Il Sole 14.3.16
Le due facce dello sviluppo
di Gian Carlo Blangiardo
Sapere
che per ogni mille abitanti della Terra “solo” 33 appartengono alla
categoria dei migranti, intesi come coloro che, stando alla definizione
(semplicistica ma necessaria) dettata dalle statistiche internazionali,
vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nati, può spingerci a
riconsiderare l’immagine mediatica delle migrazioni e ci aiuta a
ricondurre il fenomeno della mobilità internazionale alla sua reale
consistenza: 244 milioni di persone su una popolazione di 7,4 miliardi.
Se
dunque è vero che l’International Migration Report 2015, con cui le
Nazioni Unite hanno recentemente aggiornano la fotografia dello stock
dei migranti a livello planetario, può offrirci un dato relativamente
rassicurante circa la reale dimensione di quella che tende sempre più a
essere presentata come l’“emergenza demografica” del XXI secolo, è anche
vero che basta un semplice confronto temporale per far riemergere
qualche legittima preoccupazione. In effetti, osservando la dinamica
degli ultimi quindici anni si nota come il popolo dei migranti si sia
accresciuto di ben 71 milioni di unità. Si è sviluppato a un tasso medio
annuo del 2,3%; un livello che equivale a dar vita a un raddoppio ogni
trent’anni e significa muoversi a una velocità che è pari a due volte
quella che ha contraddistinto, nello stesso arco temporale, l’aumento
della popolazione mondiale. L’impressione di fondo è che dopo aver quasi
del tutto neutralizzato la “bomba demografica” centrata sul crescente
numero di abitanti prodotto da una fecondità largamente al di sopra del
ricambio generazionale in gran parte del mondo in via di sviluppo,
l’umanità debba ora disinnescare un nuovo ordigno. Una realtà incombente
che è dovuta a processi di mobilità dettati non solo da eventi
eccezionali – che tutti ci auguriamo transitori e superabili – ma anche
(e soprattutto) dal persistere di profonde disuguaglianze di cui le
stesse vittime sono sempre più consapevoli e sempre più propense a
mettersi in gioco per tentare di uscirne.
Non a caso, la netta
maggioranza dei migranti distribuiti nel mondo, circa due terzi,
provengono dai così detti Paesi a “medio reddito” e, come osserva il
Rapporto, è questa l’origine che negli ultimi quindici anni ha
registrato la crescita più rapida. Il peso delle provenienze dalle aree
tuttora in povertà estrema – i Paesi a “basso reddito” - resta ancora
relativamente modesto nel panorama mondiale (nel complesso essi coprono
il 10% dei migranti ), ma può già ritenersi significativo in termini di
incidenza sulla popolazione di riferimento (39 migranti per ogni 1.000
abitanti) e sembra decisamente destinato ad accrescersi nel tempo.
D’altra parte, è ben noto come sia proprio là dove le condizioni sono
peggiori che mancano i requisiti minimi a supporto della scelta di
emigrare. Ed è quindi facile immaginare che ogni passo in avanti nel
cammino verso lo sviluppo finirà paradossalmente per incentivare un
aumento dei flussi in uscita, stimolando la ricerca altrove di quanto
manca nei luoghi di origine. In tal senso, i dati demografici lanciano
un importante avvertimento: la popolazione che oggi vive in Paesi a
basso reddito, per lo più localizzati nell’Africa sub-sahariana, è oggi
stimata in 656 milioni, destinati a diventare 842 fra dieci anni e 1.055
milioni tra altri dieci. Se poi consideriamo, nella stessa area, la
sola componente giovane in età lavorativa (convenzionalmente i
20-44enni) i corrispondenti contingenti salgono dagli attuali 215
milioni rispettivamente a 290 e a 385 milioni nel 2036. Detto in poche
parole: nel prossimo ventennio in quello che è ritenuto il profondo Sud
del Mondo sarà necessario disporre mediamente di almeno 8-9 milioni di
posti di lavoro in più ogni anno unicamente per assorbire l’offerta
aggiuntiva derivante dalla crescita demografica della popolazione più
giovane in età attiva. E ogni insuccesso in tal senso non potrà che
produrre nuovi candidati a un’emigrazione dettata dal bisogno di
sopravvivere. Come si vede, il tema dei rifugiati, che pur resta
importante e rispetto al quale il Rapporto delle Nazioni Unite segnala
la drammatica crescita nel corso di questo avvio del nuovo secolo, non è
che la parte emersa dell’iceberg. Si tratta di un mondo in movimento
che fluttua pericolosamente e rispetto al quale si impongono azioni
mirate e coordinate a livello internazionale per fare in modo che la
consistenza numerica e la localizzazione territoriale del popolo dei
migranti mantengano caratteristiche di sostenibilità, ma è bene che ciò
avvenga su entrambi i versanti. Occorre infatti operare con lungimiranza
non solo perché le migrazioni possano continuare a rappresentare un
fondamentale contributo in termini di capitale umano per un nord del
mondo sempre più impoverito dalle dinamiche demografiche in atto, ma
anche (e soprattutto) per impedire che sia la valvola di sfogo
dell’emigrazione e non, come sarebbe giusto e auspicabile, lo sviluppo,
l’unica opportunità lasciata a centinaia di milioni di esseri umani che
inseguono il legittimo sogno di una vita migliore.