il manifesto 12.3.16
Lo strappino di D’Alema
Democrack.
L’ex premier alzo zero sul partito, ma è solo. Opposizione interna alle
prese con il referendum costituzionale: ma Renzi non consente defezioni.
L’attacco: «Dirigenti arroganti e stupidi, dal malessere del Pd nascerà
una nuova sinistra. La minoranza non dà battaglia». Gelo di Speranza:
«Noi stiamo nel partito con tutti e due i piedi»
di Daniela Preziosi
È
un fiume in piena, l’esplosione del tappo da una bottiglia troppo a
lungo sotto pressione. Massimo D’Alema dalle colonne del Corriere della
Sera cannoneggia il Pd, «finito in mano a un gruppetto di persone
arroganti e autoreferenziali», che respinge il ricorso di Bassolino
«perché in ritardo. Ma qui siamo oltre l’arroganza. Siamo alla
stupidità», le primarie «manipolate da gruppetti di potere», diventate
«un gioco per falsificare e gonfiare dati». Ce n’è per tutto il partito,
da Renzi in giù, passando per Orfini, appunto quello «arrogante», giù
fino al candidato sindaco di Roma Roberto Giachetti inchiodato a un
fotomontaggio della rete in cui traina un risciò in cui è seduto Renzi
(«la città ha bisogno di una personalità più forte»). Giù giù fino alla
minoranza Pd per la quale ha parole di compatimento: «non mi pare che
riesca a incidere sulle decisioni fondamentali», anche perché «non c’è
nessuna battaglia nel Pd». Giù ancora fino alla sinistra fuori dal Pd
alla quale pure voleva suggerire, o imporre, un candidato sindaco al
posto di Stefano Fassina, ovvero l’ex ministro Massimo Bray. A questa
sinistra che si sforza di rifondarsi ancora una volta D’Alema non dà
molto credito: «Inutile costruire nuovi partitini».
Quando di buon
mattino l’ex premier si materializza a piazza Montecitorio per recitare
un magistrale intervento in un seminario sulla guerra organizzato dal
professore Carlo Galli (Si), rincara la dose: «La rottura a sinistra
rischia di far perdere le elezioni, i voti che porteranno Verdini e
Alfano non compenseranno i voti persi», ma se il Pd perderà le
amministrative «non credo che Renzi si scolli dalla poltrona».
La
contraerea del Pd renziano e diversamente renziano si alza subito: sono
solo «le ultime ruote di un pavone dai colori sbiaditi» (l’ortodosso
Federico Gelli), «la strategia che per ricostruire il centrosinistra va
sfasciato il Pd ricorda Tafazzi» (il turco Francesco Verducci), «è ormai
un antagonismo radicale al Pd» (il veltroniano Walter Verini). Matteo
Orfini, ex pupillo dell’ex premier risponde con ironia tagliente: «È un
non senso essere disconosciuti da D’Alema per l’arrganza». Il pezzo
grosso dell’artiglieria, c’è da scommettere, arriverà domenica da Renzi,
che parlerà alla scuola di formazione politica del Pd.
Ma a
occhio i più arrabbiati per le esternazioni dell’ex premier sono quelli
della minoranza interna, soprattutto quelli di rito bersaniano che ieri
inauguravano la tre giorni a San Martino in Campo (Perugia) che dovrà
consacrare Roberto Speranza candidato alternativo al futuro congresso.
D’Alema «gli ha rovinato la festa», come sbotta Stefano Fassina con un
collega. C’è del vero: l’ex premier ruba la scena a una minoranza del
resto ormai ridotta all’afasia. Era già successo esattamente un anno fa:
durante un’altra kermesse della minoranza, stavolta all’Acquario di
Roma, D’Alema dal palco aveva fatto numeri a colori e i titoli erano
stati tutti per lui. Anche quella volta. Quella volta Gianni Cuperlo,
altro ex pupillo dell’ex premier, aveva replicato don durezza, stavolta
suggerisce ai dirigenti Pd di interrogarsi «sulle ragioni che spingono
una personalità di spicco della sinistra italiana a un’accusa così
severa».
Su tutto aleggia l’eterno spettro della scissione.
D’Alema non ne parla, ma stavolta fa un passo in più: prevede che
«l’enorme malessere» alla sinistra del Pd può trasformarsi in un «nuovo
partito», chiede di «ricostruire il centrosinistra» «dall’interno del Pd
e dall’esterno, perché in molti se ne sono andati». Per quanto lo
riguarda dichiara che a Roma voterà «liberamente da cittadino romano»
quindi non necessariamente il candidato del Pd (e aggiunge che la
candidatura dell’ex ministro Bray, quella che spaventa il Pd, sarebbe
«quella di maggior prestigio per la capitale»). Infine sul referendum
costituzionale spiega di non sentirsi vincolato «se non dalla
coscienza». Non è l’annuncio di un imminente addio ma poco ci manca.
Infatti da Perugia scende il gelo sulle sue parole. Roberto Speranza,
senza mai nominarlo, gli risponde: «La nostra sfida è dentro il Pd,
senza ambiguità: abbiamo due piedi dentro il Pd. È il nostro partito, ci
crediamo, lo amiamo».
Certo, a parole anche qui viene invocato il
ritorno al centrosinistra. È stato anche invitato Ciccio Ferrara, che
in Sinistra italiana è il capofila di quelli che temono la deriva
minoritaria della nuova forza politica postvendoliana. Ferrara dal palco
chiede di «preparare, già adesso, la prospettiva della sinistra
italiana del futuro». Pier Luigi Bersani risponde sì, ma a condizione
che questo non significhi uscire dal Pd: «Può esistere un centrosinistra
di governo se si dà per perso il Pd? No, può esistere una sinistra di
testimonianza, cosa nobile ma che a noi riformisti non può bastare».
Bersani incita i suoi a «alzare la voce su cose indigeribili». In realtà
i suoi lo fanno da sempre. Salvo poi votarle.