giovedì 10 marzo 2016

La Stampa 10.3.16
Leggi razziali
I paradossi nella tragedia
Milano, nei documenti depositati dalla Prefettura all’Archivio di Stato le storie della discriminazione prima della Shoah, tra infamie e accomodamenti
di Alberto Mattioli

Ci sono gli elenchi dei beni confiscati nelle case, minuziosissimi, in cucina dieci pentole e in bagno dodici asciugamani. Ci sono le istruzioni dettagliate per i competenti uffici sull’applicazione pratica delle leggi razziali del 1938. Ci sono gli elenchi dei conti correnti e delle cassette di sicurezza di proprietà degli ebrei, trasmessi dalle banche. Ci sono le domande di restituzione dei beni confiscati, per quelli che riuscirono a fuggire in tempo o a sopravvivere. E soprattutto ci sono 52 cartelle di fascicoli personali, più di seimila persone, intere famiglie, con i ricorsi contro l’accertamento della razza o le domande di «discriminazione» degli ebrei accertati, concesse per meriti militari o di militanza fascista o eccezionali, con un richiedente che domanda di poter tenere a servizio la domestica ariana perché accudisca l’anziana bambinaia ebrea (concesso) e un’altra che non l’ottiene perché un rapporto della Pubblica Sicurezza rivela che il figlio è stato visto portare garofani rossi sulla tomba di Anna Kuliscioff.
La colf ariana
La peggior infamia della storia unitaria italiana diventa una faccenda burocratica, un affastellarsi di carte, verbali di perquisizioni, richieste di pareri, scriventi uffici, domande che si rimpallano i Carabinieri, la Questura, la Prefettura e il ministero dell’Interno, Direzione generale per la Demografia e la Razza. Un perfetto incubo amministrativo, Kafka in ufficio, il male in triplice copia. Sono 78 faldoni di documenti che, passati i settant’anni di legge, la Prefettura di Milano ha «versato», come si dice in linguaggio archivistico, all’Archivio di Stato di Milano, che oggi alle 17 li presenta con una piccola mostra e un convegno cui partecipano, fra gli altri, il nuovo direttore, Benedetto Luigi Compagnoni, e la paleografa Alba Osimo, docente alla Scuola di Archivistica, che ha letto e catalogato la maggior parte dei documenti. Che poi saranno a disposizione degli studiosi, di chi vuole cercare le tracce di un parente o semplicemente di chi vuole avere un’idea di come nacque la tragedia. Nulla sulla deportazione e lo sterminio: siamo nella fase precedente, quella della discriminazione, della persecuzione burocratica, della perdita del lavoro, della cacciata dalle scuole e dalle università, dalla Pubblica amministrazione e dalle Forze armate.
In queste carte ci sono infinite storie. Prendete il dottor Segre Enrico di Remo, milanese, abitazione e studio in via Mario Pagano 14, quello che fa con successo la domanda per poter tenere la colf. Sappiamo che si salvò, perché fece poi la domanda di restituzione dei beni. E sappiamo che riuscì a scappare in Svizzera, perché nel suo fascicolo c’è anche una busta aperta. Dentro, una chiave arrugginita, troppo piccola per essere quella di casa e troppo semplice per una cassetta di sicurezza (un tiretto? la buca delle lettere?) e una lettera scritta a mano da una delatrice che si firma con nome e cognome, perfettamente leggibili ma che non riportiamo perché fa ribrezzo scriverli. Racconta, la signora, che il dottor Segre è oltreconfine, lo sanno tutti, e che l’appartamento è vuoto e disponibile, ma la portinaia non fa salire nessuno, il vicino e l’amministratore di condominio le tengono bordone, e insomma con tutto il bisogno di case che c’è perché non aprire questa. E conclude così: «È ora di smetterla con queste vigliaccherie».
Salvo per i denti guasti
Poi, come in ogni tragedia che si rispetti, ci sono le storie paradossalmente buffe. A un altro dottore, Arturo Serena, ne toccano addirittura due. Era un ebreo milanese arrestato a Varese, dove molti andavano per poi passare in Svizzera. L’8 gennaio 1944 - anno XXII, un medico provinciale dalla firma illeggibile va a visitarlo in carcere e stende un rapporto su carta intestata dalla quale (al Nord c’è la Repubblica di Salò) sono stati sommariamente cancellati lo stemma dei Savoia e la «R.» di Regia Prefettura. Il dottore trova che l’ebreo è stato «operato due anni fa di tonsillectomia bilaterale», insomma gli hanno tolto le tonsille, e avrebbe bisogno di fare anche l’appendicite. E «ha inoltre una dentatura parecchio guasta». Stupefacente la conclusione: «Le condizioni di salute del cennato (sic) soggetto non lo rendono idoneo a sopportare il regime del campo di concentramento».
Fuga dalla cantina
E infatti, incredibilmente, il dottor Serena non ci va. Finisce invece ricoverato nella clinica «La quiete» di Varese, di proprietà svizzera. Qui, e siamo al 29 gennaio, i questurini vanno a fare una retata, come da ineffabile gergo poliziesco del verbale, «per prelevare gli ebrei ivi ricoverati onde associarli alle locali carceri giudiziarie, da dove alle ore 16 a mezzo torpedone avrebbero dovuto partire alla volta di Milano». Trovano Serena, gli ingiungono di seguirlo. Il medico chiede di poter almeno prendere gli abiti al piano di sotto. «Il V. Brigadiere Sabbatelli gli acconsentì di scendere dando in consegna alla Gsc. Stasi Alceste il Serena».
Però manca la valigia dove metterli. Serena chiede di andare nello scantinato a prendere un po’ di carta per avvolgerli, lo Stasi Alceste gli dà il permesso controllando prima che non ci siano uscite. Ma «dopo quattro o cinque minuti non avendo lo Stasi visto risalire il Serena, si allarmò precipitandosi nel sotterraneo e purtroppo constatò, con sua grande meraviglia, che nel sotterraneo vi era un’uscita che dava all’esterno, da dove il Serena si era dileguato». Ecco, che il Serena sia riuscito a dileguarsi, dopo settant’anni, ci riempie ancora di gioia.