domenica 6 marzo 2016

Il Sole Domenica 6.3.16
L’Europa del merito. Domenica Bueti
Cos’è il tempo? Lo scopriremo
di Gianluca Briguglia

«Che cos’è il tempo?» è una domanda classica della filosofia. E non tra le più semplici: «Se nessuno me lo chiede, so bene cos’è - afferma Agostino in una pagina famosa -, ma a chi me lo chiede non so rispondere». Ma è anche una domanda complicata per tutte le altre scienze, fisica, astronomia, biologia. Domenica Bueti, neuroscienziata con grande esperienza di ricerca internazionale, per esempio all’Eap di Losanna, è stata ora premiata con un Erc Grant dell’Unione Europea per un progetto di ricerca su come il cervello umano riconosce e controlla il tempo. Il tempo non è tangibile, è un’astrazione, ha una sola irreversibile dimensione: non si può toccare, non si può odorare, non si può vedere. Non c’è una rètina del tempo, su cui possa imprimersi. O forse sì? Se i sensi non lo percepiscono, tuttavia percepiscono la durata: un’immagine in movimento, una nota, hanno una durata. È possibile che le aree della corteccia cerebrale che decodificano i dati sensibili collaborino nel percepire il tempo? Le teorie classiche pensano che certe aree del cervello elaborino il tempo (e lo spazio) in modo quasi indipendente, come se si trattasse di una sorta di “orologio generale”. L’ipotesi di Bueti è che questo orologio generale interagisca con altri piccoli orologi, legati ai sensi specifici, localizzati nelle aree visive, tattili, olfattive del cervello. Esiste una topografia cerebrale del tempo? Bueti e i suoi ricercatori lavoreranno a quest’ipotesi alla Sissa di Trieste.

Repubblica 6.3.16
I tabù del mondo
Il nostro lato Sade il libertino che sfida la Legge
La perversione non è un comportamento sessuale deviato, visto che la trasgressione è comune a tutte le forme di erotismo. È piuttosto una sfida impossibile contro qualsiasi regola, qualsiasi precetto legato alla cultura, in nome di un concetto astratto di Natura Una tendenza che ai giorni nostri è forte più che mai
di Massimo Recalcati


Nessuna figura come quella del perverso si candida ad infrangere ogni tabù. È la sua professione e il suo programma. È la sola perversione degna di questo nome: sfidare la Legge degli uomini mostrando la sua natura falsa e ipocrita, poiché la sola Legge che conta è quella del proprio godimento.
Un luogo comune, avallato anche da una certa psicoanalisi, ha voluto invece considerare la perversione come una aberrazione del comportamento sessuale, come un vizio che sottolineerebbe il carattere deviato, anarchico, esorbitante della sessualità. In realtà, da questo punto di vista, gli esseri umani sarebbero tutti egualmente perversi. Il desiderio sessuale è, infatti, abitato strutturalmente da una dimensione lussuriosa. Freud parlava a questo proposito già della sessualità del bambino come di una sessualità perversa-polimorfa. Mentre nel mondo animale il sesso sembra rispondere alla bussola infallibile dell’istinto, la sessualità umana eccede quella guida, la sconvolge; non si piega né alla finalità riproduttiva, né a quella del rapporto sessuale come semplice congiunzione dei genitali. Lacan ironizzava affermando che nella sessualità umana non c’è mai nulla di naturale, nulla di realistico: i gusti e le pratiche sessuali non sono piegati alla legge biologica dell’istinto ma appaiono sempre devianti, strambi, simili a dei collage surrealisti.
La vera perversione non si manifesta dunque nelle pratiche sessuali fuori norma anche perché è la sessualità umana come tale a essere “normalmente” perversa. Né si manifesta nella spinta a trasgredire la Legge perché nella trasgressione della Legge c’è già una qualche forma di riconoscimento del valore simbolico della Legge. Ne è una prova il senso di colpa che accompagna solitamente ogni atto trasgressivo. Nell’Epistola ai Romani Paolo di Tarso ha messo bene in evidenza il nesso che lega la Legge al peccato. Solo se esiste una Legge può esistere anche il senso della sua trasgressione, ovvero il senso del peccato. È questa la dimensione della perversione che accompagna ordinariamente il desiderio umano, il quale può intensificarsi e inebriarsi grazie all’esistenza di un limite e al brivido provocato dal suo oltrepassamento trasgressivo.
Lo insegna anche il mito biblico di Genesi: è l’interdizione dell’oggetto (il frutto dell’albero della conoscenza) che lo rende un oggetto di desiderio. Più si rende un oggetto qualsiasi proibito e inaccessibile, più si alimenta il suo desiderio. Questa spinta del desiderio a superare il limite della Legge, non definisce però ancora la vera perversione. Per intenderne davvero il significato bisogna abbandonare la dialettica tra Legge e desiderio sul quale si fonda l’iscrizione simbolica del tabù. Il vero perverso, infatti, vuole distruggere ogni tabù, cioè vuole liberare il desiderio da ogni forma di Legge, vuole sfidare la Legge degli uomini nel nome di un’altra Legge. È quello che Lacan vede incarnarsi nell’opera libertina del marchese De Sade. Questi non si accontenta della versione paolina della Legge e della sua trasgressione. Questa nuova Legge con la quale il vero perverso pretende di smascherare la Legge degli uomini come un’impostura, una maschera, un artifizio ipocrita è la Legge del godimento. Essa non trova posto nei Codici, ma è per Sade iscritta nella Natura.
È il fondamento vitalistico che anima il sogno del perverso: seguire la Legge della Natura per raggiungere un godimento puro, non ancora corrotto dal linguaggio. Per questo la pedofilia è una delle espressioni più forti e inquietanti della perversione: godere dell’innocente significa ricuperare un godimento pieno, assoluto, non ancora contaminato dall’esistenza della Legge. Nessun tabù, compreso quello dell’incesto, deve ostacolare questo dispiegamento onnipotente e cinico del godimento. Il disegno politico della perversione si chiarisce così come lo sforzo inumano di liberare le leggi della Natura dalle catene repressive delle Leggi della Cultura per riportare l’uomo al suo fondamento materialistico, vitalistico, come spiega pedagogicamente M.me Saint-Ange alla sua giovane depravata discepola Eugénie ne La filosofia nel boudoir: «Spezza le tue catene a qualunque costo, disprezza le vane rimostranze di una madre imbecille, a cui non devi che odio e disprezzo. Se tuo padre ti desidera, concediti: goda di te, ma senza incatenarti; spezza il giogo se vuole asservirti… Fotti, insomma, fotti: è per questo che sei al mondo. Nessun limite ai tuoi piaceri se non quelli delle tue forze o delle tue volontà».
Il teatro perverso di Sade, le giovani donne straziate, degradate, seviziate, umiliate dai loro carnefici, non ha altro fine che questo: riportare il godimento alla sua Origine, liberandolo definitivamente da ogni mancanza. Il richiamo alla Legge della Natura avviene così contro la Legge degli uomini, falsa e corrotta. Il vero crimine non è, infatti, quello del libertino, ma quello della Legge che osa imporre dei limiti al godimento; il vero crimine non è quello sadiano, ma quello dell’uomo falsamente morale che non rispetta le leggi della Natura. Sade ci costringe a invertire il punto di vista morale della distinzione tra Bene e Male, tra Virtù e Vizio. Il vero peccato non è quello del libertino — il Vizio — ma quello della morale — la Virtù — che nega i desideri “naturali” che costituiscono l’essere umano. La Legge degli uomini è vista come un serpente o una vipera velenosa dalla quale bisogna difendersi. Essa impone sacrifici, limiti, soglie simboliche inutili che mutilano la spinta auto-affermativa di godimento della vita. In questo il marchese de Sade anticipa una svolta epocale in corso del nostro tempo dove i suoi proseliti si moltiplicano mostrando che la Legge degli uomini è solo una maschera artefatta della sola Legge che conta: l’affermazione incontrastata della propria volontà di godimento.

DOPO GLI ABBRACCI CON EBREI E ISLAMICI
La Stampa 6.3
Il Papa riceve valdesi e metodisti. Prima volta nella storia
Restituita in Vaticano la visita di Francesco al tempio di Torino. Pranzo insieme a Casa Santa Marta. Il moderatore della Tavola Bernardini: «Incontro fraterno e autentico. Avanti nella comunione tra le nostre Chiese nonostante le diversità»
di Domenico Agasso jr

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La Stampa 6.3
Il cardinale Pell: “Abbiamo sbagliato troppo. Nella Chiesa non c’è spazio per preti o religiosi pedofili”
«Sono stato passivo e un po’ scettico con le accuse»
intervista di Andrea Tornielli

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La Stampa 6.3
Parroco lancia l’album delle figurine “Santini”
L’idea è di don Roberto Fiscer, della chiesa di San Martino d’Albaro, nel Genovese:
«Un modo per far conoscere le persone più significative per la Chiesa»

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La Stampa 6.3
Le aperture della Chiesa hanno dei limiti
di Enzo Bianchi


Nella chiesa del tempo post-conciliare, da quando papa Giovanni con il suo discernimento profetico individuò tra i «segni dei tempi» l’ingresso della donna nella vita pubblica, più volte si sentono voci - a cominciare da quelle dei papi che si levano per chiedere una più grande valorizzazione della donna nella chiesa, una sua maggior partecipazione alle diverse istituzioni che la reggono e la organizzano, un riconoscimento a lei di tutte le facoltà che in quanto battezzata - e ciò vale anche per i laici battezzati - possiede di diritto.
Come negare che dopo il Vaticano II ci sia una forte presenza femminile nella maggior parte dei servizi e delle diaconie ecclesiali? Nella catechesi, nella formazione cristiana, nell’animazione liturgica sovente oggi sono le donne a supplire alla mancanza di presbiteri. Qua e là esistono ancora posizioni indurite che negano la possibilità alle donne, e di conseguenza alle ragazze, di essere ammesse attorno all’altare, ma all’ambone ormai salgono più donne che uomini a proclamare le sante Scritture. Va effettivamente riconosciuto che la presenza e il servizio delle donne è ritenuto necessario, ma quanto all’ammetterle negli spazi di partecipazione alle responsabilità e alle decisioni per la vita ecclesiale, l’esitazione è ancora grande sicché l’icona che la chiesa presenta alla società è quasi totalmente maschile e appare, lo si voglia o no, un corpo mutilato.
Giustamente le teologhe chiedono di evitare la ricerca di una teologia speciale della donna, ma di far partecipare le donne alla vita della chiesa: basterebbe che là dove ci sono uomini non ordinati - cioè non preti o vescovi - si potessero vedere anche delle donne, battezzate come loro. Nessun attentato alla dottrina, ma una semplice adesione alla realtà della chiesa, composta come l’umanità da uomini e donne. Molte sono le possibilità rispettose dell’attuale dottrina cattolica sul ministero ordinato: basterebbe un po’ di audacia e di volontà di non limitarsi a fare come si è sempre fatto, un po’ di coraggio nell’intraprendere vie che conferirebbero alla donna non «immagini stereotipate romantiche e poetiche», ma un riconoscimento di ciò che è una cristiana: una battezzata con la possibilità di prendere la parola in ecclesia, di essere ascoltata collaborando ai processi decisionali nella chiesa. Se sinodalità come la intende papa Francesco è un camminare insieme non solo di vescovi, ma di tutto il popolo di Dio, allora si devono immettere anche le donne cristiane in questo cammino fattosi così urgente anche se tanto difficile e faticoso.
Papa Francesco nella «Evangelii gaudium» stigmatizza le guerre presenti nello stesso popolo di Dio ed è proprio in questo contesto che non dimentica come il maschilismo e il clericalismo non riconoscano con sufficienza «il bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella chiesa» (EG 103): perciò si augura questa presenza anche dove vengono prese decisioni importanti e chiede a pastori e teologi di cercare e di impegnarsi per dare alla donna un ruolo conforme alla sua dignità di membro del corpo di Cristo nella storia che è la chiesa. Certo, anche papa Francesco non può far altro che ribadire la dottrina tradizionale circa il ministero presbiterale riservato sin dall’età apostolica solo agli uomini e ancor oggi così normato nella chiesa cattolica e in tutte le chiese ortodosse.
Ma questo non significa che la chiesa debba appiattirsi su posizioni che poco hanno a che fare con questa preclusione limitata al ministero ordinato e che pur hanno caratterizzato il modo in cui la chiesa ha considerato le donne nel corso della sua storia bimillenaria. A ragione alcune teologhe sapienti esprimono il timore che oggi «nel momento di passaggio tra il secondo e il terzo millennio cristiano, abbia luogo un riflusso involutivo analogo a quello che ha segnato il passaggio tra il primo e il secondo secolo cristiano e che ha portato alla marginalizzazione delle donne dall’ecclesia cristiana». E se le mutate condizioni socio-culturali rendono meno concreta questa possibilità, resta la nostra grave responsabilità di operare affinché ciò non avvenga.
Oggi, infatti, nella nuova situazione segnata da una rivoluzione antropologica e culturale inedita in gran parte avviata dalle donne, non possiamo più dilazionare una serie di possibilità di presenza della donna nella vita della chiesa e nell’assemblea liturgica. Quello che si dovrebbe chiedere, almeno in obbedienza al messaggio di Gesù, è che sia consentito alle donne ciò che è consentito agli uomini laici, come da sempre è avvenuto nel monachesimo,che riconosce anche alla donna possibilità di governo, di predicazione, di insegnamento dottrinale, di guida spirituale. Non c’è mai stata nessuna differenza nel servizio dell’autorità tra un abate e un’abbadessa, tra un priore e una priora, né si vede perché, se ci sono «padri spirituali», non ci possano essere «madri spirituali». La valorizzazione della presenza, dei carismi e dei ministeri delle donne nella chiesa cattolica non può dipendere da semplici «auguri» mai attuati, né da ostinate rivendicazioni: passa attraverso l’ormai ineludibile riscoperta della pienezza della vocazione battesimale e del conseguente apprezzamento della chiamata che ogni cristiano ha ricevuto per annunciare e testimoniare il vangelo di Gesù Cristo agli uomini e alle donne del proprio tempo.
Il teologo Armando Matteo ha scritto «La fuga delle quarantenni» per indicare la disaffezione e l’abbandono della chiesa da parte delle donne, ma presto se le cose non mutano, registreremo il venir meno anche delle donne più giovani: chi accetta di abitare una casa senza aver possibilità di viverla, governarla, rinnovarla ogni giorno assieme agli altri?

