La Stampa 16.3.16
Perché la Lega abbandona l’ex Cavaliere
di Giovanni Orsina
Non
è così sorprendente che nella Capitale la destra sia esplosa. La vera
sorpresa, forse, è che riesca a restar unita a Milano. Per quanto il
caos romano scaturisca pure dalla rissosità endemica della destra
capitolina, oltre che da una quantità notevole di incertezze, ambiguità e
voltafaccia, esso è soprattutto figlio di due questioni politiche
quanto mai reali.
La prima solo italiana: il tramonto della
leadership berlusconiana. La seconda visibile in tutto l’Occidente,
dalla Francia agli Stati Uniti alla Germania: la crescita prepotente
d’una destra anti-establishment che il centrodestra tradizionale non
riesce più a marginalizzare né egemonizzare.
Il tramonto della
leadership berlusconiana s’è ormai prolungato a tal punto che su di esso
non è rimasto molto da dire. La destra italiana l’ha creata Berlusconi -
una differenza non da poco con Donald Trump, per accennare soltanto un
parallelismo che da ultimo viene fatto spesso, non solo in Italia e non
sempre a proposito. Fin dal 1994 Berlusconi ha capito che per vincere
doveva raccogliere e tenere insieme, dal centro alla destra, quanti più
soggetti possibile. E c’è riuscito, malgrado la loro notevole
eterogeneità ideologica e geografica, soprattutto grazie a una
straordinaria forza mediatica, economica e politica. A destra era di
gran lunga il più forte: chi si alleava con lui poteva godere di
visibilità e aspirare al potere. Chi restava da solo aveva la certezza
dell’irrilevanza.
Oggi Berlusconi ha ancora un gruzzolo tutt’altro
che disprezzabile di voti. Ma a destra non è il più forte, o quanto
meno non al punto da dettar legge. La Lega, che a partire dalle elezioni
regionali del 2000 capì di non avere alternative all’alleanza col
Cavaliere, se voleva contar qualcosa, oggi al contrario vede con
chiarezza da un lato che rischia di non contare nulla nemmeno alleandosi
col Cavaliere. E, dall’altro, che un’alternativa ci sarebbe. O magari
più d’una.
E veniamo così alla seconda questione politica. La Lega
è un partito di destra anti-establishment. Già di per sé, questo la
colloca in uno spazio politico che gode ovunque di particolare fortuna.
Finora, è vero, i partiti che vi si muovono non hanno vinto in nessun
Paese. Basta tener presenti però da un lato le questioni ancora aperte -
la crisi epocale dei migranti lontanissima dall’esser risolta, la sfida
terroristica globale, la mediocre crescita economica -, dall’altro le
prossime scadenze elettorali - referendum sulla Brexit a giugno,
presidenziali americane a novembre, presidenziali francesi nella
primavera e parlamentari tedesche nell’autunno del 2017 -, per vedere
quali opportunità straordinarie potrebbero aprirsi ai partiti di destra
anti-establishment nel prossimo anno e mezzo.
E non solo. Essendo
un partito di destra anti-establishment, la Lega può muoversi lungo
entrambe le dimensioni che strutturano oggi il sistema politico
italiano: l’asse destra/sinistra e l’asse
establishment/anti-establishment. Sull’asse destra/sinistra il suo unico
alleato possibile è Berlusconi. Ma sull’asse
establishment/anti-establishment c’è un’altra forza con la quale la Lega
potrebbe dialogare. Una forza che negli ultimi tempi - sulle unioni
civili; sull’utero in affitto; nella scelta del candidato sindaco a Roma
- ha dimostrato di essersi ben accorta delle vaste praterie elettorali
che si stendono a destra del governo Renzi: il Movimento 5 stelle. Dove
mai sta scritto infatti che, se e quando mai il sistema politico
italiano ritroverà un minimo di stabilità, sarà con un polo destro e un
sinistro, e non invece con un polo di establishment e uno
anti-establishment?
Con tutto ciò non voglio dire che quanto è
accaduto a Roma abbia sancito la destrutturazione definitiva della
destra italiana. Il colpo, certo, è stato duro - ma da qui alle elezioni
politiche, quando mai saranno, sarà ben possibile recuperare. Voglio
dire però che il processo di ricostruzione d’uno schieramento di destra
competitivo sarà condizionato nei prossimi tempi da eventi globali al
momento imprevedibili e incontrollabili, in un contesto politico
estremamente cangiante. E che - proprio per l’incertezza del quadro e la
radicalità delle sfide - avrebbe poi bisogno di tanta leadership. Ma di
questa, al momento, non si vedono davvero le tracce.