Corriere 23.3.16
Una chiesa capace di intercettare il messaggio del papa
di Andrea Riccardi
Questa
è la terza Pasqua di Jorge Bergoglio come Papa della Chiesa di Roma. È
stato eletto il 13 marzo 2013. Pochi giorni dopo, a Pasqua, già si
sentiva l’entusiasmo per lui, che continua ad accompagnarlo. Sembrava
che, in modo rapido e sorprendente, la Chiesa uscisse dalla crisi,
incarnata dalla rinuncia di Benedetto XVI. Da subito, Francesco si è
rivelato attrattivo per un messaggio impostato su Vangelo e autenticità
personale. Si eclissava rapidamente il «sovrano pontefice» (come dicono i
francesi) e appariva il testimone e il grande leader religioso,
riconosciuto oltre la Chiesa. La vitalità del cattolicesimo era stata
sottovalutata o Bergoglio rivoluzionava il gioco? In realtà, il Papa, in
tre anni, ha dato voce al messaggio evangelico «senza aggiunte»,
suscitando speranza, energie spirituali e voglia di bene.
Da
leader spirituale, si è imposto nel campo internazionale, che sembrava
essergli estraneo. Nel settembre 2013, chiedendo preghiera e digiuno per
la Siria in guerra, ha provocato un passo indietro degli americani,
pronti a bombardare. Ha capito il ruolo della Russia di Putin e di
Kirill nel riequilibrio internazionale. Il capolavoro di Bergoglio è
stato la fine dell’embargo a Cuba. Nel viaggio negli Usa, il Papa (che
non fa l’unanimità tra i cattolici e i cittadini statunitensi) ha
parlato da americano agli States. Aprendo il Giubileo della misericordia
nel marginale Centrafrica, ha mostrato una forza di pace.
È molto
amato nel mondo. Ma — obiettano i critici — i veri problemi sono nella
Chiesa! In Curia non mancano resistenze, simili a quelle verso Giovanni
XXIII, che poi papa Montini sradicò con la riforma del 1968, rinnovando
strutture e uomini. Bergoglio invece è stato finora rispettoso dei
dirigenti nominati da Benedetto XVI facendo pochi cambiamenti. La
riforma delle istituzioni centrali del C9 avanza lentamente. Paolo VI,
dal 1965 al 1968, produsse un organico cambiamento con la Regimi
Ecclesiae . A fronte di lentezze nella riforma, c’è l’istituzione del
C9: un embrione di sinodo permanente anche per aiutare il Papa nel
governo. Dopo i forti attacchi nel preconclave alla Segreteria di Stato,
quest’istituzione ha ritrovato una rinnovata ed efficace centralità nel
governo vaticano. Il Segretario di Stato Parolin, dal 2014, è membro
del C9, mentre i suoi uffici, con il Sostituto Becciu, sono tramite
leale tra un Papa (che governa veramente) e le istituzioni della Chiesa.
Il
problema vitale è un altro: la recezione del messaggio e della
pastoralità di Francesco tra i vescovi e le Chiese. La stampa guarda
molto al Vaticano e meno al mondo cattolico. Forse mai un Papa ha avuto
tante resistenze tra i vescovi. Che pensano gli africani? E i polacchi?
Tra molti italiani non c’è la sintonia «storica» con il Papa. Non sempre
i vescovi sono critici perché difendono una visione classica o
tradizionalista. Spesso le loro sono resistenze non ideologiche. Ma
motivate dalla fatica di cambiare le diocesi, il sistema di governo, la
maniera di porsi nella società, il linguaggio, come il Papa richiede. Il
suo non è un progetto da applicare, ma — come egli dice — un «processo»
in cui entrare.
Il cattolicesimo, negli ultimi decenni, si è in
genere adattato a un modello di minoranza quasi ovunque: una versione
pugnace in difesa dei «valori non negoziabili» come in Italia, Stati
Uniti o Spagna (convinta della forza sociale della minoranza in una
società di minoranze); un’altra più ripiegata come in Belgio, Francia o
altrove. Versioni diverse ma non tanto: entrambe figlie di una
ristrutturazione minoritaria in cui, malgrado la carenza di preti, il
clero resta decisivo. Per secoli, il cattolicesimo è stato modellato con
una mappatura del territorio e con presidii su di esso, analogamente
agli Stati. Oggi, in affanno per i pochi preti, fatica a cambiare,
gestendo il declino.
Senza trionfalismo, Francesco non crede al
declino, perché coglie il bisogno diffuso della fede. Critico sul
clericalismo, respinge la logica di minoranza di «puri e duri». Propone
un cattolicesimo di popolo «in uscita» — come dice —, attrattivo, con la
cifra della misericordia, attento alle periferie. Vuole integrare e
aprire le porte, più che marcare frontiere e identità. Insomma riporta
vitalità e gente: il che può causare contraddizioni e ridiscutere
geometrie e metodi di governo. Francesco mostra che i contemporanei
hanno ancora desiderio di ascoltare il Vangelo. La grande questione per
loro è come e dove viverlo. I critici parlano di «francescomania» più
che di ritorno alla Chiesa. Forse ci si dovrebbe interrogare di più
sulla creatività e il rinnovamento che renderebbero la Chiesa capace di
intercettare almeno in parte il movimento avviato da Francesco.