La Stampa 6.3
Papa Francesco non trascuri la dimensione laica
di Gian Enrico Rusconi


Non è facile essere laici al tempo di Bergoglio, soprattutto in questo Paese dove tutti si dichiarano laici. La confusione non proviene soltanto dal mondo confessionale, ma anche da non credenti dichiarati che godono di grande impatto mediatico. Qualche laico poi ha frainteso l’appassionata insistenza di Papa Francesco sul tema della «misericordia» come una forma di relativizzazione del concetto di peccato. Come una sorta di sua implicita laicizzazione. È un grande equivoco, anche se l’ermeneutica anzi la semantica del Papa sono tutt’altro che innocue rispetto alle formule dogmatiche tradizionali. Certo: la discriminante della laicità non passa più semplicemente tra credenti e non credenti. Ma decisivi rimangono pur sempre i contenuti del credere, del non credere o del credere con modalità diverse e divergenti dalla dottrina tradizionale.
Lasciano quindi perplessi alcune dichiarazioni di fede religiosa di intellettuali e politici di sinistra, sedotti da Papa Francesco. Con tutto il rispetto e la discrezione per la loro posizione, è rilevante che siano espliciti i contenuti religiosi o teologici che ora intendono accettare. Non basta l’entusiamo per un Pontefice che parla contro lo sfruttamento, l’emarginazione, l’ingiustizia, la violenza delle guerre e affronti positivamente la questione delle migrazioni. Papa Bergoglio parla anche - sistematicamente e insistentemente - di Cristo nel senso fondativo del termine. Non è un accessorio culturale: è il centro del suo discorso, è l’essenza della visione del mondo del credente. Da qui discende tutto il resto. Questo non vuol dire che su «tutto il resto» - che è vastissimo - non ci possano essere convergenze con i non credenti e/o laici. Ma ad un certo punto interviene come qualificante la dimensione politica e pratica della laicità.
Oggi non ci si divide più politicamente sulla figura di Cristo o sulla ricostruzione storico-critica delle origini del cristianesimo, ma già l’idea della creazione solleva seri problemi quando si entra nell’ambito dell’insegnamento scolastico (come vediamo in America nello scontro tra creazionisti ed evoluzionisti). Più divisivi ancora sono gli argomenti che riguardano la famiglia e i problemi bioetici. Su questi temi la laicità dello Stato richiede che - in vista della deliberazione politica - non debbano essere messi in gioco argomenti religiosi.
A questo proposito è bene ribadire che la laicità nella democrazia non è semplicemente una opzione privata (una visione del mondo omologabile alla fede religiosa) ma è lo statuto stesso della cittadinanza. Laicità è la disponibilità a far funzionare le regole della convivenza democratica partendo dalla pluralità e persino dal contrasto delle «visioni della vita» e della «natura umana» che hanno i diversi cittadini. Questo punto rischia di diventare un grosso problema proprio perché quella di «natura umana» è il concetto forse più divisivo nella cultura contemporanea e per molti ha forti implicazioni religiose.
Prendiamo ad esempio l’idea di matrimonio e di «famiglia naturale» che è diventato un cavallo di battaglia nelle recenti polemiche parlamentari di casa nostra. È nota la dottrina della Chiesa che lega esplicitamente il concetto di famiglia naturale «all’ordine della creazione che evolve verso l’evento della redenzione» . Così ha ribadito l’ultimo Sinodo dei vescovi sulla famiglia, parlando appunto di «matrimonio naturale delle origini». È comprensibile che i parlamentari cattolici non introducono esplicitamente nel discorso pubblico-politico l’argomento religioso che fa riferimento diretto alla creazione-redenzione secondo la tradizione cristiana. Ma rimangono assolutamente impermeabili ad ogni argomentazione storica, scientifica e antropologica che mostra quanto varia e complessa è stata ed è l’unione tra uomo e donna (e la famiglia in generale) in tutte le culture compresa quella cui apparteniamo.
La straordinaria sensibilità di Papa Bergoglio nel comprendere e nell’aprire alla «misericordia» le tante famiglie ferite, disastrate e in difficoltà non avalla alcuna novità di principio nella concezione della «famiglia naturale» detta sopra. La sua recente dichiarazione di non volersi «mischiare» nella politica italiana a proposito di «unioni civili» non modifica in nulla l’equivoca situazione in cui permane la politica nostrana.
È interessante invece come il Pontefice si sia espresso sulla laicità in un altro contesto, incontrando una qualificata delegazione di cattolici francesi. Ha ripreso il noto e collaudato concetto di «sana laicità» combinando, secondo il suo stile, tesi tradizionali con accenti personali. «Una laicità sana include un’apertura a tutte le forme di trascendenza, secondo le differenti tradizioni religiose e filosofiche. D’altro canto anche un laico può avere un’interiorità» aggiunge accompagnando la parola con un gesto della mano che parte dal cuore (così osserva il commentatore dell’Osservatore romano, da cui prendo le citazioni). Ma poi aggiunge: «Una critica che faccio alla Francia è che la laicità risulta talvolta troppo legata alla filosofia dell’Illuminismo, per il quale le religioni erano una sottocultura. La Francia non è ancora riuscita a superare questo retaggio». Questa affermazione critica coglie di sorpresa un autorevole partecipante all’incontro che si permette di far osservare al Pontefice che «la sua analisi è un po’ dura». «Tanto meglio!», esclama Francesco, con aria sinceramente allegra.
Non è in caso di soppesare più del necessario queste e altre osservazioni che il Papa fa nel corso della sua instancabile attività comunicativa. Il suo approccio ermeneutico e semantico è per definizione flessibile e aperto agli incontri, ai contatti, alle frustrazioni, ai successi. Un aspetto tuttavia mi sembra carente. Manca una più meditata considerazione degli argomenti laici. Non basta la simpatia per le persone. Occorre quello che Jürgen Habermas chiama «reciprocità cognitiva tra fede e ragione». Occorre andare più a fondo nello scambio reciproco di ragioni e di argomenti.

La Stampa 6.3
Padre Sorge
“Basta guerra laici-cattolici”
“Per la Costituzione tutti hanno pari dignità”
“Laici e cattolici, trovate una grammatica etica per dialogare sui valori”
“Intollerabile non tutelare le coppie gay”
di Bruno Quaranta


Chiesa e politica, una antica questione riproposta dal dibattito sulle unioni civili. A chi rivolgersi per avere lumi se non a padre Sorge? A suggerirlo è Francesco, che, in un recente incontro, ha elogiato il confratello: «Lui è un gesuita che ha aperto la strada nel campo della politica».
Padre Sorge, 87 anni, già direttore di «La Civiltà Cattolica», il maggiore esperto di dottrina sociale della Chiesa. Nell’oasi ambrosiana di San Fedele, scruta e interpreta i segni dei tempi. Non dimenticando l’avvertenza di sant’Ignazio: «Si chiama comunemente scrupolo ciò che procede dal nostro proprio giudizio e libertà, allorquando istintivamente immagino che sia peccato ciò che peccato non è». Distinguere sempre...
La vicenda unioni civili è in genere raccontata con le categorie «laici» e «cattolici»...
«La divisione risale a una fase storica che non esiste più. L’epoca delle ideologie, ciascuna ideologia una visione totale della storia, dell’uomo, della società. Si impose allora, comprensibilmente, l’ideologia cristiana».
Una stagione conclusa?
«Ad archiviarla è stato il Concilio. Ma nella mentalità di molti non è tramontata. Ridurre la religione a ideologia è una stortura non ancora debellata».
Chiesa e Stato in Italia secondo gli ultimi pontefici...
«Da Paolo VI, la scelta religiosa, l’addio al collateralismo (se ne riapra l’Octogesima adveniens: spetta ai laici, “senza attendere passivamente consegne o direttive”, agire nella città terrena). A Wojtyła: la Chiesa abbia una funzione sociale. Pensava alla sua Polonia e all’Italia, a ciò che la Chiesa aveva dato ai due Paesi. Riteneva che la Chiesa avesse diritto a un risarcimento. Trainando culturalmente le due nazioni. A Francesco: mai come ora il Tevere è stato così largo».
E ora?
«E’ un periodo di ricerca. Non c’è chi spicchi, scomparso Martini. Martini nel solco di Montini, la scelta religiosa».
Ossia?
«La missione religiosa della Chiesa, madre di tutti (Martini in ogni uomo scorgeva un credente e un non credente). Cancellando le sovrastrutture che da Costantino in poi hanno bacato la Chiesa, trasformandola in uno Stato. Il Papa non successore di un pescatore, ma di un imperatore. Francesco è il ritorno al Vangelo».
Le unioni civili banco di prova...
«Lo Stato è laico. La Costituzione è laica. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge. Era intollerabile che i diritti personali degli omosessuali che vivono in coppia non fossero tutelati giuridicamente».
Unioni civili e famiglia...
«Altra è l’equiparazione tra coppie eterosessuali e coppie omosessuali. L’articolo 29 della Costituzione “riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”».
Jemolo osservava: uno Stato non può vivere «senza certe convinzioni universalmente accettate».
«Vivere uniti rispettandosi diversi. È la sfida del ventunesimo secolo. Una società non sta in piedi se non ha un fondamento etico. Che non può prescindere, come affermava il non credente Croce, da una dimensione trascendente, la religione essenza di qualsiasi umanesimo».
Un nuovo umanesimo: quali i suoi valori universali?
«La risposta la diede Giovanni Paolo II all’Onu. Una “grammatica etica” con tre architravi: la dignità della persona umana, la solidarietà (la democrazia ne è l’espressione più alta), la sussidiarietà (valorizzando l’apporto che ciascuno può dare senza che il superiore si sostituisca all’inferiore)».
Lei ha diretto l’Istituto di formazione politica «Pedro Arrupe» di Palermo...
«Il politico, figura tanto necessaria quanto rara. Sintesi tra idealità e professionalità. Non è sufficiente essere santi (allora si preghi), non è sufficiente essere professionisti (allora si coltivi la professione)».
Tra i politici, lei ha prediletto il cattolico democratico Moro.
«Di lui ammirando la rettitudine politica e il coraggio di intraprendere strade nuove. Avendo capito la crisi della democrazia rappresentativa, avanzando la democrazia partecipativa. La sua corrente non superava nella Dc il 6-7 per cento, ma dava l’idea all’intero partito. Una certa Italia è scomparsa, tra via Fani e via Caetani».

Il Sole 6.3.16
L’irrinunciabile «sì» alla vita
di Bruno Forte

arcivescovo di Chieti-Vasto
qui

Il Sole 6.3.16
Vaticano. Il numero dei battezzati cresce in Asia e in Africa
In aumento i cattolici nel mondo (non in Europa)
di Carlo Marroni


CITTÀ DEL VATICANO Cresce il numero dei cattolici nel mondo, soprattutto in Africa, mentre l’Europa segna il passo: negli ultimi nove anni il numero dei battezzati ha mostrato una dinamica superiore (+14,1%) a quella della popolazione mondiale (10,8%). Quindi, in percentuale la presenza cattolica sale al 17,8% - dati al 2014 – rispetto al 17,3% del 2005: in totale sono circa 1.272 milioni i cattolici (erano 1.115 nove anni prima).
Le cifre emergono dalla pubblicazione dell’Annuario Pontificio 2016 e dell’Annuarium Statisticum Ecclesiae 2014, la cui redazione è stata curata dall’Ufficio Centrale di Statistica della Chiesa, in questi giorni in distribuzione in libreria, entrambi editi dalla Libreria Editrice Vaticana. L’Europa, dove vive quasi il 23% della comunità cattolica mondiale, si conferma l’area meno dinamica in assoluto, con una crescita del numero dei cattolici, nell’intero periodo, di poco superiore al 2%: stabile la quota del 40% della presenza nella popolazione del continente.
Con riferimento all’intero periodo 2005-2014, i cattolici battezzati in Oceania crescono meno della popolazione (15,9% e 18,2%, rispettivamente), mentre il contrario si verifica nei continenti americano (11,7% contro 9,6%) e asiatico (20,0% contro 9,6%). Il continente africano rimane quello con la maggiore crescita: il numero dei battezzati (pari a circa 215 milioni nel 2014), aumenta a un ritmo pari a più del doppio di quello dei paesi asiatici (quasi il 41%) e di gran lunga superiore alla crescita della popolazione nello stesso intervallo di tempo (23,8). Quindi risulta evidente conferma dell’accresciuto peso del continente africano (i cui fedeli battezzati salgono dal 13,8% a quasi il 17% di quelli mondiali) e del netto calo, invece, di quello europeo, per il quale la percentuale sul totale planetario è scesa dal 25,2% del 2005 al 22,6 del 2014.
Anche se c’è stata una lieve flessione nel 2014, l’America resta il continente cui appartiene quasi la metà dei cattolici battezzati. Moderatamente crescente appare, infine, l’incidenza nel mondo cattolico del continente asiatico che, con un peso di oltre il 60% della popolazione mondiale, si mantiene attorno all’11% dei cattolici del pianeta nel 2014.
Il numero dei sacerdoti, diocesani e religiosi, è in aumento tra il 2005 e il 2014 di 9.381 unità - da 406.411 a 415.792, ma con dinamiche non molto differenti: a fronte di notevoli incrementi per l’Africa (+32,6%) e per l’Asia (+27,1%), si pongono l’Europa, con una diminuzione di oltre l’8% e l’Oceania con un -1,7%. In aumento i vescovi, passati da 4.841 a 5.237 unità. Le religiose rappresentano nel 2014 una popolazione di 682.729 unità, per circa il 38% presente in Europa, seguita dall’America che conta oltre 177mila consacrate e dall’Asia che raggiunge le 170mila unità. Rispetto al 2005 il gruppo subisce una flessione del 10,2%.
Il declino, anche in questo caso, ha riguardato tre continenti (America, Europa ed Oceania), con variazioni negative anche di rilievo (intorno al 18-20%). In Africa ed in Asia, invece, l’incremento è stato decisamente sostenuto, intorno al 20% per il primo e all’11% per il secondo. Da statistiche fornite da altre fonti (non vaticane) emerge che al mondo nel complesso i cristiani – quindi compresi ortodossi e tutte le famiglie dei protestanti – sono il 33% della popolazione mondiale, i musulmani il 22% e il 14% gli induisti, mentre i non credenti si attestano al 16 per cento.

