La Stampa 15.3.16
Savater
“Leggete Don Quixote. È il primo romanzo europeo”
“Propone un ideale che va al di là dell’interesse personale” “La sua mancanza del senso della realtà è solo apparente”
intervista di Mario Baudino
Don
 Chisciotte gioca con noi, mentre tutti i personaggi del gran libro, 
almeno in apparenza, si prendono gioco di lui. Nel capolavoro di 
Cervantes, il primo romanzo moderno, ci sono le tracce della nostra 
modernità ancora a venire, della tradizione che ci portiamo sulle spalle
 e persino certe battute diventate proverbiali, come quella generalmente
 attribuita a D’Alema («capotavola è dove mi siedo io»): è pronunciata, 
forse per la prima volta al mondo, in una storia che racconta a tavola 
Sancio Panza, attribuendola a un ricco signore del suo villaggio natio.
Tra
 l’arida Mancia, Toledo, Barcellona e poco altro, in una manciata di 
chilometri l’hidalgo spalanca un mondo fantastico e incommensurabile che
 sprofonda in caverne e si inerpica in castelli, vola sui cavalli alati e
 s’infogna tra i malandrini, corre le selve e incontra frotte di pazzi, 
di savi, di cinici e soprattutto di giovani che muoiono d’amore. Don 
Chisciotte non è solo il cavaliere dalla Triste Figura, lo sventato dei 
mulini a vento: sa benissimo di essere un personaggio romanzesco. Anzi, 
sa di vivere in un mondo dove tutto è assolutamente falso e 
assolutamente vero.
Fernando Savater, il filosofo spagnolo 
dell’Etica per un figlio, ha scritto vent’anni fa un saggio dal titolo 
provocatorio e forse paradossale: Istruzioni per dimenticare Don 
Chisciotte, dove sosteneva come in fondo il personaggio letterario, 
«ultimo eroe e primo antieroe», ha qualcosa a che vedere col mondo 
religioso. C’è nella sua natura la richiesta di essere trasceso, 
diventare altro.
In che senso, professor Savater?
«Nel senso
 che è scappato dal romanzo, molto più complesso rispetto alla nostra 
idea del suo protagonista. E credo anche non molto letto, almeno oggi, 
mentre tutti hanno un’immagine di Don Chisciotte e ritengono quindi di 
conoscerlo. In quel saggio mi premeva sottolineare anche altro. Per 
esempio, un’ambiguità possibile, generata proprio dal mito».
Un effetto storico?
«Sì.
 Riflettevo sull’interpretazione che ne dette Thomas Mann, quando vedeva
 nell’idea donchisciottesca della perenne buona fede imposta però, 
almeno soggettivamente, con la forza delle armi, una prefigurazione di 
quanto era accaduto in Germania».
Insomma, del totalitarismo?
«Per
 questo il mio titolo era comunque paradossale. Potremmo definire Don 
Chisciotte un “pazzo dell’ideale”, che però viene sistematicamente 
sconfitto dal mondo. Per molti aspetti è un reazionario, ma non conosce 
il principio di necessità, si oppone istintivamente al mondo com’è».
Tutti nel romanzo lo ritengono pazzo, anzi, mezzo savio e mezzo pazzo. E proprio in questo diventa immensamente popolare.
«Perché
 la sua è una rivendicazione di libertà, che sembra folle ma forse non 
lo è. Libertà è non accettare l’inaccettabile ma anche quel che è 
ritenuto necessario, l’evidenza, tutto ciò cui nella nostra vita ci 
sottomettiamo con una sorta di rassegnazione. Lui rifiuta il principio 
di realtà».
Consapevolmente?
«Se ne può discutere. In 
Cervantes sembra che Don Chisciotte non si renda conto della realtà se 
non alla vigilia della morte. Però a leggere con attenzione si può 
ricavare invece che questa consapevolezza emerge abbastanza spesso, 
durante le sue avventure. Personalmente non prenderei posizione».
Perché leggere Don Chisciotte, oggi?
«Perché
 è un grande romanzo europeo. Non dimentichiamo che ci narra di un 
ideale in grado di andare oltre gli interessi personali. Potremo dire un
 ideale d’Europa».
Che non sembra quello delle burocrazie di Bruxelles.
«Non
 credo proprio che approverebbe i meccanismi di ripartizione dei 
migranti, le barriere, i muri. Lui è aperto a tutti, libera persino i 
carcerati... anche se finisce col prendersi una gragnola di botte 
proprio dai suoi (supposti) beneficiati».
Quanto a questo ha atteggiamenti di grande comprensione con un conoscente ebreo, vittima della cacciata dalla Spagna.
«Cervantes
 non era certo per la purezza del sangue. Aveva vissuto intensamente, 
aveva combattuto a Lepanto, era stato prigioniero in Oriente. Aveva una 
visione della società molto più complessa di quella dominante nella 
Spagna di Filippo II».
Grazie alla quale ha creato il romanzo 
moderno. Però non ha fondato una tradizione, non in Spagna. Il romanzo 
moderno si è sviluppato ed è cresciuto in Inghilterra.
«Diciamo 
che in Spagna questo romanzo non c’è. Non sono uno storico, ma direi che
 il problema è il ritardo nella formazione di una classe media nel 
nostro Paese, quella cui parla appunto il romanzo moderno, coi suoi 
amori, matrimoni, adulteri. Don Chisciotte è un romanzo d’avventura, 
satirico, umoristico, forse non va in quella direzione. È tutto epica. 
Forse per questo è così vivo».