Corriere 24.3.16
Baseball e diplomazia
La partita di Obama per conquistare i cuori dei «nemici» cubani
Il match assieme a Raúl Castro e i suoi significati politici
di Matteo Persivale
Perché
proprio una partita di baseball? E perché portare con sé all’Avana,
sull’Air Force One, la vedova e la figlia di un grande campione del
passato? Barack Obama ha scelto lo sport per festeggiare la sua storica
visita a Cuba: una partita, martedì pomeriggio, allo stadio
Latinoamericano, tra la nazionale cubana e i Tampa Bay Rays. Con il
presidente, la vedova e la figlia di Jackie Robinson (1919-1972), il
primo nero a giocare (1947) nel campionato di baseball fino a quel
momento riservato ai soli bianchi.
Thomas Zeiler, docente di
Diplomazia dello sport all’università del Colorado, autore di un libro
su Robinson e direttore esecutivo della rivista accademica Diplomatic
History di Oxford, spiega che «lo sport è da moltissimi anni, fin
dall’Ottocento, una parte importantissima della diplomazia — anche
culturale — degli Stati Uniti, peccato che gli storici non abbiano mai
analizzato questo fenomeno fino a dieci o quindici anni fa. È parte del
soft power americano: la selezione americana alle Olimpiadi, ma anche
squadre di baseball o basket, o singoli atleti hanno portato all’estero
un messaggio americano. Nel caso di Obama, una partita di baseball è
perfetta per indicare ciò che unisce Cuba e Stati Uniti — la passione
per lo sport — anche se ancora molto ci divide su economia, libertà di
parola e altro. Ma come dicevo succede da moltissimi anni: penso agli
anni 30, e al match di boxe tra Joe Louis e il tedesco Max Schmeling».
La
scelta di Obama di portare con sé Rachel Robinson si spiega, secondo
Zeiler, con il prestigio globale di Robinson, non soltanto tra gli
appassionati di baseball: «Jackie Robinson ha cambiato lo sport
americano, portando l’integrazione razziale quando ancora nelle forze
armate c’era la segregazione. Jackie Robinson è un simbolo di dignità e
coraggio, discrezione e classe: è il più famoso afroamericano ad aver
mai giocato a baseball, e a Cuba, come in tutta l’America Latina, sono
tantissimi i giocatori di baseball neri — nella Mlb, il campionato
americano, sono più i giocatori neri latinoamericani dei neri
americani».
Il viaggio di Obama, disgelo politico a parte,
potrebbe secondo il professore avere conseguenze sportive enormi:
«Vedremo certamente più giocatori cubani arruolati dalle squadre del
Major League Baseball. E magari vedremo anche qualche club del
campionato americano nascere in America Latina, penso al Messico, al
Venezuela, alla Repubblica Dominicana e ovviamente a Cuba. Paesi dove il
baseball è uno sport nazionale. Sono sicuro che gli investitori si
troverebbero, sarebbe un’enorme espansione geografica del campionato in
un bacino d’utenza straordinario. Sarebbe complicato far viaggiare i
giocatori? No, ci si mette più tempo a volare da New York a Seattle che
da New York all’Avana».
La diplomazia del baseball di Obama ha
riscosso l’approvazione anche dello scrittore e commentatore capo della
Nbc Joe Posnanski, uno dei più influenti giornalisti sportivi americani,
autore di una bella biografia di Robinson: «Qui in America abbiamo
visto di frequente che è stato proprio lo sport ad aprire strade nuove
in materia di progresso sociale. Lo sport unisce gli americani — divisi
da molte altre cose — in un modo speciale, è la sua forza, unisce tutti,
al di là delle diverse culture. Tutti restiamo affascinati allo stesso
modo quando vediamo Usain Bolt correre, Lionel Messi seminare i
difensori, Steph Curry andare a canestro. È un cliché? Sì, ma è anche la
verità». È stata una bella idea quella di portare da Raúl Castro la
vedova di Robinson «perché suo marito ha combattuto per i diritti dei
neri ancora prima che lo facessero Martin Luther King e Rosa Parks, è il
nostro più grande eroe sportivo, di lui è orgoglioso ogni americano, è
il nostro atleta simbolo. Ora io sono solo un umile giornalista
sportivo, non un politico, ma non posso che prendere atto che alcuni dei
giocatori più amati della storia della Major League del mio Paese erano
cubani — da Tony Perez a Tony Oliva, da Minnie Minoso a Luis Tiant. Ci
sono tanti atleti cubani che potrebbero competere benissimo nel nostro
campionato: non vedo perché, ora che le cose sono cambiate tra i nostri
Paesi, non rendere più semplice il loro ingaggio da parte delle squadre
statunitensi».