Corriere 6.3.16
Un impegno importante
La missione in Libia e i pericoli per l’Italia
Un’operazione di guerra deve essere definita come tale. Rinunciamo a quei
neologismi eufemistici con i quali noi e non solo noi abbiamo sempre battezzato
le imprese militari
Chiamare le cose per nome è una assunzione di responsabilità
di Paolo Mieli

qui

Corriere 6.3.16
Alti rischi
Missione in Libia, lo scenario militare
Truppe speciali: il grande risiko
Gli alleati sono sul campo e hanno scelto le loro fazioni. Le incognite di un intervento che gli americani vorrebbero farci condurre
di Guido Olimpio

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Il Sole 6.3.16
Coalizione nel caos e il rischio Bosnia
di Vittorio Emanuele Parsi


Come se non bastasse il caos che ormai regna sovrano in Libia, anche nella “coalition of willing” che dovrebbe collaborare con il costituendo (?) governo di unità nazionale libico, sembra emergere una certa confusione.
Data continuamente per imminente, l’operazione congiunta continua a subire rinvii. Com’è stato opportunamente ribadito dal governo italiano, in assenza di una richiesta ufficiale di assistenza da parte delle autorità libiche mancherebbero i presupposti giuridici e politici per un intervento esterno. Ma i fatti di questi giorni, a cominciare dall’irrituale ma non certo errabonda intervista rilasciata al “Corriere” dall’ambasciatore americano in Italia e dalle reazioni politiche che ha provocato a Roma, attestano che il ritardo nella formazione del nuovo Esecutivo unitario libico, tutto sommato, copre un problema ben più consistente: ovvero, che senza un accordo effettivo, trasparente e non reticente da parte dei Paesi disponibili a farne parte, la missione è destinata a non vedere neppure la luce o al più clamoroso fallimento.
La «totale identità di vedute», ribadita appena qualche giorno fa dal nostro governo nei confronti dell’Amministrazione americana, anche tra i tanti partner della coalizione esiste solo sulla carta e a livello di dichiarazioni di principio, se non astratte. La realtà è che ognuno dei principali attori sa ciò che è disposto a fare e sa ancora più chiaramente che cosa non intende fare: ma siamo ancora lontanissimi dallo sviluppo di una “grande strategia” coerente e condivisa da tutti.
Così ad esempio, americani e italiani condividono l’opposizione a mettere i propri boots on the ground e l’aspirazione a leading from behind. Ma sono entrambi consapevoli che, in assenza di truppe sul terreno, sarà molto difficile avere ragione del nemico. L’entusiastico sostegno americano alla leadership italiana delle operazioni in Libia rivela così una componente “equivocata” ma che gli americani davano per implicita o hanno inteso rendere esplicita a mano a mano che si palesavano i limiti del nostro possibile coinvolgimento: se l’Italia desidera la leadership – anche in virtù dei suoi interessi e della sua conoscenza della situazione in Libia – deve di necessità svolgere un ruolo maggiore nella missione anche dal punto di vista militare.
L’Italia, dal canto suo, continua a sottolineare l’aspetto “politico” dell’intera operazione e, comunque, non intende assumersi il rischio di ritrovarsi impantanata in Libia con l’eventualità che un’America meno direttamente invischiata e in piena campagna presidenziale possa decidersi di sfilarsi per ragioni di politica interna, lasciandoci da soli, insieme agli alleati europei e mediterranei, a gestire una situazione evidentemente ben superiore alle nostre capacità. Degli alleati ciò che più colpisce è come già ora, prima che la missione prenda avvio, ognuno si stia muovendo in ordine sparso e nella logica di rafforzare la propria posizione e i propri interessi. Vale per i francesi e per gli inglesi, con le operazioni svolte dalle rispettive forze speciali, che comunque vada costituiscono dei “fatti compiuti”, quindi dei vincoli, con i quali la coalizione (e la sua leadership) dovrà fare i conti. Ma vale anche per gli egiziani, che stanno rafforzando la posizione del generale Haftar, e in tal senso complicando la strada per la costituzione di quel governo di unità nazionale (e di compromesso) senza il quale ogni possibilità di intervento internazionale rischia di sfumare o cambiare completamente di segno.
Tutto questo spiega la prudenza renziana, oltretutto legata anche allo scarso sostegno interno (popolare e politico) all’iniziativa libica. Resta il fatto che senza un impegno anche militare più sostanzioso da parte di tutti – doverosamente associato allo sforzo politico diplomatico nei confronti non tanto dei governi di Tripoli e Tobruk ma dei loro protettori politici ad Ankara e Doha e al Cairo e Riad – la missione non ha nessuna possibilità di successo. Anche se domani stesso un governo di salvezza nazionale si costituisse in Libia, la sua effettività sarebbe molto relativa, i problemi e le divisioni resterebbero tutte sul terreno e gran parte dello sforzo per consentire la stabilizzazione della Libia rimarrebbe sulle nostre spalle.
Bisogna ribadirlo con molta fermezza: la missione in Libia si configura come “una seconda Bosnia”, per costo, coinvolgimento e durata ma in un’area infinitamente più instabile e pericolosa. Ciò su cui occorre riflettere non è quindi se esistano miracolose ipotesi alternative a un massiccio, prolungato e rischioso intervento insieme politico e militare ma se, quanto e fino a quando potremmo permetterci di non intervenire. E decidere di conseguenza.

Il Sole 6.3.16
La grande spartizione
Un bottino da (almeno) 130 miliardi
di Alberto Negri


Quando si incontreranno martedì al palazzo Ducale di Venezia, Matteo Renzi e François Hollande guardandosi negli occhi dovrebbero farsi una domanda: per quali ragioni facciamo la guerra in Libia?
La risposta più ovvia - il Califfato - è quella di comodo. La guerra di Libia è partita nel 2011 con un intervento francese, britannico e americano che con la fine di Gheddafi è diventato conflitto tra le tribù, le milizie e dentro l’Islam, che però è sempre rimasto una guerra di interessi geopolitici ed economici. L’esito non è stato l’avvento della democrazia ma è sintetizzato in un dato: la Libia era al primo posto in Africa nell’indice Onu dello sviluppo umano, adesso è uno stato fallito.
La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio.
Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.
Per loro, anche se l’Italia ha perso in Libia 5 miliardi di commesse, stiamo già accantonando risorse per un contingente virtuale in barili di oro nero. Non è così naturalmente, ma “deve” essere così: per questo l’ambasciatore Usa azzarda a chiederci spudoratamente 5mila uomini. La dichiarazione di John Phillips, addolcita dalla promessa di un comando militare all’Italia, sottolinea la nostra irrilevanza.
La Libia è un bottino da 130 miliardi di dollari subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a esportare come ai tempi di Gheddafi. Sono stime che sommano la produzione di petrolio con le riserve della Banca centrale e del Fondo sovrano libico che sta a Londra dove ha studiato per anni il prigioniero di Zintane, Seif Islam, il figlio di Gheddafi, un tempo gradito ospite di Buckingham Palace al pari di tutti gli arabi che hanno il cuore nella Mezzaluna e il portafoglio nella City. Oltre alla Bp e alla Shell in Cirenaica - dove peraltro ci sono consorzi francesi, americani tedeschi e cinesi - gli inglesi hanno da difendere l’asset finanziario dei petrodollari.
Anche i russi, estromessi nel 2011 perché contrari ai bombardamenti, vogliono dire la loro: lo faranno attraverso l’Egitto del generale Al Sisi al quale vendono armi a tutto spiano insieme alla Francia. Al Sisi considera la Cirenaica una storica provincia egiziana, alla stregua di re Faruk che la reclamava nel 1943 a Churchill: «Non mi risulta», fu allora la secca risposta del premier britannico. Ma ce n’è per tutti gli appetiti: questo è il fascino tenebroso della guerra libica.
Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica.
Ai libici, divisi e frammentati, messi insieme in un finto governo di “non unità nazionale”, il piano non piacerà perché hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per spartirsi la torta energetica senza elargire “cagnotte” agli stranieri e finire sotto tutela. E insieme ai litigi libici ci sono le trame delle potenze arabe e musulmane. Sono “i pompieri incendiari” che sponsorizzano le loro fazioni favorite: l’Egitto manovra il generale Khalifa Haftar, il Qatar seduce con dollari sonanti gli islamisti radicali a Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu Bernardino Leòn per appoggiare Tobruk; senza contare la Turchia, che dalla Siria ha rispedito i jihadisti libici a fare la guerra santa nella Sirte.
La lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto, anzi l’Isis si è inserito proprio quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma gli interessi occidentali, mascherati da obiettivi comuni, sono divergenti dall’inizio quando il presidente francese Nicolas Sarkozy attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata. Oggi sappiamo i retroscena. In una mail inviata a Hillary Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivela che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio della Cirenaica per la Total. È così che prepariamo la guerra: in compagnia di finti amici-concorrenti-rivali, esattamente come faceva la repubblica dei Dogi.

Repubblica 6.3.16
Il dilemma della guerra
di Piero Ignazi


ANDARE o non andare alla guerra? Inutile girare attorno alle parole. La crisi libica presenta uno scenario su cui incombe l’opzione militare. Non è la prima volta che affrontiamo questo nodo. Dal crollo del muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica gli interventi militari di coalizioni variamente composte si sono susseguiti a ritmi incalzanti: Iraq 1991, Somalia 1992, Balcani 1993-1999, Afghanistan 2001, Iraq 2003, Libano 2006, Libia 2011, Siria 2013, senza contare altri interventi circoscritti al teatro africano, soprattutto da parte francese, il più importante dei quali riguarda quello in Mali nel 2013 per fermare l’ondata jihadista in quel Paese. In tutte queste operazioni l’Italia è stata presente a vario titolo e solo in Libano, iniziativa promossa fortemente dall’allora governo Prodi, non si è praticamente sparato un colpo: in quel caso fu interpretata alla lettera la filosofia delle operazioni di peacekeeping.
Ma ora non si tratta di interporsi tra fazioni in lotta e riportare la pace. Lo schema con il quale sono state impostate tutte le iniziative svolte sotto l’ egida Onu, più quella in Kossovo nel 1999, si fondavano su una nuova visione dell’ordine internazionale: il diritto di intervento umanitario. La comunità internazionale si sentiva autorizzata ad intervenire laddove i diritti umani venivano violati innescando persecuzioni, stermini e pulizie etniche. Anche l’intervento in Libia , è bene ricordarlo ai tanti smemorati, avvenne per evitare che l’esercito di Gheddafi facesse piazza pulita degli insorti di Bengasi, intenzione spavaldamente manifestata dal ras libico in più occasioni. Quindi i bombardamenti aerei sulla Libia, iniziati su mandato Onu - contrariamente a quanto accadde in Iraq nel 2003 – si inserivano perfettamente nella filosofia “umanitaria”. Tra l’altro, in quei giorni Gheddafi venne deferito alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità. Poi ci vollero sei mesi, da marzo a settembre, perché il regime crollasse. Ad ogni modo vale la pena ricordare che lo schema delle operazioni in Libia nel 2011 era lo stesso di quello tante volte richiesto, fino a pochi mesi fa, in Siria: un intervento occidentale a favore degli insorti contro il regime autoritario in carica.
Nell’ultimo anno gli attentanti dell’Is hanno cambiato tutto. Non c’è più traccia del diritto umanitario a protezione delle popolazioni civili. Il problema è arginare il Califfato e impedire il collasso definitivo della Libia con conseguente conquista di ulteriore territorio e di risorse vitali da parte dell’Is. Il nuovo governo libico, faticosamente instaurato dopo anni di negoziati, stenta a decollare e non potrà in breve tempo - e forse nemmeno nel lungo periodo - coalizzare tutte le milizie armate contro lo stato islamico. Ma l’urgenza del momento non consente dilazioni. Gli alleati occidentali, con una Russia sorniona in attesa di scegliere quale parte giocare, hanno già deciso e l’ambasciatore americano lo ha irritualmente segnalato in una recente intervista. Il governo italiano invece prende tempo, enfatizzando il mantra ufficiale di tutti i paesi, anche di quelli che stanno già operando sul terreno: nessun intervento senza una richiesta formale del nuovo governo libico. Solo che restare a guardare significa dare tempo alle milizie del califfato di consolidarsi sul terreno.
Il dilemma in cui si trova il nostro governo discende dalla visione – ampiamente accettata – secondo la quale le operazioni militari partono solo per evitare violenze sui civili. Ora in Libia lo scenario è diverso : c’è una guerra per bande tra centinaia di fazioni di cui l’Is è solo una componente. Come giustificare allora agli occhi dell’opinione pubblica un intervento? La richiesta di aiuto da parte del nuovo governo libico per “pacificare” il Paese basta a convincere gli italiani? Nemmeno l’uccisione dei due connazionali sembra scuotere una opinione pubblica in grande maggioranza contraria ad ogni proiezione militare. Certo, una classe politica seria e consapevole deve dire e ripetere con grande chiarezza che il rischio di un fallimento, politico e militare, di un intervento in Libia è molto alto. Eppure una iniziativa da parte italiana va presa, anche perché altri si muoveranno. L’inerzia è la peggiore delle soluzioni. L’Italia è a poche miglia dalle coste libiche e quello che succede nel golfo della Sirte ci tocca direttamente. Se veramente il governo italiano vuole far cambiare verso alla politica estera italiana deve essere il protagonista di una azione politica e, inevitabilmente, militare. Eventualmente con modalità diverse rispetto agli alleati, purché concordate. Altrimenti si rimane nelle retrovie, come accadde nel 2011. E si retrocede nella considerazione internazionale. Un alto rango nel ranking delle nazioni non si conquista senza giocare un ruolo attivo negli scenari di crisi. Con tutti i rischi connessi.
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Un rango tra le nazioni lo si conquista giocando un ruolo attivo Con i rischi connessi

La Stampa 6.3
Il premier teme il flop e chiama ai seggi
Primarie Pd in sei città, l’appello di Renzi: “Andate a votare”
Si tenta di riavvicinare il «popolo del centrosinistra» dopo il trauma di Marino a Roma e le spaccature a Napoli. Si vota anche a Trieste, Bolzano, Grosseto e Benevento

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La Stampa 6.3
Renzi teme il flop e chiama ai seggi
La minoranza spera
A Roma favorito Giachetti, a Napoli incognita Bassolino
di Carlo Bertini


1000 iscritti
Sono gli immigrati e i ragazzi dai 16 ai 18 anni, che potranno votare oggi presso i sedici seggi speciali delle primarie Pd a Roma dove si sono preregistrati

