La Stampa 22.3.16
La fede senza consolazione del buon cristiano Quinzio
di Gianni Vattimo
Vent’anni fa moriva uno dei teologi più originali del dopoguerra.
Nell’ultimo libro scrisse di un Papa che chiude la Chiesa per fallimento
Possiamo considerare provvidenziale il fatto che ci tocchi
celebrare il ventennale della morte di Sergio Quinzio (scomparso il 22
marzo 1996) proprio all’inizio della Settimana Santa? Il fatto è che il
centro di tutta la meditazione di Quinzio, fin da quando cominciava a
pubblicare i suoi scritti mentre era ancora ufficiale della Guardia di
Finanza, è stato il mistero della resurrezione. Quella di Cristo,
anzitutto, narrata nei Vangeli, così intensamente commentati nelle sue
opere; e poi quella promessa agli uomini dopo il giudizio finale.
Né l’una né l’altra di queste resurrezioni, quella accaduta a Gerusalemme e quella promessa a tutti noi per il futuro, sono mai state per lui oggetto di una meditazione consolatoria e «edificante» nel senso più comune. Come il mistero della Croce, la resurrezione è un punto inquietante, di frizione, nella fede di Quinzio, e più in generale nella sua visione della Chiesa. I titoli delle sue opere più note, da La fede sepolta ( 1978) a La Croce e il nulla (1984) a Mysterium iniquitatis (1995), alludono a una concezione del cristianesimo improntata alla coscienza acuta di un fallimento, insomma il contrario di ogni trionfalismo e di ogni senso di positività esistenziale e storica.
Paradossalmente, è proprio con la resurrezione che ha a che fare questo complessivo angosciante senso di fallimento. Se anche gli apostoli hanno visto Gesù risorto (ma anche: «beati quelli che hanno creduto senza vedere») la trasformazione del mondo, la parusia, ossia il ritorno del Messia nella sua gloria che essi credevano imminente, non si è verificato. Il primo fallimento del Cristianesimo è stato questo, i nuovi cieli e la nuova terra che Gesù aveva promesso, credendo anche lui nella loro imminente realizzazione, non sono venuti, e anche dopo la sua risurrezione i suoi discepoli hanno dovuto fare i conti con questo inspiegabile ritardo. Che ha segnato in modo indelebile lo sviluppo della dottrina e della spiritualità cristiana.
Perfino il modo cristiano di considerare e vivere la sessualità ha le sue remote radici qui: il ritardo della parusia è il primo responsabile della progressiva tendenza spiritualizzante che si impose nella interpretazione del messaggio di Gesù, insieme allo scandalo che suscitava nel mondo greco l’idea che i morti potessero risorgere. La vita eterna venne sempre più considerata come riservata all’anima, che del resto la filosofia greca aveva già ritenuto immortale, mentre il corpo era destinato a perire: anche una volta risuscitati nell’ultimo giorno i fedeli salvati non avrebbero più goduto delle felicità terrene, «neque nubent neque nubentur» (Matt. 22, 30), cioè non avrebbero più avuto rapporti carnali e tutta la felicità del Paradiso si sarebbe risolta nella contemplazione di Dio. Non era però la nostalgia per i piaceri della carne che muoveva Quinzio, ma l’idea che la verità più caratteristicamente cristiana, la fede nella risurrezione, si era consumata fino a sparire sempre più dall’orizzonte della Chiesa in un processo di secolarizzazione.
È eloquente, in questo senso, soprattutto l’ultimo libro di Quinzio, Mysterium iniquitatis, in cui egli immagina di scrivere le due encicliche dell’ultimo Papa, che secondo una famosa profezia medievale sarebbe stato eletto alla fine del secondo milllennio. Anche questa profezia, fortunatamente o no, non si è realizzata, per ora. Tuttavia il tempo che viviamo, pensa Quinzio, è quello del trionfo dell’anticristo di cui parla l’Apocalisse, lo scatenarsi del male assoluto (Auschwitz e oltre!) a cui seguirà finalmente la parusia, il ritorno glorioso del Cristo giudice che farà nuove tutte le creature, asciugherà tutte le lacrime e raddrizzerà tutte le ingiustizie della storia.
È questo il cristianesimo capace di salvarci, anche se non è tenero e consolante come vorremmo che fosse? Non sarà esso stesso troppo «spirituale», troppo monastico e pessimista sulla possibilità di opporre qualche sia pur debole resistenza al dilagare del male che moltiplica le vittime nell’apparente silenzio di Dio, e spesso anche dei suoi ministri? E poi: potrebbe essere stata segnata da uno spirito «quinziano» la decisione di Benedetto XVI, di dimettersi dalla sua carica? O addirittura, come pensano probabilmente molti integralisti, non sarà proprio Francesco, con le sue riforme e la sua dissoluzione di tante tradizioni consolidate, l’ultimo papa della storia? Domande che ci portano pericolosamente vicino a Dan Brown e ai suoi gialli religiosi, che certo Quinzio non amava. Ciò che rimane di lui è forse descrivibile come la testimonianza di un Giobbe che non si lascia tanto facilmente convincere di avere torto, e prende in parola le promesse divine con una ostinazione di cui la fede non può fare a meno.
