La Stampa 14.3.16
Le forze anti-sistema che scuotono l’Europa
di Cesare Martinetti
Da
ieri sera l’Europa è più piccola, Angela Merkel è più debole e, in
attesa del referendum inglese sull’uscita di Londra dalla Ue (la
cosiddetta Brexit), un nuovo vocabolo già si affaccia nel lessico
politico: Frexit.
Se lo mettete su Google vi darà l’indirizzo di
un hotel di Friburgo, in realtà è l’annuncio di un nuovo choc che
potrebbe non tardare: anche i francesi vogliono uscire dalla Ue, secondo
un sondaggio degli ultimi giorni addirittura al 60 per cento.
Per
ora facciamo i conti con il voto tedesco, amarissimi per la
Cancelliera. La sua leadership è apertamente in discussione ma il
successo dell’Afd (come quello di Marine Le Pen in Francia) non è
valutabile con le normali e antiche categorie della dialettica politica.
Rappresenta invece qualcosa di più, è il cambio del paradigma politico
novecentesco: la discriminante ora non è destra/sinistra, ma pro o
contro l’Unione europea. È una rivolta per via elettorale e dunque
democratica contro questo sistema Europa.
La crisi dei migranti è
stata il detonatore che rischia di far saltare il sistema. La generosa
ma avventurosa apertura della Cancelliera al flusso biblico di
quest’estate aveva in pochi giorni messo in crisi anche la collaudata
organizzazione teutonica e da allora Angela Merkel ha capito che la sua
stagione poteva finire. Però il malessere dell’Europa viene da più
lontano e si sarebbe manifestato anche senza la crisi dei migranti. È
qualcosa di molto più complesso, è la fine di quella solidarietà che
aveva accomunato le destre e le sinistre democratiche all’uscita della
Seconda guerra mondiale e su cui era stato edificato il sogno
dell’Unione europea. È il crollo di un’egemonia culturale che
delegittimava qualunque pulsione nazionalista, era per l’appunto
un’utopia che si sta schiantando contro il riemergere di sentimenti
diffusi come la difesa delle proprie radici e l’esigenza di riconoscersi
in un’identità anche economica di fronte al ciclone della
globalizzazione. Ma è anche la rivolta contro un ceto politico che ha
perso il senso di quell’utopia e ridotto l’Europa a un groviglio di
regole inestricabili e - apparentemente - sempre penalizzanti. La lingua
comune appresa dai ragazzi delle «generazione Erasmus» (questa sì un
vero successo) si è mutata in un lessico tecnocratico irriconoscibile. E
questa è una responsabilità vera dei politici che hanno governato a
Bruxelles, di destra e di sinistra.
È per questa ragione che se il
voto tedesco ha indubitabilmente un carattere «antisistema», se davvero
vogliamo capire cosa succede, dobbiamo smettere di liquidare questi
risultati elettorali con la vittoria dei «populisti», un termine che
serve soltanto ai partiti al potere per autoassolversi dalle loro gravi
responsabilità. Quella che esce dalle urne tedesche, come a dicembre da
quelle francesi, è una domanda politica legittima e comprensibile. È una
domanda di autodifesa di una società che si sente impoverita e
minacciata. Frauke Petry, interrogata da un giornale francese, ha
respinto qualunque somiglianza con Marine Le Pen: «Lei ha un programma
economico socialista, noi siamo liberali...». Non è dunque un fronte
compatto quello che emerge, ma che sa parlare alla gente, spesso al di
fuori del galateo politico e non raramente al di là della grammatica
democratica. Ma o la politica tradizionale saprà interpretare il
sentimento popolare e condurlo dentro una nuova dialettica europea o per
l’Europa può davvero essere la fine.