Con un sospiro da vigilia di esame gli uomini del premier fanno i conti: a Napoli la partita che si gioca sulle primarie è sul rischio di rottamazione incompiuta, quella di Roma è su quanto Renzi riesce a sfondare in un terreno non suo con tutta la sinistra contro, giocandosi la carta di un candidato con maggiore freschezza e maggior tasso di «grillinità». Una sintesi efficace di cosa c’è in palio oggi per il leader-segretario, preoccupato innanzitutto da un fattore: l’affluenza ai gazebo nel cosiddetto «big sunday» del Pd, con le città chiamate al voto per la scelta dei candidati alle comunali. Perché dal numero dei votanti si capirà se regge la tesi di un partito vivo, attrattivo e capace di trainare il suo popolo.
Poi c’è la guerra tra gli sfidanti, che per Renzi è un tornante delicato. Anche se i suoi teorizzano che a Roma non c’è la polarizzazione con Morassut che vi è stata a Milano tra Sala e la Balzani, fatto sta che Roberto Giachetti, pur con la sua storia politica, è considerato espressione del premier e una sua sconfitta - non prevista da sostenitori e avversari - per il segretario sarebbe dura da digerire. Quanto una maggiore affluenza possa favorire Giachetti e quanto peserà il «voto organizzato» delle correnti è difficile dire. Ma che il premier tema l’immagine nei tigì dei gazebo deserti lo si capisce dalla chiamata alle armi fatta in un passaggio della sua e-news, «vincano i migliori. E domani, domenica 6 marzo, chi vuole vada ai seggi».
A Roma se votano in 40 mila «già sarebbe un successo», insinuano i bersaniani: ed è indice di quanta poca fiducia possa esserci in lunghe code, visto che per le primarie Marino-Gentiloni-Sassoli andarono più di centomila persone. Mentre a Napoli l’ultima volta furono meno della metà e bisogna vedere quanta gente trascineranno oggi i vari candidati. In una sfida polarizzata tra due fronti, quello che appoggia Valeria Valente, molto frammentato, ma che raggruppa le correnti renziane, dei «giovani turchi» di Orfini e Orlando (sceso in città accanto alla sua candidata) e i seguaci di Franceschini. E quello pro-Bassolino altrettanto frammentato, ma con un candidato considerato ancora forte e con un seguito nella città.
Una figura che potrebbe regalare alla sinistra Pd che lo appoggia una rivincita, anche se gli anti-Renzi che tifano Don Antonio fanno notare quanto la sfida, pur essendo lui partito per primo, sia ardua: «Tutto il partito, il presidente della regione, il segretario regionale e le correnti legate al governo stanno con la Valente, se non ce la fa è un terremoto, una botta micidiale. E non è impossibile», dicono i suoi sostenitori. Si capisce come intorno a questa giornata si consumi una bella dose di veleni interni, che vede il suo culmine proprio a Roma, dove gli uomini del premier prevedono che «il risultato sarà netto»; e i suoi nemici già teorizzano che se non finirà 70 a 30 per Giachetti sarà una mezza sconfitta. Ma il veltroniano Morassut è appoggiato ormai da tutta la minoranza, dalemiani e bersaniani, dunque non è solo. «Con la candidatura Morassut si può puntare a costruire una coalizione: e non è ininfluente ai fini del risultato finale poter dialogare con Sel e la sinistra di Fassina», spiega Nico Stumpo.

Il Sole 6.3.16
Centrosinistra. Occhi puntati sull’affluenza - Per il Campidoglio nel 2013 votarono in 100mila, quota difficile da raggiungere oggi per la rottura a sinistra
Primarie Pd, incognita astensione
Appello di Renzi al voto: siamo gli unici a farle
Test in sei capoluoghi: a Roma sfida Giachetti-Morassut
di B.F.


Roma Ancora una volta la principale incognita, prima ancora della scelta dei candidati sindaco, è il numero dei partecipanti alle primarie del centrosinistra. L’attenzione è concentrata soprattutto su Roma e Napoli, due città in cui lo scontro all’interno del Pd e del centrosinistra potrebbe riflettersi negativamente sulla partecipazione. La paura più grande è insomma il possibile flop ai banchetti, mai così numerosi, allestiti nelle città (esclusa Milano dove le primarie si sono svolte un mese fa) in cui a giugno si voterà per il rinnovo dell’ammimistrazione municipale.
Il primo ad esserne consapevole è Matteo Renzi che non a caso ieri ha rilanciato l’appuntamento facendo leva sull’orgoglio: «Buone Primarie ai cittadini di Roma, Napoli, Trieste (e non solo) che domani potranno scegliere il proprio candidato sindaco andando ai gazebo. Il Pd - da sempre - coinvolge, partecipa, discute in modo aperto dei propri candidati. A voi la scelta, amici! Che vincano i migliori». Un messaggio ribadito anche dal presidente del Pd Matteo Orfini: «Noi vogliamo fare così le scelte importanti, attraverso la partecipazione e il confronto con i nostri elettori. Altri preferiscono accordi spartitori siglati nelle ville di Berlusconi o consultazioni farsa come quelle del M5S, che servono solo a selezionare qualche burattino, che poi risponde agli interessi privati di Casaleggio e non agli elettori».
Nella Capitale, nonostante le sei candidature, la sfida è tra Roberto Giachetti, ex capogabinetto di Francesco Rutelli e ritenuto il candidato «renziano», e Roberto Morassut, ex assessore all’Urbanistica della giunta Veltroni.
Al momento Giachetti viene dato in pole position. Ma al di là di chi sarà il vincitore per il Pd la strada verso il Campidoglio è decisamente in salita. La rottura a sinistra con Sel e Si che hanno già candidato l’ex Pd Stefano Fassina e l’incognita dell’ex sindaco Ignazio Marino che sembra in procinto di ricandidarsi rischiano infatti di far mancare voti determinanti.
La partecipazione di oggi alle primarie sarà un indicatore utile anche a capire il grado di affezione (o disaffezione) degli elettori. La volta scorsa i votanti furono circa 100mila, un risultato che se confermato verrebbe oggi battezzato come un grande successo. Anche perché in quel caso partecipò l’intero centrosinistra mentre oggi Sel bolla le primarie come «un passo indietro» e Fassina definisce i candidati tout court «espressione di Renzi». Giachetti, che nei giorni scorsi è stato al centro delle cronache per il possibile appoggio (poi smentito) dei verdiniani, ieri ha concluso la sua campagna in periferia, a Corviale. Stessa scelta periferica anche per Morassut che si dice convinto di una competizione «molto aperta».
Anche a Napoli la situazione è tutt’altro che rosea. Nel capoluogo campano sono 4 i partecipanti alle primarie, ma la sfida vera è tra l’ex sindaco-governatore Antonio Bassolino, mai digerita dai vertici del partito, e Valeria Valente, 40 anni, avvocato e deputata Pd, ex assessore al Turismo della giunta di Rosa Russo, esponte di punta dei Giovani turchi, la corrente guidata da Orfini e dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. Bassolino ha chiuso la campagna elettorale in polemica con il suo partito: «La città di Napoli deve essere rispettata da tutti, anche dal Pd. Il candidato sindaco non si decide a Roma ma qui», con riferimento all’ostilità nei suoi confronti. Immediata la replica di Valente: «Sono d’accordo, si decide a Napoli, infatti pur potendo evitare le primarie abbiamo deciso di farle». Il rischio vero però è che il candidato del Pd, chiunque sia, non ce la faccia neppure ad arrivare al ballottaggio. Qui la partita non è a 3 (centrosinistra, centrodestra, grillini) ma a 4 perchè c’è anche il sindaco uscente Luigi De Magistris che secondo alcuni sondaggi è già ampiamente in testa.

Il Sole 6.3.16
Candidati incolori non aiutano né rinascite locali né sfide di governo
di Paolo Pombeni


Aspettare il risultato delle amministrative come un oracolo sul futuro dei nuovi equilibri politici (qualcosa di più e di diverso dal governo in carica) non si sa quanto sia plausibile. Certo già dall’avvio della loro campagna elettorale qualche spunto di riflessione può venire. In passato, quando molto, se non tutto era diverso, varie volte le amministrative sono state un segnale anticipatore dei cambiamenti di equilibrio nella politica nazionale: accadde ai tempi del centrosinistra, della solidarietà nazionale, della svolta verso la cosiddetta seconda repubblica. Anche oggi possiamo cogliere dei segnali, ma non come nei casi citati per capire in quale direzione ci si muove, quanto piuttosto per registrare una mutazione profonda del quadro politico senza che sia ancora possibile intuire con chiarezza dove si vada a parare. Negli ambienti politici il vero tema di dibattito non è lo scontro fra i contendenti quanto la dimensione che assumerà l’astensionismo. Sarà infatti questo, in termini di quantità, ma anche di qualità (chi saranno quelli che disertano le urne), a determinare gli scenari. Certo a giudicare dalla scarsa partecipazione del sentimento popolare a questa contesa, nonché dall’assenza di figure in qualche modo carismatiche (quanto siamo lontani dal “partito dei sindaci”!) non si può immaginare una rinascita della politica legata al sentimento civico. Piuttosto si registra una debacle a vario grado nei partiti politici. Curiosamente non c’è né una capacità di regia a livello nazionale, né una vivace dinamica locale che porti sulla scena forti partiti territoriali. I due termini antitetici per rappresentare la situazione sono Milano e Roma. Nella “capitale morale” entrambi i raggruppamenti del bipolarismo storico si sono affidati, per resuscitare una vecchia formula, a “papi stranieri”. Aggiungiamo: così stranieri che i due contendenti potrebbero scambiarsi le casacche di coalizione senza creare particolare sorpresa. Questo può essere interpretato come una resa dei partiti alla “società civile” in senso lato, ovvero a quella parte, certo non quantitativamente fortissima, di elettorato che cerca quello che una volta si sarebbe chiamato “un buon amministratore”, senza preoccuparsi tanto del suo pedigree politico. Le ideologie delle pattuglie mosse dalle diverse ortodossie politiche sopravvissute o neo inventate seguiranno, come fa l’intendenza. Nella “capitale legale” il quadro è opposto. I partiti sfasciati non possono arrendersi al loro tramonto e dunque mettono scopertamente in scena le loro lotte di fazione. Nell’elettorato si ritiene impossibile individuare un nucleo forte di società civile fiduciosa che si possa scommettere sull’avvento del buon amministratore. Del resto, con un dissesto più che decennale, è difficile dargli torto. Le direzioni nazionali (ci si consenta questo termine ormai improprio) possono al massimo inserirsi in queste lotte di fazione, del tutto incapaci di promuovere un ruolo di equilibratore e di ricostruttore di un tessuto sfatto. In mezzo a questi due estremi c’è un po’ di tutto. Il caso di Napoli, che è una specie di eterna eccezione, che non sfugge ai mali denunciati per Roma, anche se in questo caso c’è un tentativo di recuperare il bandolo della matassa parte di un esponente della vecchia guardia che a suo tempo aveva fatto la rivoluzione civica. Quanto quel passato possa far rivivere una stagione è più che incerto, ma la sua capacità di mobilitazione al momento è un’incognita. Sempre in questa linea c’è Torino, che è forse il caso più interessante. Qui si scontra la tradizione nobile della classe dirigente ex Pci che si fece carico di transitare il paese fra la prima e la seconda repubblica e la sfida innovatrice del M5S che scommette in sostanza di poter prendere su di sé la successione a quella classe dirigente facendo un salto insieme generazionale ed ideologico. Perciò sarà molto interessante vedere come va a finire, soprattutto perché in quel caso c’è, assai più che a Roma, la verifica di come si sposteranno i voti di quegli elettori di centrodestra che da Berlusconi hanno introitato le parole d’ordine anticomuniste, ma che non hanno più alcuna fiducia che il vecchio leader spompato possa condurli non diciamo alla vittoria, ma a un qualche risultato di peso. Altro caso di qualche interesse per un osservatore è Bologna. Qui un tempo c’era la vetrina di un partito assai “territoriale” come era il vecchio Pci di quelle parti e anche qui l’occupazione del municipio era il modo di mostrare quanto quel partito che era escluso dal potere a livello nazionale fosse in grado di esprimere una buona amministrazione di alto profilo. Oggi tutto si trascina stancamente nella riproposizione del sindaco in carica, personaggio poco carismatico e certo improponibile come vetrina di alcunché, dato per quasi sicuro vincitore nella totale assenza di competitori, perché tanto dal centrodestra quanto dal M5S gli si sono contrapposti personaggi altrettanto modesti e incolori. Poi ci sarà da fare i conti con l’astensione, ma è un altro discorso. Si può trarre la conclusione che siamo di fronte alla prova che il governo locale non è più una questione di fondo nella costruzione degli equilibri della classe politica, perché tutto si decide nella grande competizione nazionale dove conta solo lo scontro dei leader? C’è chi lo sostiene, più o meno apertamente. Ci permettiamo di dubitare della bontà di questa conclusione: un paese ha bisogno di essere governato, e bene, in tutta la complessità del suo sistema. L’uomo solo al comando, per quanto possa circondarsi di un po’ di proconsoli, non riesce mai a trasformare un paese se sui territori non può contare su una rete di buona amministrazione e di buona politica.

Corriere 6.3.16
Fattore Ala tra Giachetti e Morassut
Affluenza e stranieri sono un rebus
Alle urne nella Capitale per scegliere il candidato sindaco del centrosinistra
di Ernesto Menicucci

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Corriere 6.3.16
Primarie
Voto agli immigrati. Il passo indietro del Pd
SI parla di rimedi per assicurare la regolarità. Ma, rispetto al problema posto dieci anni fa — e cioè la partecipazione consapevole degli stranieri che vivono nelle città italiane — sembra un mesto ritorno alla casella di partenza
di Massimo Rebotti

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La Stampa 6.3.16
La via delle riforme per colmare la distanza tra politica e cittadini
Il ministri delle Riforme risponde all’editoriale di Ferruccio de Bortoli «Il fossato da riempire tra istituzioni e cittadini»
di Maria Elena Boschi
Ministro per le Riforme costituzionali

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La Stampa 6.3.16
L’Ue prepara il richiamo all’Italia sul debito
Padoan: Troveremo una soluzione

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Repubblica 6.3.16
Il racconto di 40 anni di vivace concorrenza tra noi e il Corriere
di Eugenio Scalfari

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La Stampa 6.3.16
Quei malati fantasma di Hiv
In Italia il virus silenzioso contagia 11 persone al giorno
Quattro sieropositivi su dieci lo nascondono ai familiari, il 5% al partner
Quasi uno su tre è immigrato. Arriva il primo piano nazionale anti-Aids
di Giacomo Galeazzi Ilario Lombardo


