La Stampa 16.3.16
I populismi che minacciano la stabilità
di Giovanni Sabbatucci
Da
quasi un decennio, in coincidenza non casuale col dispiegarsi della
crisi economica, la scena politica delle democrazie europee si sta
popolando di nuovi protagonisti, o aspiranti tali. Non sempre sono nuovi
davvero: già in passato alcuni di essi hanno conosciuto clamorosi
quanto isolati exploit, per poi dissolversi o inabissarsi alle elezioni
successive.
Ma ora crescono un po’ dappertutto e mostrano
insospettate capacità di tenuta. Li chiamiamo «partiti populisti»,
«movimenti radicali» o «forze antisistema». Ma è inutile tentare di
raccoglierli sotto un’unica definizione: fra loro hanno in comune solo
la tendenza a contrapporsi alle tradizionali forze di governo (liberali,
cattolici, socialdemocratici), a contestare in radice le regole e i
principi ispiratori dell’integrazione europea, a cavalcare le reazioni
di paura e di sconcerto suscitate dalle ristrettezze dei bilanci
statali, dalla minaccia dell’islamismo radicale e
dall’emergenza-migranti.
Non tutti questi movimenti possono, a
rigore, essere classificati come «antisistema», né accetterebbero di
definirsi tali. Se i greci di Alba dorata ostentano i loro simboli
neonazisti, se gli ungheresi di Jobbik non si curano di nascondere il
loro antisemitismo, il Front National francese, sotto la guida di Marine
Le Pen, è da tempo alla ricerca di una rispettabilità patriottica che
lo allontani dalle sue radici fasciste. In Polonia e in Ungheria le
forze nazional-populiste sono saldamente al governo, occupando lo spazio
altrove riservato ai partiti moderati e conservatori. I gruppi che si
caratterizzano soprattutto per le loro posizioni anti-Ue, come lo Ukip
di Nigel Farage nel Regno Unito, l’AfD di Frauke Petry in Germania e gli
stessi nazionalisti austriaci del Fpö, si dipingono come autentici
liberali. In Olanda, il Partito della libertà di Geert Wilders sposa la
polemica anti-islamica a posizioni libertarie in tema di diritti civili.
Il
quadro si complica ancora se ci spostiamo verso sinistra. In quest’area
i partiti socialisti «ufficiali» hanno sofferto più degli altri per
l’erosione del Welfare. Hanno dunque perso consensi a vantaggio di
formazioni nuove e anch’esse a loro modo populiste (Podemos in Spagna,
Cinque stelle in Italia), o hanno dovuto cedere parte del loro
elettorato a partiti più nettamente connotati a sinistra (in Grecia
Syriza ha di fatto preso il posto del Pasok), o, come i laburisti di
Jeremy Corbin, si sono spostati essi stessi su posizioni radicali.
È
dunque un movimento tellurico quello che sta scuotendo il paesaggio
politico delle democrazie europee e che pare mettere a rischio anche la
plurisecolare solidità del sistema statunitense: mai in passato due
personaggi come Donald Trump e Bernie Sanders, populisti di opposto
conio, avevano raccolto contemporaneamente tanti consensi nei rispettivi
partiti. Se e quando questo movimento si assesterà in un nuovo
equilibrio, non possiamo dirlo. Già ora sappiamo però che la
frammentazione prodotta dall’affermarsi di nuovi movimenti per natura
alieni dalla logica delle alleanze crea, nell’immediato, un grosso
problema di governabilità. Lo vediamo oggi in Spagna e in Irlanda, dove
la formazione di un esecutivo appare impresa problematica. Ma lo
scenario potrebbe riprodursi domani anche in altri Paesi, attraversati
da nuove linee di frattura ideologiche, sociali e culturali. Sembrerebbe
questa una buona ragione per dotarsi di strumenti elettorali capaci di
semplificare e stabilizzare il quadro delle forze in campo. Noi lo
strumento lo abbiamo già, anche se imperfetto. Si chiama Italicum e
faremo bene a tenercelo stretto.