La Stampa 30.3.16
Spagna senza governo da 100 giorni
“Rischiamo lo stallo come in Belgio”
Il nuovo Parlamento e il vecchio esecutivo non dialogano e i provvedimenti sono carta straccia
di Francesco Olivo
La
notte del 20 dicembre la Spagna cominciava a chiedersi: «E adesso?». Il
risultato delle elezioni parlava chiaro: per la prima volta nella
storia democratica trovare un governo sarebbe stato complicato. Cento
giorni dopo la risposta non c’è: i partiti non hanno i numeri per
governare, ma nemmeno il coraggio di scendere a patti fino in fondo con i
rivali. Da Natale a oggi è cambiato pochissimo, l’inverno è stato un
susseguirsi di veti incrociati, accuse reciproche, guerre di posizione.
L’unica
vera novità è stato il patto siglato da socialisti e Ciudadanos (la
nuova formazione centrista), che lontano da avere una maggioranza
sufficiente per formare un governo, non ha sedotto nessuno né a destra,
il Partito Popolare di Rajoy, né a sinistra, Podemos. L’unico effetto
pratico del tentativo del leader del Psoe, Pedro Sánchez, è che
l’orologio istituzionale si è messo in moto: se entro il 2 maggio non si
fa un governo, si tornerà alle urne il 26 giugno. Risultato: la Spagna
vive in campagna elettorale permanente da un anno (a maggio del 2015 ci
sono state le amministrative che hanno cambiato volto al Paese) e chissà
per quanto altro tempo ancora. Rajoy, forse quello che più spera di
tornare a votare, annunciava ieri incontri con i leader rivali, ma il
premier sa che nessuno vuole tenerlo al potere.
Basta fare due
chiacchiere in un bar per capire che questa situazione inedita, qui
hanno sempre governato o la destra o la sinistra con maggioranze
relativamente solide, non sconvolge nessuno. Ma se fino a una settimana
fa girava la battuta, «il Belgio è stato felicemente senza un governo
per un anno e mezzo», oggi, alla luce delle falle di Bruxelles, quel
paragone suona sinistro. E la lezione del nord Europa è cambiata: un
Paese diviso è più debole. Se si dovesse tornare a votare, il rischio
concreto è di restare con un governo in funzione (almeno) fino a
settembre. Quasi un anno di paralisi. Con un esecutivo provvisorio «ci
sono due gravi conseguenze – spiega Eduard Roig Molés, professore di
diritto costituzionale all’Università di Barcellona – si perde tempo
davanti alla crisi e si paralizza la pubblica amministrazione, che in
Spagna vive dell’impulso del governo. Per chi verrà dopo, rimettere in
marcia la macchina sarà più complicato». Per tornare al paragone con il
Belgio, la lotta al terrorismo non ne esce pregiudicata: «Da questo
punto di vista c’è indipendenza degli inquirenti e della magistratura -
conclude Roig Molés - inoltre le forze politiche su questo tema sono
unite».
Tra le cose inedite di questi giorni c’è che il governo in
funzione cerca di non sottomettersi al controllo del Parlamento, non
presentandosi al Congresso: «Non possiamo nemmeno discutere di quanto
deciso dal Consiglio europeo sui rifugiati», protesta Pablo Bustinduy,
deputato di Podemos, secondo il quale il governo in funzione blocca il
paese, «non da un punto di vista amministrativo, su quello siamo uno
Stato maturo, ma da quello sociale». L’altro grande tema è l’Europa: «La
Commissione ha chiesto di rivedere la finanziaria, ma un governo
provvisorio è debole per farlo», spiega l’esperta di Ue della squadra di
Sánchez, Iratxe Garcia. «Fortuna che la finanziaria è stata licenziata a
dicembre – racconta dai corridoi del Congresso Miguel Gutiérrez di
Ciudadanos – con un governo a metà c’è solo un aspetto positivo: il
parlamento torna centrale».