dei jihadisti
sono di nuovo tornate tali. Le montagne si avvicinano perdendo
l’azzurro, ritrovano colori forti, degradando a formare un valico.
Nell’incavatura apparivano (ma sono ancora lì o non sono briciole di
polvere?) torri solitarie, non legate da mura, come se calassero dai
pendii, rossastre come quei monti: le torri mortuarie di Palmira.
Ecco:
in fondo si levavano file di colonne e, prima di tutto, su un colle
puntuto un castello arabo dagli spigoli vivi. Improvvise, distese di
palme e di ulivi di un verde così intenso che era più azzurro che verde.
Il cielo si tendeva come gonfiato dal vento e la città, assurda e
straordinaria, appariva: porto asciutto di sabbia per quelle che un
tempo erano sterminate carovane. Tutto si abbracciava con un’occhiata:
il tempio di Bel, la via colonnata, l’agorà, il teatro. Tutto chiaro
come in un plastico; e invece era sotto i tuoi occhi nella sua realtà e
per una estensione che non si riusciva a definire perché non c’era
misura reciproca tra i monti e le colonne.
Le rovine romane sono
sempre ruderi immensi che non riescono a estinguersi anche ridotte a
monconi, ma col senso irrecusabile del potere terreno.
Ripenso a
tutto questo cercando di confrontare con i ricordi le foto scattate
anche dall’alto, con un drone, dopo la riconquista della città da parte
delle truppe di Damasco. Il teatro, dove i jihadisti hanno compiuto i
loro scenografici riti omicidi, sembra apparentemente intatto; anche la
via colonnata appare in piedi. Il tempio di Bel e il museo invece sono
un calvario di distruzioni, di frammenti confusi. Cadute a terra le
pietre divine non si sono sgranate come accade per il lavoro del tempo,
sono sminuzzate divelte contorte. Così sembra che non potranno mai più
ritrovare il loro posto. Guai a tentarlo, vien da pensare, sarebbe un
modo di profanare ancor più che falsare. Che resti il marchio feroce dei
Tempi, rovine ora davvero diroccate di un presente che è il più
diroccato e sanguinario fra quanti conti la nostra storia. Palmira: ora
davvero lacera, tragica come un cadavere dissepolto e che invoca
sepoltura.
Qui la jihad, planetaria e totalitaria, ha cercato di
cancellare la Storia che è molteplicità, incrocio, sovrapposizione per
scrivere quella unica, la sua. Non hanno operato qui solo l’ostracismo,
le ancestrali censure date alla rappresentazione dell’uomo, come nei
siti archeologici devastati d’Iraq. L’esplosivo e la ruspa hanno dato
l’assalto anche alle pietre squadrate, ai capitelli, all’architettura
che pure gli arabi hanno prediletto, gli edificatori onorati al pari di
sacerdoti. La tragica sorte dell’Islam che come Mida ferma il flusso
vitale delle cose che tocca ha raggiunto qui il suo culmine. Perché
Palmira era la prova che esistono altre Storie, magnifiche e complesse
che hanno preceduto e nutrito l’Islam, dove vibrano rumori immemori e
suoni mai uditi da questi nauseati di fanatiche solitudini.
Cadeva
il cardine del progetto jihadista, che è guerra ma anche comunicazione
simbolica: ovvero la omologazione del Tempo storico. Ovvero: tutto
inizia con l’Islam, il loro, e quello che lo ha preceduto è soltanto
idolatria, sconcezza, vanità intossicante.
Palmira distrutta,
nelle loro mani, per certi aspetti, era più importante di Raqqa e di
Mosul, le capitali del Califfato. Le città vive e i loro abitanti si
possono perdere e riconquistare. Palmira no. Avvolta nella sua polvere
color di cenere e dal cielo sempre più chiaro nell’arsura del sole,
città morta di fronte alla misteriosa solitudine e infinità del deserto,
è Fede, è dio che affiora inarrestabile. Lì diventi, che tu sia
musulmano cristiano e indifferente, senza enfasi, il centro stesso
dell’universo, l’albero della vita. Contro il fanatismo è una
rivelazione che non può rivelare nulla che tu già non sai, e tuttavia
rivelazione. È contro questa vibrazione religiosa che l’Islam furente
della jihad si è scagliato come contro un dio che svela il loro inganno.