Né l’una né l’altra di queste resurrezioni, quella accaduta a Gerusalemme e quella promessa a tutti noi per il futuro, sono mai state per lui oggetto di una meditazione consolatoria e «edificante» nel senso più comune. Come il mistero della Croce, la resurrezione è un punto inquietante, di frizione, nella fede di Quinzio, e più in generale nella sua visione della Chiesa. I titoli delle sue opere più note, da La fede sepolta ( 1978) a La Croce e il nulla (1984) a Mysterium iniquitatis (1995), alludono a una concezione del cristianesimo improntata alla coscienza acuta di un fallimento, insomma il contrario di ogni trionfalismo e di ogni senso di positività esistenziale e storica.
Paradossalmente, è proprio con la resurrezione che ha a che fare questo complessivo angosciante senso di fallimento. Se anche gli apostoli hanno visto Gesù risorto (ma anche: «beati quelli che hanno creduto senza vedere») la trasformazione del mondo, la parusia, ossia il ritorno del Messia nella sua gloria che essi credevano imminente, non si è verificato. Il primo fallimento del Cristianesimo è stato questo, i nuovi cieli e la nuova terra che Gesù aveva promesso, credendo anche lui nella loro imminente realizzazione, non sono venuti, e anche dopo la sua risurrezione i suoi discepoli hanno dovuto fare i conti con questo inspiegabile ritardo. Che ha segnato in modo indelebile lo sviluppo della dottrina e della spiritualità cristiana.
Perfino il modo cristiano di considerare e vivere la sessualità ha le sue remote radici qui: il ritardo della parusia è il primo responsabile della progressiva tendenza spiritualizzante che si impose nella interpretazione del messaggio di Gesù, insieme allo scandalo che suscitava nel mondo greco l’idea che i morti potessero risorgere. La vita eterna venne sempre più considerata come riservata all’anima, che del resto la filosofia greca aveva già ritenuto immortale, mentre il corpo era destinato a perire: anche una volta risuscitati nell’ultimo giorno i fedeli salvati non avrebbero più goduto delle felicità terrene, «neque nubent neque nubentur» (Matt. 22, 30), cioè non avrebbero più avuto rapporti carnali e tutta la felicità del Paradiso si sarebbe risolta nella contemplazione di Dio. Non era però la nostalgia per i piaceri della carne che muoveva Quinzio, ma l’idea che la verità più caratteristicamente cristiana, la fede nella risurrezione, si era consumata fino a sparire sempre più dall’orizzonte della Chiesa in un processo di secolarizzazione.
È eloquente, in questo senso, soprattutto l’ultimo libro di Quinzio, Mysterium iniquitatis, in cui egli immagina di scrivere le due encicliche dell’ultimo Papa, che secondo una famosa profezia medievale sarebbe stato eletto alla fine del secondo milllennio. Anche questa profezia, fortunatamente o no, non si è realizzata, per ora. Tuttavia il tempo che viviamo, pensa Quinzio, è quello del trionfo dell’anticristo di cui parla l’Apocalisse, lo scatenarsi del male assoluto (Auschwitz e oltre!) a cui seguirà finalmente la parusia, il ritorno glorioso del Cristo giudice che farà nuove tutte le creature, asciugherà tutte le lacrime e raddrizzerà tutte le ingiustizie della storia.
È questo il cristianesimo capace di salvarci, anche se non è tenero e consolante come vorremmo che fosse? Non sarà esso stesso troppo «spirituale», troppo monastico e pessimista sulla possibilità di opporre qualche sia pur debole resistenza al dilagare del male che moltiplica le vittime nell’apparente silenzio di Dio, e spesso anche dei suoi ministri? E poi: potrebbe essere stata segnata da uno spirito «quinziano» la decisione di Benedetto XVI, di dimettersi dalla sua carica? O addirittura, come pensano probabilmente molti integralisti, non sarà proprio Francesco, con le sue riforme e la sua dissoluzione di tante tradizioni consolidate, l’ultimo papa della storia? Domande che ci portano pericolosamente vicino a Dan Brown e ai suoi gialli religiosi, che certo Quinzio non amava. Ciò che rimane di lui è forse descrivibile come la testimonianza di un Giobbe che non si lascia tanto facilmente convincere di avere torto, e prende in parola le promesse divine con una ostinazione di cui la fede non può fare a meno.