Ogni giorno, in Italia, 11 persone scoprono di essere sieropositive. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità le nuove diagnosi di infezione da Hiv sono 4 mila l’anno. Siamo il secondo Paese in Europa per incidenza di Aids, dopo il Portogallo. Nel passaggio dall’infezione alla malattia ci sono ancora drammi nascosti come quello di un uomo e una donna, residenti ad Anzio e a Civitavecchia, entrambi sieropositivi. Barricati in casa, si fanno identificare con un numero. Neanche chi li assiste a domicilio conosce il loro nome. Ogni volta che l’équipe della Caritas va a prendere le loro medicine in farmacia usa un codice fornito dall’istituto Spallanzani di Roma. Perché queste due persone vogliono restare fantasmi. «I pazienti ci chiedono che la nostra macchina non sia riconoscibile e di non far indossare alle suore abiti religiosi» racconta al centro Caritas di via Casilina Massimo Pasquo, responsabile delle terapie a domicilio per malati gravi di Aids. Accanto a lui siede Mario Guerra, una vita a contatto di un male dimenticato che condanna ancora all’isolamento: «Le famiglie sono impreparate, li chiudono in una stanza e chiedono se per disinfettare gli ambienti serva la varecchina».
Infezione silenziosa
L’ignoranza e la sottovalutazione fanno dilagare il virus dell’Hiv anche per l’errata convinzione che in Occidente sia un flagello ormai debellato e relegato nei Paesi più poveri. Sono morti oltre 40 mila italiani per l’Aids, un’epidemia che si è depotenziata a metà Anni Novanta. La peste del nuovo secolo sembrava passata, ma il ventennio trascorso senza più paura ha però fatto dimenticare che l’Hiv continuava a diffondersi. Una cappa di silenzio infranta qualche mese fa dal clamore di una vicenda con al centro un trentenne romano di nome Valentino T. e le numerose ragazze da lui infettate. Nella semplificazione mediatica il ritorno dell’«untore» ha riaperto uno squarcio di luce su una malattia che per molti è confinata nell’immaginario degli Anni Ottanta ma che invece è ancora attualissima. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità la percentuale di infezione in Europa non è molto inferiore a quella di trenta anni fa. «Dal 2005 le nuove diagnosi sono più che raddoppiate in molti Paesi Ue, segno che la risposta al virus non è stata efficace nell’ultimo decennio» ammette Andrea Ammon, direttore del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc).
Cosa è mancato? Le campagne di comunicazione e di prevenzione sono scomparse. Ma il problema sarebbe ancor più a monte. In Italia, in particolare, le strategie di contrasto all’Aids hanno una falla alla radice: i numeri. Se si osservano i diagrammi delle nuove diagnosi si nota una stabilizzazione sospetta dal 2010 che fa dire a tutti, associazioni dei malati e autorità sanitarie, che i 4 mila casi annui sono «sottostimati». Le diagnosi registrano contagi che possono risalire fino a 15 anni prima, per la lunga incubazione dell’Hiv. Diverso è il discorso sulle «nuove infezioni», cioè chi ha preso il virus di recente, che permetterebbe un’analisi più precisa del fenomeno: qui però c’è una stima che, secondo l’Istituto superiore di sanità, si avvicina al numero delle diagnosi per il fatto che questo è rimasto costante negli anni.
Carenza di dati certi
Da tempo la Lega italiana per la lotta all’Aids (Lila) ha posto la questione della carenza di dati, prima al Comitato tecnico del ministero della Salute, poi all’Iss, infine al Capo dello Stato Sergio Mattarella, con una lettera inviata lo scorso dicembre. «Innanzitutto non si sa quanti siano i test effettuati in Italia - spiega Massimo Oldrini, presidente Lila -. L’Ecdc ci chiede che venga resa nota la base sulla quale vengono calcolati i 4 mila casi annui. Perché l’Italia non la comunica?».
Abbiamo girato la domanda al direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Iss Gianni Rezza e a Maria Grazia Pompa, direttrice della Prevenzione sanitaria al ministero della Salute. Una risposta chiara non arriva. Vengono riconosciute le difficoltà di trasmissione dalla periferia (ospedali, Asl) al centro (l’Iss) mentre Pompa parla di «incongruenza» in quanto molti potrebbero ripetere più volte il test. «Ma senza numeri certi non si possono mettere in campo azioni concrete ed efficaci - continua Oldrini -. Manca pure una cabina di regia istituzionale».
Pronto il piano sanitario
Dal ministero finalmente sta per arrivare una risposta che però dà anche la dimensione della nuova emergenza: è quasi pronto il primo piano nazionale Aids che farà il tagliando di tutta una serie di misure arrugginite dagli anni, puntando a migliorare il flusso di informazioni, a monitorare i finanziamenti alle Regioni, che intanto dirottano i fondi per l’Hiv su altre voci, a incoraggiare l’accesso ai test in forma gratuita e anonima. E soprattutto ad assicurare il cosiddetto «trattamento preventivo» che mette in sicurezza chi è infettato e si pone l’obiettivo di azzerare i contagi.
È una corsa contro il tempo: diagnosticare il prima possibile l’infezione significa rendere più efficace la cura della persona ammalata, diminuire la sua carica virale e ridurre le possibilità di trasmissione. Proprio quello che non è successo a Marco, 46 anni, tecnico di reti informatiche: «La mia fidanzata aveva l’Hiv ma non lo sapeva, e ciò le ha impedito di essere curata. La sua carica infettiva, così, è rimasta elevata e mi ha contagiato». Prevenzione e trattamento permetterebbero di abbattere anche la spesa dello Stato appesantita dal costo altissimo dei sette farmaci antiretrovirali, fra i trenta più cari per la sanità pubblica. Anche perché ogni diagnosi salva una vita ma comporta in media 40 anni di terapie. In Italia si calcolano poco meno di 130 mila sieropositivi, cui va aggiunto circa un 20% di «inconsapevoli» che non sanno di avere il virus. E il 60% delle diagnosi avviene con malattia in stato avanzato. Tradotto, circolano persone infette che possono trasmettere l’Hiv senza saperlo, accrescendo il numero dei contagiati. «Il fatto che siamo fermi sempre a 4 mila diagnosi l’anno è preoccupante» concorda Rezza.
Calata l’attenzione per l’Aids, l’effetto è quello di un progressivo oblio che crea lacune nella comunicazione. Sopravvivono solo pregiudizi: l’Aids ancora oggi è una malattia ricondotta a quelle che venivano chiamate «categorie a rischio»: gay e drogati. La realtà invece è questa: dal 1985 al 2014 la proporzione dei tossicodipendenti per ago è passata dal 76,2% al 3,8%, mentre l’84,1% delle nuove diagnosi è attribuibile a rapporti sessuali senza preservativo: 43,2% etero e 40,9% Msm (rapporti omosessuali maschili). E’ il sesso quindi, di gran lunga, il principale veicolo di trasmissione del virus tra persone lontane da mitologie trasgressive. 25-29 anni la fascia più colpita nell’ultimo biennio: i costumi tornano disinibiti anche per effetto delle nuove droghe sintetiche e l’Hiv si conferma una malattia metropolitana, diffusa soprattutto a Roma, Milano e in Emilia.
Boom tra gli immigrati
Ovviamente la società è cambiata e un fattore che non può essere sottovalutato è l’incidenza dell’immigrazione, soprattutto dall’Africa: in Italia il 27% degli Hiv positivi è straniero, quasi 1 su 3. In generale, il fatto che la percezione del rischio sia crollata dopo la metà degli Anni Novanta ha portato di nuovo a minori cautele nei comportamenti sessuali. Lo dimostra l’aumento di casi di gonorrea e sifilide, considerati dagli esperti indicatori indiretti per la sieropositività. Purtroppo la disinformazione non risparmia neanche i camici bianchi, come ci dice Laura Rancilio del comitato ministeriale, in prima linea a Milano: «Ci sono medici convinti che l’Aids sia ancora la malattia di trans, gay, prostitute e tossici. E molte volte si vergognano di prescrivere il test a pazienti che hanno comportamenti socialmente accettabili».
Vanessa è un avvocato, di Roma, 33 anni, figlia di due medici che non sanno nulla della malattia della figlia: nel 2013 ha contratto l’Hiv con un rapporto non protetto: «Il ginecologo mi fece domande su di me e sul mio partner, chiese se ci drogavamo, e quando gli dissi che ero un avvocato mi guardò stupito quasi a dirmi “Una professionista come lei?”». Ma i medici sono impreparati anche di fronte a casi più esposti visto che il 70% dei tossici non viene sottoposto al test-Hiv.
L’incognita dei test
Il piano nazionale Aids dovrà riportare sotto controllo la situazione. E la grande sfida della sanità pubblica parte proprio dai test: se più persone lo facessero la catena infettiva si interromperebbe. Invece più di un italiano su 3 (il 37%) non lo ha mai fatto. Spesso la causa è da ricercarsi nelle difficoltà di accesso o nelle mancate garanzie su anonimato e gratuità dei test, requisiti previsti dalla legge 135 del 1990. Ci sono zone di Italia, anche nella ricca Lombardia, dove si paga il ticket: per questo motivo il ministero ha affidato alla Rancilio un progetto per uniformare l’accesso gratuito.
Chi va allo Spallanzani invece non paga e può restare anonimo se lo vuole. Deve chiedere della «Stanza 13», l’ambulatorio che si trova al piano terra di un reparto con un lungo corridoio sempre affollato. Le stanze dei test vanno dalla 16 alla 18, ma si usa il numero 13 per una scaramanzia condivisa dai medici con un loro storico paziente. Qui lavora la squadra di Vincenzo Puro, Gabriella De Carli e Nicoletta Orchi, che hanno impressi negli occhi trent’anni di volti, terrorizzati quando l’Aids era un’epidemia, spaesati oggi quando scoprono che l’Hiv è ancora una minaccia. Ci sono giovanissimi come Martina e Claudia, 24 anni, che hanno trovato sesso non protetto in chat e sono corse allo Spallanzani pentite ma sollevate alla notizia che sarebbe rimasto tutto anonimo: «Abbiamo scoperto questo centro cliccando su Google. Avevamo paura di andare dal nostro medico». Per lo stesso motivo a Roma arriva tanta gente dal Sud, dove l’acceso ai test è più difficile e prevale la paura di essere scoperti.
La discriminazione
L’Hiv è ancora una lettera scarlatta cucita addosso ai malati. «Ho visto buttare carte di cioccolatini toccate da persone infette» racconta Pompa. Secondo uno studio dell’Università di Bologna il 32% delle persone con Hiv è stato vittima di episodi discriminatori. La vergogna fa il resto: il 40% non lo rivela ai familiari; il 74% non lo dice a lavoro, ma a inquietare è che il 5% lo nasconde al proprio partner. Per venire incontro a queste precauzioni test rapidi salivari vengono sperimentati anche da unità mobili in zone di prostituzione, mentre trova totale opposizione da parte del ministero la vendita in farmacia, come avviene in Francia.
La perdita di memoria generazionale aggrava la situazione. Le autorità sanitarie e le associazioni chiedono di far ripartire le campagne informative, adattandole ai social network e centrandole di più sull’uso del preservativo. Certo non aiuta che al ministero della Salute il budget per la comunicazione sia appena di 80 mila euro e che nelle scuole siano stati abbandonati i progetti di educazione sessuale. Servirebbero ad abbattere antichi pregiudizi e a convincere gli italiani che il virus incombe su chiunque. Gli ammalati vengono ancora trattati da appestati, la Caritas soffre l’assenza di volontari per assistere chi ha l’Aids. In diverse parti d’Italia non ci sono strutture per l’accoglienza e dove ci sono, sono sovraffollate. Come a Villa Glori, a Roma, gestita da Massimo Raimondi, dove si sono conosciuti Vincenzo e Alessia. Lui in cura nella casa famiglia, lei assistente sociale. Entrambi sieropositivi. Si sono sposati, sono andati a vivere fuori e hanno avuto un figlio. «Poi, Vincenzo si è aggravato - racconta Raimondi - e ha chiesto di venire a morire qui, perché altroché se di Aids non si muore ancora. L’ultima sera ha chiamato il suo bambino e ha trovato la forza di giocare con lui».

Corriere 6.3.16
L’orologio, il video, le ferite. Tutti i misteri sulla fine di Rossi
L’uomo delle comunicazioni Mps morto tre anni fa. Oggi un corteo a Siena
di Sergio Rizzo


«A tre anni dalla morte alzate la testa, rompete il silenzio». È scritto su un manifesto che chiama a raccolta per un corteo silenzioso oggi pomeriggio a Siena, davanti alla sede del Monte dei Paschi, chi ha a cuore la verità sulla fine di David Rossi. La moglie e la figlia del dirigente della banca senese che fu trovato morto sotto la sua finestra non si sono rassegnate. E il caso, archiviato come suicidio, tre mesi fa è stato riaperto dalla Procura di Siena. Che ora ha il compito di diradare le nebbie che avvolgono l’episodio più inquietante di una storia capace di spingere il Monte sull’orlo del baratro.
È mercoledì sera. A quell’ora, nelle giornate di inizio marzo, rinfresca un po’. Il torrente umano che scorre senza sosta lungo via Banchi di Sopra sfilando davanti a piazza Salimbeni si interrompe di tanto in tanto. Le stradine lì intorno sono deserte. Vicolo di Monte Pio, alle spalle del Monte dei Paschi di Siena, poi, è un budello chiuso dove non si vede mai nessuno. Ma non quel mercoledì sera di tre anni fa, il 6 marzo 2013. Ci sono delle persone, e c’è anche una macchina che sbarra l’ingresso del vicolo. Ai loro piedi, disteso per terra, un uomo sta agonizzando. È caduto da una finestra: si è buttato da solo o qualcuno l’ha aiutato?
Si chiama David Rossi, ha cinquant’anni ed è un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena, che sta attraversando il momento più difficile dei suoi cinque secoli e passa di vita. Una tempesta giudiziaria la sta scuotendo dalle fondamenta. Sulla costosissima acquisizione dell’Antonveneta si allungano ombre pesanti: i magistrati sospettano reati gravissimi, dall’insider trading alla truffa. Rossi è il responsabile della comunicazione della banca, uno degli uomini che sono stati più vicini all’ex presidente Giuseppe Mussari, l’epicentro della bufera. E adesso è lì, a terra, con quegli uomini intorno.
Quando arriva la polizia, però, non c’è nessuno. L’inchiesta è rapidissima e il caso viene subito archiviato: suicidio. Tutti gli indizi, secondo i magistrati, depongono in questa direzione. Rossi è stressato, il 19 febbraio hanno perquisito casa sua. Due giorni prima, ha scritto in una mail all’amministratore delegato Fabrizio Viola «stasera mi suicido sul serio aiutatemi». E poi non c’è forse quel biglietto lasciato alla moglie («Toni, ho fatto una cavolata troppo grossa...»)?
Già, quel biglietto... Antonella Tognazzi riconosce la scrittura del marito. Ma c’è qualcosa che non convince. Come se quel messaggio non fosse stato scritto in piena libertà. David stava passando un brutto momento, d’accordo, ma non c’erano state avvisaglie di un gesto simile. E poi non la chiamava mai «Toni». Anche le perizie hanno lasciato molti dubbi, però sono state liquidate frettolosamente. Decisamente troppo.
I familiari vogliono vederci chiaro e insieme all’avvocato Luca Goracci rimettono pazientemente in fila tutti i fatti. Il 16 novembre 2014 Antonella Tognazzi dice a Report di non credere al suicidio. E la trasmissione di Milena Gabanelli mostra un frammento del filmato ripreso dalle telecamere di sorveglianza dove si vede un oggetto, forse un orologio, che cade dall’alto sul selciato dove da qualche minuto è riverso Rossi.
Un dettaglio sconcertante, e non isolato. Le perizie di parte ne sono piene. L’ora registrata nel video non corrisponde a quella effettiva: è avanti di 16 minuti. Il perito sostiene che potrebbe essere anche stato manomesso. Anche se il presunto autore non è riuscito a occultare la presenza di persone vicino al corpo di Rossi. Secondo il perito compaiono poco dopo la caduta di David e restano lì fino alla sua morte avvenuta 22 minuti dopo l’impatto. «Tali figure umane — sottolinea la relazione — non sono mai state oggetto di approfondimento, secondo quanto in atti». Così la stessa dinamica della caduta, che le perizie di parte giudicano incompatibile con l’ipotesi del suicidio.
Sul cadavere vengono poi riscontrate ecchimosi e ferite tipiche di una colluttazione. Quindi c’è l’oggetto che cade, dopo diversi minuti, e nello stesso momento in cui qualcuno, sul telefonino di Rossi rimasto nel suo ufficio mentre lui è a terra esanime, digita un numero: 4099009. E che cosa cercava chi è entrato quella sera nel computer di David, usando le sue credenziali?
Nell’istanza di riapertura del caso c’è la ricostruzione minuziosa dello scambio di mail avvenuto due giorni prima della sua morte fra Rossi e Viola. David gli dice che vuole parlare con i magistrati. E prima possibile. «Vorrei garanzie di non essere travolto da questa cosa, per questo lo devo fare subito, prima di domani. Mi puoi aiutare?». Ma perché David ha bisogno di parlare con i pubblici ministeri? «Vedo che stanno cercando di ricostruire gli scenari politici e i vari rapporti. Ho lavorato con Piccini, Mussari, Comune, fondazione, banca. Magari — scrive ancora — gli chiarisco parecchie cose, se so cosa gli serve». Passa qualche minuto, però, e cambia idea: «Ho deciso che meglio di no. Non avendo niente da temere posso tranquillamente aspettare che mi chiamino. Si può fare con calma». Calma che Rossi purtroppo non avrà.

