giovedì 24 marzo 2016

La Stampa 24.3.16
“Sapevamo delle torture ma il popolo argentino era dalla nostra parte”
Il racconto del colonnello Nani a 40 anni dal golpe. Obama vede Macri: apriremo gli archivi sulla dittatura
di Filippo Fiorini

Scrosciano gli applausi alla Casa Rosada quando il presidente americano, Barack Obama, conferma la decisione di aprire gli archivi segreti sulla dittatura militare argentina. Lì, in quello stesso palazzo di governo in cui quarant’anni fa il generale Jorge Rafael Videla lesse il «Comunicato N°1» e annunciò che il Paese si trovava «sotto il controllo operativo delle Forze Armate», i tempi sembrano essere veramente cambiati e un presidente di destra, Mauricio Macri, che si pronuncia in un’esplicita condanna di quanto accaduto all’epoca, arriva a confermarlo.
Fuori, però, dove si estende il resto della nazione, la vicenda è tutt’altro che chiusa. Buona parte della società appoggia le organizzazioni per la ricerca dei «desaparecidos», come le Madri o le Nonne di Plaza de Mayo, che ancora reclamano giustizia contro coloro che hanno commesso crimini di lesa umanità.
D’altronde, i soldati che vissero in prima persona gli Anni 70 argentini raccontano una storia diversa. Dicono che l’esercito fu chiamato a muoversi in difesa della pace e che, dopo aver ripulito il Paese dal terrorismo rosso, fu tradito più di 2 mila volte. Una per ognuna delle sentenze che i tribunali hanno comminato contro le gerarchie di regime, durante i tre governi di Nestor e Cristina Kirchner.
Il colonnello Emilio Nani ha sei schegge di una bomba inglese in una coscia, un proiettile gli ha attraversato un polpaccio perdendosi nei prati delle Falklands e il colpo di fucile di un guerrigliero gli ha portato via mezza faccia. Nulla di tutto questo, però, è riuscito a cavargli dalla testa certe idee che gli costano continue accuse di esaltare la dittatura.
Il 24 marzo del ’76 era un ufficiale trentenne in servizio a un reggimento d’artiglieria. Fu mandato in strada col compito di contenere eventuali disordini, ma giura che «le uniche manifestazioni sono state di giubilo». Eppure, quella stessa notte iniziarono gli arresti sommari, gli interrogatori con la corrente elettrica e l’occultamento dei cadaveri dei prigionieri morti.
Che ne pensa? «Grazie a Dio non ho mai dovuto assistere a nulla di tutto ciò - dice -. La tortura è una pratica aberrante. In guerra, però, c’è sempre stata e sarebbe ipocrita negarlo». D’altra parte, ammette che questi metodi «erano noti a tutti» e che nei sette anni di governo militare, «ci fu un’escalation di violenza».
«Gli argentini si sentivano minacciati come accade oggi all’Europa col terrorismo islamico. Eravamo in guerra. Che differenza c’è tra la Francia che reagisce a un attentato con un bombardamento e quello che abbiamo fatto noi qui?», chiede. Ma allora, perché non agirono legalmente? Non sarebbe bastato registrare gli arresti, presentare prove e, in extrema ratio, condannare a morte i colpevoli? «Ci è mancato il coraggio di agire in modo trasparente», riconosce e poi precisa: «È facile parlare adesso. Le sparizioni forzate, l’adozione illegale dei bambini nati in carcere, sono delitti e vanno puniti. Ma oggi sembra che i terroristi fossero tutti innocenti».
Qualcuno dei prigionieri doveva esserlo per forza. Sono stati rapiti e uccisi preti e suore, anziani, addirittura dei neonati: che colpe potevano avere? «Erano sotto la responsabilità dei loro parenti, non dell’esercito», replica Nani, che, in quanto agli innocenti, ricorda le vittime degli attentati perpetrati dai ribelli. Davvero non è convinto che la reazione delle Forze Armate sia stata sproporzionata? «I sovversivi erano pazzi. Hanno sfidato Golia senza possibilità di vincere. Si assumano le loro responsabilità», risponde.