La Stampa 12.3.16
Gli strappi e le ricuciture
di Marcello Sorgi
All’ombra
delle prossime amministrative, decisive molto di più di altre volte
perché rappresentano una prova d’appello per Renzi, dopo il successo del
40 per cento alle europee del 2014 e il deludente risultato alle
regionali del 2015, sta accadendo qualcosa che può cambiare lo scenario
degli ultimi vent’anni: i due principali poli, centrosinistra e
centrodestra, sono in dissoluzione. Da Torino e Milano, a Napoli,
passando per tutte le grandi città chiamate ad eleggere i sindaci, i
candidati scelti con le primarie, o concordati tra i leader dei partiti,
non riescono a tenere insieme le coalizioni che dovrebbero votarli,
creando così le premesse per un’inedita competizione tra politica e
antipolitica e per ballottaggi, quasi ovunque, con gli esponenti del
Movimento 5 stelle.
Si dirà che quel che sta accadendo era già
avvenuto alle elezioni politiche del 2013, quando appunto il movimento
di Grillo a sorpresa era risultato primo partito e il Parlamento non era
stato in grado di esprimere una maggioranza. Ma è vero fino a un certo
punto.
L’exploit di Renzi nell’anno successivo, accompagnato dal
crollo grillino, aveva fatto pensare a una possibile stabilizzazione
attorno alla novità del governo del leader del Pd. Ora invece il
centrosinistra, non solo si divide, com’era già accaduto in passato, ma
lo fa seguendo l’itinerario opposto a quello percorso dalla nascita del
bipolarismo e della sinistra di governo. Invece di un accordo tra
post-democristiani e post-comunisti confluiti nel Pd, e ove possibile
anche con la componente più radicale della sinistra, a sorpresa si sta
ricucendo lo «strappo» che portò, esattamente un quarto di secolo fa,
alla scissione tra la generazione che aveva ammainato il nome e le
bandiere del vecchio Pci, dopo la caduta del Muro di Berlino, e la
pattuglia di irriducibili da cui ebbe origine Rifondazione comunista e
poi Sel. L’aspetto più sorprendente di questo processo è che non avviene
per un simmetrico riavvicinamento dei due tronconi, ma con D’Alema e
buona parte dei dirigenti storicamente responsabili dell’abbandono della
falce e martello che dichiarano il Pd inagibile per una politica di
sinistra, e si preparano a ricongiungersi con l’anima più estremista da
cui si erano separati, accusando Renzi di voler rifare un partito
pigliatutto stile vecchia Dc, in nome della nostalgia del vecchio Pci.
Sembra
incredibile: gli ulivisti con i radicali; i riformisti con i duri e
puri che gli sbarravano la strada in Parlamento; quelli che per due
volte portarono al governo Prodi accanto a quelli che lo affossarono. E
conta poco o nulla che le riforme varate dal governo Renzi (anche con
l’aiuto di Alfano, Verdini e dello stesso Berlusconi) siano le stesse
che il centrosinistra aveva invano progettato per due decenni,
rivelandosi infine incapace di realizzarle.
Alle radici di quanto
sta accadendo, e della fioritura di candidature alternative a quelle
renziane, c’è dunque la vecchia questione della contaminazione con il
berlusconismo, accettata da Renzi in nome del realismo e della necessità
di trovare l’appoggio parlamentare per realizzare il suo programma, e
rifiutata in blocco dai suoi oppositori interni, anche quelli, come
D’Alema, che in passato con l’ex-Cavaliere avevano tentato più di un
approccio.
Ma non è solo questo. Per capire, basta volgere lo
sguardo dall’altra parte, dove Salvini, dopo averlo sottoscritto, ha
fatto saltare per aria l’accordo del centrodestra su Bertolaso candidato
sindaco per Roma. Il leader della Lega non è il solo a contestare la
leadership ormai definitivamente logorata di Berlusconi, che ha cercato
di imporre l’ex-capo della Protezione civile: a destra per il
Campidoglio si fa avanti l’ex-presidente della Regione Lazio Storace, la
leader di Fratelli d’Italia Meloni è stata a un passo dall’entrata in
corsa, ed è in campo la candidatura civica, ma aperta all’alleanza con
il campo moderato, di Marchini. La vera divisione è tra chi pensa che la
donna da battere, con un nome nuovo e non con il riciclato Bertolaso,
sia la candidata M5s Raggi, non a caso scelta con un profilo compatibile
con l’elettorato di destra, e chi, come l’ex-Cavaliere, è rimasto
prigioniero del vecchio schema.
A ben vedere, la crepa che s’è
aperta nel centrosinistra è la stessa. Renzi è stato il primo, finora, a
riconoscere la consistenza niente affatto provvisoria dell’ondata
grillina e a contrapporvisi efficacemente: ed essendo anche lui nato sul
terreno antipolitico della rottamazione, ha il Dna adatto per
continuare la sfida. Ma proprio questo ha portato al limite della
rottura il confronto con i suoi avversari, preoccupati che le regole del
gioco possano cambiare definitivamente. Strano calcolo, questo dei
politici consumati che guidano la minoranza del Pd: perché se Renzi
vince, è vero, di spazio per nostalgie comuniste o democristiane ne
resterà pochino. Ma se invece vince Grillo, non ne rimarrà proprio
niente.