La Stampa 6.3.16
Biella
Le baby operaie che ottennero i primi diritti in Italia si raccontano in un film
Nel 1945 le lavoratrici biellesi ottennero 40 ore settimanali e salari uguali ai mariti. Furono le prime
di Paola Guabello

qui

Repubblica 6.3.16
La moda europea dei referendum
di Ian Buruma


IL PRIMO ministro ungherese Viktor Orbán ha già detto che l’Ungheria si opporrà al loro ingresso. «Tutti i terroristi sono praticamente immigrati», ha affermato. E il referendum probabilmente avvalorerà la sua posizione. Il referendum più strano è forse quello che si terrà nei Paesi Bassi a seguito di una singolare campagna: ad aprile i cittadini olandesi dovranno decidere se sottoscrivere o meno un accordo di associazione tra Ue ed Ucraina che è stato già accettato da tutti gli altri Paesi membri dell’Ue, ma che senza gli olandesi non potrà essere ratificato. Si potrebbe supporre che i dettagli degli accordi commerciali e delle barriere tariffarie con l’Ucraina suscitino nella maggior parte degli elettori olandesi un sentimento di perplessità, e ci si potrebbe anche domandare perché mai essi dovrebbero interessarsene tanto da tenere un referendum. Il fatto è che i referendum soddisfano il vento populista che spira su molti Paesi: dall’America di Donald Trump all’Ungheria di Viktor Orbán.
I referendum rientrano in quella che chiamiamo “democrazia diretta”. La voce del popolo (o piuttosto: del Popolo) non si esprime attraverso i rappresentanti da esso eletti al Parlamento, bensì direttamente, tramite le consultazioni. Nel 1945, quando Winston Churchill propose un referendum con cui il popolo britannico potesse decidere se proseguire con il governo di coalizione del periodo bellico, il leader laburista Clement Attlee si oppose. Attlee affermò che i referendum erano “non-britannici”, nonché uno «strumento dei dittatori e dei demagoghi». Aveva ragione. Anche se le democrazie rappresentative ricorrono talvolta ai referendum, i dittatori li guardano con entusiasmo ben maggiore. Dopo aver invaso l’Austria nel 1938 Hitler domandò agli austriaci, tramite un plebiscito, se volessero essere annessi alla Germania. Un’offerta che essi non poterono certo rifiutare. Ai despoti piace ricevere l’appoggio dei plebisciti perché questi non solo fingono di rappresentare il Popolo, ma lo personificano. Sono il Popolo.
L’attuale moda dei referendum tradisce una diffidenza nei confronti dei politici. In una democrazia liberale di norma diamo il nostro voto a uomini e donne che ci aspettiamo studino e decidano di questioni di cui la maggior parte dei cittadini comuni non ha né il tempo né la competenza di occuparsi in prima persona. Gli accordi commerciali con l’Ucraina rappresentano un tema di cui gli elettori di solito non sono chiamati ad interessarsi direttamente. Di norma però un referendum non dà la misura accurata delle facoltà razionali della gente, né ne mette alla prova la competenza. I referendum si basano sulle sensazioni “di pancia”, che possono essere facilmente manipolate dai demagoghi. Ecco perché a loro piacciono tanto.
Ad oggi il dibattito sulla brexit in Gran Bretagna ha assunto quasi esclusivamente dei toni emotivi: la grandezza storica della Gran Bretagna, gli orrori delle tirannie straniere o, al contrario, la paura di ciò che potrebbe accadere nel caso in cui lo status quo venisse rovesciato. E mentre gli elettori britannici che hanno idea di come funzioni davvero il Consiglio europeo sono pochissimi, la maggior parte di loro sa bene che la Gran Bretagna tenne testa a Hitler, o che potrebbe “invasa” dagli immigrati.
Solitamente, tramite un referendum il popolo decide la posizione da adottare sulla base di motivi che hanno poco a che fare con il quesito che gli viene posto. In Gran Bretagna vi è chi sarebbe disposto a uscire dall’Ue solo perché non ama il primo ministro Cameron, che è a favore della permanenza nell’Unione europea. Nel 2005 gli elettori dei Paesi Bassi e dell’Irlanda votarono contro la Costituzione dell’Ue. Probabilmente pochissimi tra loro avevano mai letto la Costituzione, che è in effetti un documento illeggibile. Il voto contrario derivava da un generale scontento nei confronti delle élite politiche associate a “Bruxelles”.
La voglia di referendum non è solo un indice di divisioni nazionali interne, ma rappresenta l’ennesimo sintomo di quella rivendicazione populista globale che esorta a “riprendersi il proprio Paese”. Una posizione forse irragionevole (se uscisse dall’Unione europea la Gran Bretagna potrebbe finire con l’esercitare meno potere sul proprio destino di quanto ne avrebbe se rimanesse), e tuttavia la crisi della fiducia deve essere presa seriamente. Perché anche se i referendum sono spesso futili, le loro conseguenze non lo sono. Ciò che accade in Ucraina è importante. L’uscita della Gran Bretagna dall’Ue potrebbe avere conseguenze devastanti non solo per il Regno Unito, ma anche per il resto dell’Europa. L’esempio dell’Ungheria, ammesso che essa riesca a rifiutarsi di collaborare alla risoluzione della crisi dei rifugiati, potrebbe indurre altri Paesi a fare altrettanto.
Il problema fondamentale è che un gran numero di persone non si sentono rappresentate. I vecchi partiti politici – che sono governati dalle vecchie élite e sfruttano i canali tradizionali di influenza, non danno più ai cittadini il senso di partecipare alla democrazia. La straordinaria influenza esercitata negli Usa da un manipolo di miliardari e la mancanza di trasparenza nella politica dell’Ue peggiorano il problema.
È difficile che la democrazia diretta possa ripristinare la fiducia del popolo nei confronti dei suoi rappresentanti politici. Ma se non verrà ristabilito un maggior livello di fiducia, il potere andrà a coloro che affermano di parlare a nome del Popolo, e dai quali nulla di buono potrà mai venire.
Traduzione di Marzia Porta Ian Buruma è saggista e scrittore, di origine olandese naturalizzato britannico. L’ultimo libro pubblicato in Italia è Anno Zero ( Mondadori)

Repubblica 6.3.16
Ankara, ultima fermata “Tre milioni di profughi in attesa dell’Europa”
La Turchia è l’approdo dei siriani: in ogni momento può decidere di lasciarli partire o bloccarli sul suo territorio
di Vladimiro Polchi


ROMA. Un esercito disarmato assedia l’Europa. Oltre cinque milioni di rifugiati, “parcheggiati” negli immensi campi profughi e nelle città della Turchia, del Libano e della Giordania, bussano alle porte del Vecchio continente. Sono afgani, iracheni, ma soprattutto siriani: ben 4 milioni e 815mila, per lo più famiglie. Su di loro si gioca la partita tra Ue ed Ankara. La Turchia è infatti il “Paese cerniera” fra il vecchio continente e il teatro di guerra di Damasco: ospita oltre 2 milioni e 700mila siriani, pronti a prendere il largo verso la Grecia.
La Turchia è il paese che oggi ospita il numero più alto di rifugiati al mondo: ad Ankara da qualche settimana la Commissione europea ha cominciato a versare la prima tranche dei 3 miliardi di euro destinati ad Ankara per accogliere i profughi e frenarne le partenze verso la Grecia. Non solo: sul tavolo delle trattative c’è anche la promessa di ricollocare parte dei suoi rifugiati (250mila) nel resto d’Europa. «Quella turca è una politica “apri e chiudi”. Come già sperimentato da Gheddafi, Ankara lascia aperti dei varchi sulle sue coste come strumento di pressione sulla Ue – sostiene Christopher Hein, consigliere strategico del Consiglio italiano rifugiati – dall’altra chiude parzialmente le sue frontiere con la Siria, mentre sarebbe un obbligo internazionale permettere l’ingresso di chi fugge dalla guerra». E infatti la rotta del mare Egeo è più aperta che mai, con ben 128mila arrivi via mare in Grecia nei primi due mesi del 2016. «Se la Turchia– ragionano al Viminale – non chiude il tappo, il sistema d’accoglienza europeo rischia di soccombere».
Stando all’Unhcr, ben 4 milioni e 815mila siriani bussano oggi alle porte d’Europa. Vivono nelle grandi città e nelle decine di campi profughi della Turchia (2 milioni 715mila), in Libano (oltre un milione), nei grandi campi giordani, come quelli di Zaatari e Azraq (640mila) e in Egitto (118mila). Secondo un rapporto di Banca Mondiale e Unhcr, quasi il 70% vive sotto la soglia internazionale di povertà, fissata a 5,25 dollari al giorno. «Molti sopravvivono solo grazie agli aiuti dell’Unhcr e del World Food Programme con un sistema di
cash assistance – spiega Carlotta Sami, portavoce Unhcr Sud Europa – in pratica una sorta di bancomat per acquisti di prima necessità. Ma parliamo di poche decine di dollari al mese. Bisogna fare molto di più. Per il 2016 l’Unhcr ha chiesto 7 miliardi di dollari di finanziamenti ». Una soluzione potrebbe essere quella dei corridoi umanitari: «Ma finora si è fatto poco – sostiene la Sami – solo il Canada ha accolto 25mila siriani presi direttamente dai campi giordani e dal Libano».
Una partita tutta interna alla Ue è quella dei ricollocamenti. I siriani arrivati in Grecia e Italia hanno infatti diritto a essere ricollocati. La risposta Ue all’emergenza profughi prevedeva la redistribuzione all’interno dell’Unione di 40mila rifugiati provenienti dall’Italia (24mila) e dalla Grecia (16mila) in due anni. Risultato? Finora un flop clamoroso. «Molti Paesi si sono sfilati – racconta Carlotta Sami – altri, come il Portogallo, stanno facendo bella figura. Ma finora si parla di soli 500 rifugiati trasferiti dalla Grecia e dall’Italia».
L’ultimo allarme si chiama “nuove rotte”. La chiusura delle frontiere europee (a partire da quella macedone) rischia infatti di bloccare la via balcanica, che nel 2015 ha portato nel cuore dell’Europa ben 860mila migranti. La conseguenza potrebbe essere il riaprirsi di quella adriatica, tra Albania e Puglia. Tanto che rappresentanti delle forze dell’ordine di Italia, Albania e Montenegro si sono già incontrati per mettere a punto un strategia comune.

La Stampa 6.3.16
Il pugno di Erdogan contro il giornale ribelle
Il quotidiano Zaman commissariato con l’accusa di “propaganda terroristica”: licenziato il direttore
La polizia in redazione, scontri a Istanbul. Stati Uniti e Unione Europea esprimono “preoccupazione”
di Marta Ottaviani


Questa volta, la vittima della censura è quanto mai eccellente. Si tratta del quotidiano Zaman. Venerdì il tribunale amministrativo di Istanbul lo ha messo sotto amministrazione controllata, la notte successiva la polizia ha fatto irruzione nella redazione sequestrando tutto e ieri mattina è arrivata la notizia che il direttore Abdulhamit Bilici era stato licenziato dal nuovo consiglio di amministrazione.
Zaman non è un giornale come tutti gli altri. È uno dei più diffusi del Paese e di proprietà di Fethullah Gülen, il filosofo islamico prima finanziatore e poi nemico di Erdogan. Il presidente della Repubblica nello scorso ottobre lo ha fatto inserire nella lista dei terroristi più pericolosi, dichiarandolo a capo di un’organizzazione segreta. Da quel momento sta cercando di smantellare l’impero del filosofo, che vive in autoesilio negli Stati Uniti, pezzo per pezzo. A ottobre, altre due testate di opposizione, ma meno diffuse, Bugun e Millet, erano state messe in amministrazione controllata, tornando in edicola con una linea editoriale filogovernativa.
Tensione a Istanbul
A Istanbul, intanto, è stata una giornata nervosa. Centinaia di lettori di Zaman si sono ritrovati fuori dalla sede della redazione per manifestare contro il deterioramento della libertà di stampa nel Paese. Molti avevano in mano la copia di ieri del giornale, che sulla prima pagina riportava la scritta «Anayasa askida», la Costituzione è sospesa. Ad attenderli hanno trovato un imponente spiegamento di forze dell’ordine, che non ha esitato a disperdere la folla con proiettili di gomma, gas lacrimogeni e getti di idrante. Ai giornalisti in redazione è stata tolta la connessione internet e tutto quello che hanno potuto fare è stato twittare dai loro smartphone. «Siamo tutti in pericolo - ha spiegato Ekrem Dumanli, che ha diretto Zaman per 15 anni -. Ormai Erdogan vede in chi la pensa in modo diverso un nemico. Quando ero direttore temevo per la mia vita e quella dei miei giornalisti». Il premier, Ahmet Davutoglu, ha parlato di «decisione non politica». Ma non gli crede nessuno.
Bavaglio alla stampa
Sono a decine i giornalisti in Turchia che negli ultimi anni hanno perso il posto di lavoro perché non graditi al primo ministro. Alcuni di loro hanno anche problemi con la giustizia e non per reati connessi alla stampa. È il caso del celebre giornalista Can Dundar, sotto processo per spionaggio perché il suo quotidiano Cumhuriyet ha pubblicato foto e video che ritraevano esponenti dei servizi segreti consegnare camion carichi di armi allo Stato islamico. Il presidente Usa, Barack Obama, e il presidente dell’Europarlamento, Martin Schulz, hanno espresso «preoccupazione». La Turchia, che doveva essere un modello per tutto il Medioriente, è diventata un alleato sempre più difficile da gestire e a rischio democrazia.

