La Stampa 30.3.16
“Ho visto che ci sono ancora le pietre a terra. Ora possiamo ricostruire quei capolavori”
Per l’ex capo del sito Saleh non si deve perdere tempo
L’archeologo Matthiae: anche Dresda è rinata
di Carlo Grande
«Pregate
 con noi per Palmira». Così esordisce Mohamad Saleh, ultimo direttore 
del turismo dello splendido sito archeologico. Saleh era fuggito prima 
dell’arrivo dell’Isis, la primavera scorsa, ora è in Germania, a 
Francoforte. Dopo la notizia della liberazione di Palmira, grazie ai 
raid russi e alle truppe governative di Bashar al-Assad, Saleh vuole 
tornare, ricostruire. «Sono nato lì, non posso vederla in quelle 
condizioni» dice.
Davanti a lui scorrono le immagini scattate 
nelle ultime ore dai droni, i filmati della tv russa. Si valutano i 
danni, si ringrazia, si temeva che l’Isis distruggesse anche 
parzialmente l’antica «Sposa del deserto», centro carovaniero e capitale
 di un celebre regno, patrimonio mondiale dell’Unesco, come ha fatto con
 Nimrud, capitale dell’Impero assiro e Hatra, città seleucide del Terzo 
secolo a.C.
A Palmira le fotografie mostrano le rovine dell’arco 
di Trionfo, distrutto nell’ottobre 2015 dall’Isis, la torre sventrata 
della Cittadella («Gli jihadisti erano arroccati lì, anche il ponte di 
accesso è stato distrutto» dice Saleh), la splendida statua el Leone di 
Al-Lat, che si scorge all’entrata del Museo, sfregiata. Il Museo stesso è
 stato devastato e saccheggiato: sui muri l’ombra di reperti staccati e 
finiti chissà dove. Vicino all’ingresso del tempio di Bel, distrutto 
dagli jihadisti nel settembre 2015, una scritta in arabo: «Sparare senza
 il permesso del comandante è proibito».
«Mi hanno chiamato ieri –
 dice Saleh – ho visto le immagini, il museo è devastato ma possiamo 
restaurare molte cose, ci sono ancora le pietre a terra. Il leone, forse
 l’arco, la cittadella. Ora si cerca di bonificare il sito da mine e 
bombe, siamo pronti a ricostruire con l’Unesco. Palmira deve tornare al 
suo splendore».
Dello stesso parere Paolo Matthiae, direttore 
della Missione archeologica della Sapienza di Roma in Siria, scopritore 
del sito di Ebla: «Un incubo di dieci mesi è finito, gioiscono in molti 
(il Segretario Generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon e il 
responsabile del patrimonio archeologico siriano Mamoun Abdelkarim ad 
esempio, ndr) non ho ancora sentito la voce di Obama. Palmira va 
ricostruita con assoluto rigore e rispetto, senza dilettantismi, 
neocolonialismi e sotto l’egida internazionale, rispettando la sovranità
 del popolo e del governo siriano. Dresda è rinata, Coventry non c’è 
più. Palmira è un simbolo troppo importante. Ci sono offerte da tutto il
 mondo, del direttore generale dell’Hermitage ad esempio. È 
inaccettabile che l’Isis e la barbarie del fondamentalismo abbiano la 
meglio, lascino rovine».
Secondo fonti militari siriane i danni 
non sarebbero gravi come le immagini diffuse dall’Isis facevano temere. 
Saleh è ottimista: «Il ministro del Turismo deve fare di tutto per farla
 tornare com’era, senza perdere un minuto. Sicuramente esistono molti 
progetti, li mostreranno fra qualche giorno, ora è troppo presto. 
Gioiamo non solo per Palmira o per la Siria, ma per tutto il mondo».
L’augurio
 è che Palmira continui a essere una specie di miraggio fra le sabbie 
del deserto, una distesa di splendide memorie storiche e culturali. 
Sorge vicino alla moderna città di Tadmor: il nome greco della città, 
Palmyra, è la traduzione dall’originale aramaico, Tadmor, che significa 
palma. «Palmira, è nel mio cuore – dice Saleh – sono nato lì. Ora non 
posso, non ho la forza di vederla così. Pregate con noi per Palmira – 
ripete - il sole sorgerà ancora».
 
