La Stampa 23.3.16
La guerra divide i leader
di Marcello Sorgi
Anche
 se a caldo, dopo gli attentati a Bruxelles, ha detto che «non è tempo 
di colombe», la posizione di Renzi e del governo italiano - è evidente -
 non è cambiata e risulta differente da quelle, solo per fare due 
esempi, dei primi ministri francese e inglese. Renzi infatti, 
diversamente da quanto hanno detto e lasciato intendere Valls e Cameron,
 ritiene che l’attacco al cuore dell’Europa, platealmente rivendicato 
dall’Isis, richieda una risposta immediata, forte e comune dell’Unione, 
in termini di collaborazione tra gli apparati di sicurezza e di 
intelligence, ma evitando «reazioni impulsive» e mantenendo la calma. 
Cioè, in altre parole, senza pensare che all’atto di guerra messo a 
segno in Belgio dal terrorismo islamico si debba necessariamente 
rispondere con la scorciatoia della guerra in Libia.
È per questa 
ragione che il presidente del Consiglio ha avviato subito una serie di 
contatti con Hollande, Juncker e Merkel, offrendo piena disponibilità e 
cercando anche di sondare le effettive intenzioni dei partners europei. 
La linea di prudenza, scelta da tempo da Palazzo Chigi e mantenuta anche
 ieri, si fonda, non soltanto sulle valutazioni dei servizi, ma anche 
sull’esperienza fatta in anni passati dall’Italia alle prese con il 
terrorismo interno, e sulla consapevolezza che la lotta al terrore 
richiede un lungo lavoro preparatorio e una il più possibile completa 
condivisione delle indagini e delle informazioni acquisite da 
informatori e collaboratori di giustizia. Da questo punto di vista 
l’idea che quanto è accaduto ieri a Bruxelles possa essere considerato 
una vendetta per l’arresto di Abdeslam Salah non sta in piedi. Una serie
 di attentati non si realizza in poche ore. E dimostra, semmai, che 
l’organizzazione che l’ha architettata può contare su larghe protezioni e
 consenso, nell’area dell’immigrazione, che ricordano lo stadio del 
«terrorismo diffuso» emerso in Italia dopo l’assassinio di Aldo Moro. 
Contro questo genere di pericolo non c’è che il lavoro di intelligence, 
di infiltrazione e di azione capillare che richiedono grande impegno, ma
 anche tempo. E quell’indispensabile «progetto comune» che Renzi ha 
proposto ieri ai leader europei e su cui, dopo tanti rinvii, si augura 
che da oggi possa esserci maggiore consenso.
Ma prima di arrivare 
alla Libia c’è un’altra ragione per cui il presidente del Consiglio 
preferisce un approccio razionale all’emergenza terrorismo, piuttosto 
che soluzioni affrettate che potrebbero rivelarsi più rischiose. Renzi 
ricorda bene le conseguenze dell’11 settembre sull’America sconvolta 
dall’attacco alle Torri: la gente tappata in casa, negozi e ristoranti 
vuoti, il ripiegamento del modello del Paese più dinamico al mondo verso
 una generale ondata di pessimismo e una gelata economica che ci vollero
 mesi e mesi per superare. L’Europa che non è ancora uscita pienamente 
dalla crisi del 2007, di tutto ha bisogno all’infuori di questo, ragiona
 Renzi con i suoi interlocutori, spiegando che la lotta al terrore può 
essere condotta con la necessaria durezza non intaccando, finché è 
possibile, il modo di vivere della gente e non cancellando del tutto la 
serenità quotidiana delle famiglie. Questo sì, considera il presidente 
del Consiglio, sarebbe darla vinta ai terroristi prima ancora che 
mostrino la loro forza sul campo.
Di qui alla resistenza 
all’intervento in Libia, che toccherebbe all’Italia coordinare, il passo
 è breve. Diversamente da Francia e Inghilterra - quest’ultima, negli 
ultimi giorni, più impaziente - Renzi ha sempre considerato la missione 
sulla «quarta sponda» come un’iniziativa di assistenza, ovviamente anche
 militare e strategica, al nuovo governo di Fayez Al Serraj che fatica a
 insediarsi. L’idea di muovere una forza multinazionale contro l’Isis, 
che occupa una parte del territorio libico, sull’onda dell’allarme per 
gli attentati, o sulla base del recente documento condiviso da un 
centinaio di parlamentari locali per sostenere Serraj, al presidente del
 Consiglio sembra assolutamente prematura, per non dire sbagliata, 
considerato il fatto che, sia il nuovo premier, sia i suoi ministri, 
continuano a restare fuori dalla Libia, non ravvisando ancora le 
necessarie condizioni ambientali e di sicurezza per far ritorno nel loro
 Paese.
Così, dietro l’apparente concordia sospinta dall’ondata di
 commozione per il giorno di guerra a Bruxelles, l’Europa non ha ancora 
maturato una posizione comune sul da farsi. E il rischio è che le 
divisioni o i fragili accordi emersi sulla materia dell’immigrazione 
alla fine prendano il sopravvento, aprendo la strada, come accadde 
cinque anni fa, a iniziative isolate e a rimedi peggiori dei mali.
 