Corriere 6.3.16
Attacco alla stampa
Erdogan, il nuovo sultano che uccide la libertà in Turchia
Non è possibile chiudere gli occhi davanti agli attentati contro la democrazia:
Se si accetta silenziosamente lo scempio in nome della realpolitik si commette un atto di inaccettabile complicità
di Antonio Ferrari

qui

Repubblica 6.3.16
L’intervista.
Abdullah Bozkurt, caporedattore del quotidiano: “Il governo ci detesta: qui è sempre peggio”
“Vogliono cancellare la libertà di opinione”
di Anna Lombardi


«Il service del giornale è disattivato, hanno tagliato l’accesso a Internet, bloccato le macchine di stampa. Hanno licenziato il nostro direttore, Abdulhamit Bilici e il nostro editorialista di punta, Bulent Kenes. Quasi certamente lunedì licenzieranno altri. Forse anche me». Abdullah Bozkurt, capo della redazione di Ankara di
Today’s Zaman
parla al cellulare dal suo ufficio. «Ci aspettiamo il peggio».
Dopo gli scontri a Istanbul, com’è la situazione nel giornale?
«Davanti a me c’è un ragazzo che ho assunto un anno fa, un giornalista molto promettente. Sta piangendo. Non possiamo lavorare e io oggi posso fare il mio mestiere di giornalista solo raccontando le cose attraverso Twitter».
Quando tornerete in edicola?
«Quando il governo avrà messo insieme una squadra di gente sua. Forse già lunedì».
Sta dicendo che da lunedì ci saranno nuovi giornalisti al vostro posto?
«Non li chiamerei giornalisti, ma sì, gente loro. Sicuramente sostituiranno la dirigenza del giornale. Imporranno una linea editoriale che appiattisca Zaman sulle posizioni governative. Vogliono farne un giornale di propaganda. Ma la gente non la berrà».
Molti vostri lettori hanno protestato al fianco dei giornalisti...
«Non si può passare da un giornale indipendente ad un giornale di propaganda in una notte. Sono venuti a dircelo in tanti qui, nell’ufficio di Ankara. Abbiamo avuto enormi dimostrazioni di solidarietà. Con 650mila lettori siamo il giornale più letto della Turchia: ma i nostri sono lettori leali e consapevoli. Non compreranno un giornale finto. Le vendite crolleranno. Il rischio è che il gruppo Feza, la nostra azienda, farà bancarotta. E forse era questo l’obiettivo del governo. Far fallire l’ennesima voce critica senza doverla ufficialmente chiudere».
Perché colpirvi in questo momento?
«Si parla di referendum costituzionale. E noi siamo critici. E dunque scomodi. Come prima di noi i colleghi del quotidiano d’opposizione Cumhuriyet, il cui direttore è stato tre mesi in carcere. E quelli di Hurriyet, attaccata pochi mesi fa da uomini armati».
Dalla Casa Bianca al presidente del Parlamento europeo Schulz, tanti hanno espresso preoccupazione per quel che sta accadendo al vostro giornale. Servirà?
«Qualunque pressione internazionale aiuta: perché se non lo critichi, il governo turco tende a scambiare il silenzio internazionale per approvazione. Semmai si stanno alzando poche voci. Pur di risolvere la questione dei rifugiati, l’Europa è pronta a sacrificare i valori democratici della Turchia».
Nel suo paese almeno 30 giornalisti sono in carcere. Ha paura?
«Ogni volta che scrivo un articolo, ogni volta che twitto i miei pensieri, penso che ne pagherò il prezzo. Si può essere arrestati, licenziati, silenziati con storie costruite ad arte sulla propria vita privata. Ma io continuerò a parlare. E con me tanta gente. Questo è un paese di gente onesta, anche se ci rendono la vita sempre più dura».

La Stampa 6.3.16
Nell’“ambasciata” curda di Mosca
“Qui lavoriamo per un nostro Stato”
In Russia la prima sede estera del Kurdistan siriano: Putin è con noi
di Lucia Sgueglia


Tekstilshiki, semi-periferia a Sud-Est di Mosca. Tra autoricambi e condomini sovietici, un business center nuovo e moderno, c’è un’insegna: «Associazione degli imprenditori curdi». Al terzo piano un piccolo ufficio asettico, tutto è nuovo a partire dai mobili. Alla parete il ritratto di Abdullah Ocalan, il leader del Pkk turco che Mosca non considera «terrorista», a corona una bandiera russa e una del «Rojava», la regione Nord della Siria autonoma de facto dal 2013. Qui potrebbe realizzarsi il sogno dei curdi siriani, l’incubo di Erdogan, un Medioriente ridisegnato. Dal 10 febbraio è la prima sede estera del «Kurdistan occidentale». Non una rappresentanza ufficiale, formalmente una «Ong». Ma la speranza è conquistare l’appoggio russo per l’autodeterminazione nella Siria che sarà.
«Per noi è un passo storico, vi abbiamo lavorato anni, la rottura tra Mosca e Ankara dopo l’abbattimento del jet a novembre ci ha aiutato», dice il giovane capo missione, Rodi Osman, ex insegnante passato all’attivismo politico. Viene da Sari Kani, a ridosso del confine turco poco distante da Cezri, la «Seconda Kobane». Con lui l’interprete-assistente Farhat Patiev, uno dei 64 mila curdi di Russia, e membro del Consiglio di Putin per i rapporti inter-etnici.
«Qui noi dirigenti abbiamo trovato comprensione», spiega Osman, che avrebbe svolto incontri con «alti ufficiali» dal parlamento agli Esteri, ma non rivela i nomi degli «sponsor». Qualcuno parla già di un Putin «padrino del Grande Kurdistan»: i raid di Mosca hanno aiutato l’avanzata dell’Ypg, le milizie del partito curdo-siriano Ypd (ritenuto vicino al Pkk), cui la sede moscovita è legata ideologicamente: «Quello non è solo il ritratto di un uomo, ma la filosofia di un intero popolo». Ankara è infuriata.
Osman non si sbilancia. Assicura che l’obiettivo del Rojava non è l’indipendenza come per Erbil, ma «una nazione confederata democratica e multietnica, con organi di governo eletti localmente e delegati centrali. Un potere concentrato solo a Damasco sarebbe un grosso errore». È il piano di Siria federale che circola sempre più. Modello Svizzera. Bandiera, il laicismo: pochi mesi fa la Siria secolare pareva seppellita, ora per Osman che ricorda il ruolo eroico delle donne Rojava, ha una chance.
Ma l’ottimismo per le «buone notizie» dal fronte trapela, il momento è propizio. Patiev indica una mappa a parete: «Questo è il Kurdistan siriano, con i 3 Cantoni di Cizre, Kobane e Afrim, attualmente quasi l’85% è sotto il nostro controllo, e probabilmente in futuro aiuteremo i nostri alleati sunniti arabi a liberare i loro territori e dirigersi a Sud». Se cade Azaz, «sarà fatta, l’Isis non passa più, la frontiera turca è bloccata. Dobbiamo solo pazientare ancora un po’», sorride. La tregua? «Solo autodifesa». È Ankara a violarla, accusano. A Mosca stampano un mensile in cirillico, Kurdistan libero, e il sito web Kurdinfo.ru.
Lavrov a gennaio ha ammesso di fornire armi ai curdo-iracheni via Baghdad. E il Rojava? L’unico aiuto militare ufficiale per ora, precisano senza smentire, viene dagli Usa: «La Russia è attenta su questo, qualsiasi fornitura deve passare da Damasco e Baghdad, rispettandone la sovranità. Loro poi possono passarle a Erbil o Shangal, ma è un affare interno». Riassumendo: «No al nazionalismo arabo di Assad, no al radicalismo islamico». Di rovesciare il leader di Damasco alleato della Russia non hanno fretta: «Prima serve un piano». Mosca, Usa e De Mistura li vogliono a Ginevra, ma «per ora nessun invito».
Intanto continuano a giocare su più fronti: il progetto è aprire a breve altre sedi a Berlino, Parigi, Washington, e a Praga una «rappresentanza militare». In Italia «un primo passo è già stato fatto quando Roma approvò il gemellaggio con Kobane nel 2015». Nel corridoio un cartellino: «Sezione visti». Nucleo della futura ambasciata? Si schermiscono: «Non c’entra con noi, ma in teoria forse potremmo già rilasciarli».
Un’amicizia storica, con Mosca: da Caterina la Grande che usò le tribù curde contro Persiani e Ottomani, al «Kurdistan Rosso» creato nel 1923 dai bolscevichi nel Caucaso, al distretto Mahabad in nord Iran voluto da Stalin (1945), al sostegno materiale dato dall’Urss al Pkk in funzione anti-turca. Ieri come oggi. Ocalan nel 1998 chiese asilo in Russia, ma ricevette un niet.
Ora che Washington ha problemi con l’alleato Erdogan, il Grande gioco mediorientale potrebbe compiere un’altra giravolta. Iran permettendo.

La Stampa 6.3.16
L’ultima rivoluzione cinese
50 milioni di posti di lavoro per rilanciare la crescita
Tagliate le stime del Pil al 6,5%, il tasso più basso degli ultimi 25 anni
Autostrade e ferrovie. Verranno costruiti 30 mila nuovi chilometri di autostrade e altrettanti chilometri di ferrovie ad alta velocità
di Cecilia Attanasio Ghezzi


«È come navigare controcorrente: o ti sforzi di andare avanti, o vieni trascinato a valle». Così il premier Li Keqiang ha descritto la situazione che si trova ad affrontare lo stato più popoloso del pianeta. È di fronte all’Assemblea nazionale del popolo, quasi tremila membri eletti che si riuniscono una volta l’anno per ratificare le leggi dello stato. Entro la metà di marzo dovranno approvare il prossimo piano quinquennale, ovvero gli obiettivi economici che la Cina si propone di raggiungere entro il 2020.
«Nei prossimi cinque anni ci troveremo ad affrontare un numero sempre maggiore di problemi e di rischi» mette in chiaro da subito il premier. Poi elenca i propositi del governo, un modo per capire come la seconda economia del mondo ha intenzione di affrontare il difficile momento di transizione che sta attraversando. Si tratta di un piano vago e poco ambizioso. «Bisogna attraversare il fiume tastando le pietre» avrebbe detto l’architetto della Nuova Cina, Deng Xiaoping.
Fino al 2020 il tasso di crescita non dovrà scendere sotto il 6,5 per cento. Per quest’anno si assesterà tra il 6,5 e il 7 per cento. Inferiore quindi al 6,9 per cento del 2015, già il più basso degli ultimi 25 anni. La scelta di stabilire una forchetta, inoltre, dà l’idea dell’incertezza che regna nella stessa Zhongnanhai, il cremlino cinese. Era dal 1995 che non veniva usata. Quest’anno, poi, il debito pubblico arriverà a 300 miliardi di euro: un aumento di 79 miliardi, pari al 3 per cento del pil. È il più alto dal 1979. Significa che si preferisce ricorrere agli stimoli piuttosto che puntare tutto sulle inevitabili riforme strutturali.
Nei prossimi cinque anni, la Cina si propone di raddoppiare il reddito medio procapite rispetto a quello del 2010; costruire 30 mila nuovi chilometri di ferrovie ad alta velocità e altrettanti di nuove autostrade. Per il 2020, il 60 per cento della popolazione risiederà in città. Saranno creati 50 milioni di nuovi posti di lavoro nonostante la ristrutturazione annunciata delle cosiddette «aziende zombie». Si tratta di quelle aziende statali tenute artificialmente in vita dai governi locali che impiegano circa 30 milioni di persone. Spesso coincidono con quegli stabilimenti che producono acciaio, carbone, alluminio, cemento e vetro in eccesso. Si parla di almeno 1,8 milioni di esuberi (tra i 5 e i 6 milioni secondo fonti di Reuters).
Siamo di fronte al temuto “punto di svolta di Lewis” ovvero il momento in cui un’economia in via di industrializzazione esaurisce la manodopera a buon mercato e non qualificata. Aumentano i salari, rallentano i tassi di crescita e le aziende devono diventare più efficienti e innovative per sopravvivere. Si tratta di passare dall’industria al terziario, incrementare ulteriormente la popolazione urbana e trasferire ricchezza alle famiglie in modo da alimentare i consumi. Una situazione che se non affrontata con l’adeguata accortezza rischia di diventare esplosiva.
Così la Cina ha deciso di puntare sulla crescita del settore dei servizi nelle città medio-grandi, sul turismo, sulle aziende IT e sull’innovazione. L’ambiente torna ad essere una priorità del governo che già da quest’anno prevede di riconvertire un milione di ettari in terreni boschivi e praterie. Nonostante la politica estera sempre più assertiva dell’ex Impero di mezzo, anche l’Esercito di liberazione dovrà modernizzarsi. Oltre al taglio già annunciato di 300 mila unità, la crescita del budget militare sarà la più bassa da sei anni a questa parte: 7,6 per cento. La sicurezza della «ciotola di di riso di ferro» è ormai solo un ricordo.

Corriere 6.3.16
Lo status di economia di mercato
Le opportunità e i rischi della promozione cinese
A novembre la Repubblica popolare celebra i 15 anni dall’ingresso nel Wto e a suo parere ciò le dà diritto ad ottenere il riconoscimento.
Non è una questione di etichetta, ma un obiettivo strategico
di Federico Fubini

qui

Repubblica 6.3.16
La Cina si rassegna “Il 2016 sarà duro” Pil tagliato al 6,5% il deficit sale al 3%
L’annuncio del premier Li Keqiang: investiremo nei salari, nei servizi e nell’urbanizzazione
E’ prevista la perdita di sei milioni di posti di lavoro nelle miniere e nelle fonderie di Stato
di Giampaolo Visetti


PECHINO. L’obiettivo è la crescita, ma l’era del boom è terminata: anche la Cina «deve affrontare problemi più gravi e sfide più difficili». Lo slogan del premier Li Keqiang è «nuova normalità », il fine «costruire una società moderatamente prospera». Nella sala che ospita i 3 mila delegati dell’Assemblea nazionale del popolo, affacciata su piazza Tiananmen, i toni non sono più quelli della doppia cifra. La seconda economia del mondo ufficializza i target 2016 e il piano quinquennale di sviluppo fino al 2020: l’avviso al business globale è che Pechino «non sarà più la locomotiva capace di tirare tutti ». Confermati gli annunci del Plenum di ottobre per il 2016, a cui si aggiungono i dieci punti del programma economico, teso a trasformare la Cina da una super- potenza fondata su produzioni low-cost ed export, in una «sostenibile e alimentata da terziario e consumi interni». La leadership rossa fissa «almeno al 6,5%» la crescita annua, rispetto al 6,9 del 2015, già dato più basso da un quarto di secolo. Nel 2015 il partito-Stato aveva posto il traguardo al 7%: per i mercati, allarmati da prospettive a picco fino al 5%, significa che la Cina entro dicembre crescerà realisticamente tra il 6,4 e il 7%, impegnandosi però «a non scendere sotto il 6,5% fino al 2020». Rispetto al 2010 il Pil risulterà così raddoppiato e il reddito pro capite crescerà in media del 6,5% all’anno, in flessione dal 7,4% dell’anno scorso. La spinta saranno accelerazione delle riforme, aumento della produttività e sostegno ai salari, più un nuovo imput all’urbanizzazione. Li Keqiang, aprendo le cosiddette “due sessioni” del parlamento cinese, assicura anche che l’inflazione resterà sotto il 3%, stessa quota del rapporto deficit-Pil. L’ingrossarsi del debito, assieme allo scoppio della bolla finanziaria, aveva fatto suonare l’allarme e gli analisti stranieri si erano spinti a prevedere lo sfondamento del 4% per reggere l’urto della «grande ristrutturazione ». Per Pechino fermarsi al 3%, dal 2,3% del 2015, significa comunque accumulare debiti per 330 miliardi di dollari, la massa più alta dal 1979. Una crescita pari a un quarto di quella mondiale, nel 2016 permetterà alla Cina di creare 10 milioni di nuovi posti di lavoro, ma questa volta anche i costi di annunciano alti. L’impegno del presidente Xi Jinping è chiudere i colossi di Stato improduttivi, tagliare la sovra-produzione industriale e quella di materie prima, dall’acciaio al carbone. Il sacrificio è di 6 milioni di posti di lavoro, 1,8 in miniere e fonderie, e il governo promette di stanziare 15 miliardi di dollari per la ricollocazione dei lavoratori. A un «2016 difficile per il quale bisogna prepararsi a combattere una battaglia complicata», corrisponde però un tredicesimo piano quinquennale segnato da ottimismo e «obbiettivi ambiziosi ». Tra i dieci punti, la crescita dei servizi al 56% del Pil, rispetto al 50,5% del 2015, e il 60% di popolazione residente nelle città, rispetto al 56,1% attuale. Per renderlo possibile, l’impegno è allargare l’”hukou” (sorta di permesso di residenza ndr) al 45% della popolazione, integrando oltre 300 milioni di migranti interni. Cruciali gli obbiettivi energetici, chiara la svolta verde: meno 15% di consumi e meno 18% di emissioni per unità di Pil, più 58 gigawatt di potenza atomica e almeno 80% di giorni con una «buona qualità dell’aria». Tra le infrastrutture, annunciati 50 nuovi aeroporti e 30 mila chilometri di linee ferroviarie ad alta velocità, rispetto ai 19 mila attuali. In calo solo la spesa militare: nel 2016 crescerà del 7,6%, dal 10,1% 2015. E’ l’incremento più contenuto da sei anni, causa crisi e tagli di soldati, per un budget da 146 miliardi, un quarto di quello Usa.

Repubblica 6.3.16
Il nuovo obiettivo di crescita è un primo passo verso il realismo
Le piazze finanziarie sull’ottovolante yuan Pechino al bivio tra errori e stabilità
di Alessandro Penati


Il rischio di svalutazione dello yuan è una delle cause della volatilità dei mercati. L’improvviso deprezzamento di ferragosto orchestrato dalla Banca Centrale, seppur modesto (2,7% rispetto al dollaro), ha diffuso il timore che le Autorità cinesi vogliano usare la svalutazione per sostenere un modello di crescita che ha smesso di funzionare. La Banca Centrale è così intervenuta per stabilizzare il cambio, bruciando 760 dei quasi 4.000 miliardi di riserve ufficiali accumulati negli anni (100 solo a febbraio). Può continuare a farlo, ma non all’infinito: e più interviene, più le aspettative di svalutazione si rafforzano.Le pressioni sul cambio sono generate dalla fuga di capitali cinesi che non hanno più fiducia nella politica economica del governo: la bilancia commerciale con l’estero infatti è in forte avanzo (293 miliardi negli ultimi 12 mesi), ma non basta a compensare la fuoriuscita da transazioni finanziarie, dovute alle imprese cinesi che coprono il debito denominato in dollari (circa 25% dei 3,300 miliardi di bond dei paesi emergenti), e da operazioni non registrate ufficialmente (408 miliardi la fuoriuscita nei soli primi 9 mesi del 2015).
La crescita cinese è stata drogata da massicci investimenti in infrastrutture e industria di base da parte di imprese pubbliche inefficienti, finanziate da prestiti facili erogati da banche pubbliche conniventi; e da investimenti immobiliari spinti dall’urbanizzazione indotta dalla rapida industrializzazione. Memore della crisi asiatica del ’98, il governo non ha voluto ricorrere ai capitali esteri e ha accumulato enormi riserve valutarie sperando così di isolare il paese da crisi esterne. Boom degli investimenti e accumulo di riserve sono stati pertanto finanziati dal risparmio delle famiglie, che hanno dovuto comprimere oltremisura i consumi: oggi solo il 36% del Pil, contro il 42% degli investimenti (in Italia, rispettivamente, il 61% e 17%). La Cina deve quindi cambiare, accettando uno sviluppo più lento, basato sui consumi. Deve eliminare l’enorme capacità inutilizzata in tutte le industrie di base e delle costruzioni, creando però disoccupazione e disagio sociale; e deve smaltire lo stock di debito delle imprese, arrivato a 160% del Pil, in buona parte sofferenze che grava sui bilanci di banche sottocapitalizzate e inefficienti. Per uscirne, la Cina sa di avere bisogno di un mercato interno dei capitali funzionale e aperto agli investitori esteri, in grado di finanziare le imprese con corporate bond e di assorbire le sofferenze tramite le cartolarizzazioni. Ma persegue l’obiettivo in modo sbagliato. Avrebbe dovuto prima creare un mercato finanziario interno, poi lasciar fluttuare liberamente il cambio, e infine liberalizzare i movimenti di capitale; invece ha liberalizzato i movimenti di capitale, senza aver creato un mercato domestico di bond in renminbi e ristrutturato il sistema bancario. Così, invece di attirare i capitali esteri, ha fatto fuggire quelli cinesi.
Secondo errore: con la libertà di movimento dei capitali si può perseguire un obiettivo di cambio, o un obiettivo di politica monetaria. Non entrambi. La Banca Centrale invece persegue una forte politica espansiva, creando una liquidità che esce dal paese e mette sotto pressione il cambio; ma avendo anche un obiettivo di stabilità dello yuan, è costretta a ulteriori interventi.
La Cina, e lo yuan, possono percorrere due strade. Una virtuosa: tagliare l’eccesso di capacità produttiva delle imprese pubbliche inefficienti, usando la leva fiscale per creare il welfare necessario a contrastare il disagio sociale causato dalle ristrutturazioni, e per sostenere la domanda con tagli delle tasse. Deve poi trasferire l’onere dei crediti deteriorati allo Stato, in modo che le banche possano essere privatizzate e rese competitive. Il livello del deficit e il debito pubblico (2,3% e 41% del Pil rispettivamente) lo permettono. La politica monetaria deve contenere la crescita esplosiva dei prestiti (+15% a gennaio), non alimentarla. Così si stabilizzerebbero le aspettative interne sul cambio e il flusso di capitali si invertirebbe, creando un grande mercato domestico per i bond in renminbi. L’obiettivo di crescita realistico che il Congresso Nazionale del Popolo ha fissato ieri va nella giusta direzione.
L’alternativa è insistere con politiche incoerenti, che porterebbero inevitabilmente a rigidi controlli dei movimenti di capitale, facendo arretrare le lancette dell’orologio dello sviluppo cinese. E creando un “rischio yuan” per i tutti i mercati.

Corriere 6.3.16
Di quanti partiti ha bisogno la democrazia americana
risponde Sergio Romano


È ormai assodato che, salvo sorprese dell’ultima ora, il prossimo inquilino della Casa Bianca uscirà dal ballottaggio tra Donald Trump e Hillary Clinton; due personaggi molto modesti e di basso profilo. Il primo preoccupa per i suoi modi, discorsi, atteggiamenti e idee piuttosto discutibili e per nulla tranquillizzanti (preoccupano perfino il suo stesso partito). L’altra candidata gode chiaramente di luce riflessa giocando su un nome ben noto al popolo americano. Non si pretende di trovare tra i papabili nomi di prestigio al livello di un Roosevelt, un Truman, un Eisenhower; ma è mai possibile che il grande popolo statunitense non riesca a far emergere un candidato serio, uno statista di spessore riconosciuto che possa prendere in mano sia la nazione che, di riflesso, il mondo intero? Preoccupa non poco il pensiero che l’uomo (o la donna) più potente del mondo possa uscire dallo scontro Trump/Clinton. Mi piacerebbe conoscere il suo pensiero.
Mario Donetti

Caro Donetti,
Quello che lei ha descritto è un duello zoppo e anomalo fra due persone che hanno caratteristiche molto diverse. Hillary Clinton è una professionista della politica americana. Ne conosce le regole, ne parla la lingua, ne ha respirato l’aria sin dal suo primo incontro con il giovane Bill. Sa fino a dove può spingersi con le sue promesse elettorali e non adotterà mai posizioni sgradite ai più autorevoli notabili del suo campo perché ha bisogno, per vincere, della macchina del partito democratico. Donald Trump, invece, è un corsaro populista, non molto diverso da alcuni personaggi che hanno fatto la loro apparizione sulla scena politica europea degli ultimi decenni. Non tutti dicono le stesse cose, ma tutti hanno un programma che pretende di dare una risposta alle principali fobie dei loro connazionali: insicurezza, caduta del livello di vita, immigrazione, odio delle istituzioni Con una importante differenza. Mentre i populisti europei fondano un partito o rinnovano i quadri di una formazione politica già esistente, Trump deve vincere in un sistema bipartitico in cui le candidature si conquistano alla fine di due percorsi popolari paralleli, consolidati dalla tradizione e destinati a concludersi con una trionfale Convenzione. Trump ha scelto di servirsi del partito repubblicano perché è quello che sembra garantirgli, in questo momento, il maggior numero di elettori. Ma questo partito non è la sua casa.
Non è sorprendente, in queste circostanze, che si cominci a parlare della nascita di una nuova formazione politica. Se la gloriosa casa di Lincoln (come viene definito il partito repubblicano) rischia di essere occupata da un estraneo, perché non creare una casa nuova in cui il patrimonio culturale del partito non venga sperperato? È la proposta di Danielle Pletka, vice-presidente dell’American Enterprise Institute (un centro di studi conservatore) apparsa sul Financial Times del 3 marzo. E potrebbe essere il disegno di Michael Bloomberg, ricco uomo d’affari e sindaco di New York dal 2001 al 2009, più volte tentato dalla Casa Bianca.

Corriere 6.3.16
Un mondo senza barriere grazie agli smartphone
Gli smartphone hanno permesso ai Paesi poveri di avere accesso al web senza costose strutture fisse
di Danilo Taino

qui

La Stampa TuttoLibri 6.3.16
Quei cattivi ragazzi di Berlino messi al rogo dai nazisti
Otto adolescenti sbandati si arrangiano con crimini e prostituzione: il libro scandaloso uscì nel ’32: fu poi proibito da Hitler e scomparve
di Luigi Forte


Che città è mai questa, si chiedeva Alfred Döblin nel suo epocale romanzo
Berlin Alexanderplatz
del 1929, il cui protagonista, Franz Biberkopf, uscito dal carcere di Moabit vorrebbe rigar dritto, ma proprio non ce la fa. Quel povero diavolo finisce per lasciarsi invischiare in un giro malavitoso, viene di nuovo arrestato e internato nel manicomio criminale. Alla fine però la vita non lo abbandonerà. La parabola di Franz si legge come il diario della città e delle sue convulsioni, rispecchia le défaillance di un’epoca. E che dire allora dei tanti Ludwig, Erwin, Walter o Heinz, giovani fra i 16 e i 18 anni, senza difese né garanzie, che popolano il singolare romanzo del berlinese Ernst Haffner,
Fratelli di sangue
? Fanno parte di una gang di sbandati, che sbarcano il lunario con furti e scippi, dormono dove capita, mangiano alle mense popolari e per sopravvivere talvolta non esitano a prostituirsi. Con loro la vita non è stata generosa: sono fuggiti di casa o dal riformatorio in nome di una libertà che li schiaccia, accomunati da un destino crudele che è il loro unico, fraterno legame. Non conoscono la parola futuro, vivono alla giornata passando da una bettola all’altra fra papponi, puttane e delinquenti, e la cronaca della loro sopravvivenza s’intreccia a quella di Berlino, nel primo dopoguerra, con migliaia di affamati: scenario di un agonizzante paese irretito dalla violenza, in un carosello inarrestabile di eventi drammatici.
Ernst Haffner forse aveva in mente le pagine di Döblin, quando scrisse il suo incalzante romanzo pubblicato nel 1932 con il titolo Giovinezza sulla Landstrasse di Berlino dal famoso editore ebreo Bruno Cassirer, che era stato anche gallerista e mercante d’arte. L’anno dopo il libro fu distrutto dai nazisti nei famigerati roghi sulla Piazza dell’Opera e dell’ autore, che era stato giornalista e assistente sociale, si persero le tracce. Solo tempo fa, dopo il casuale ritrovamento di una copia, fu ristampato in Germania con un nuovo titolo ed ora l’ editore Fazi ne offre una scorrevole traduzione a cura di Madeira Giacci.
Haffner non fu in grado di esaltare la forza dell’utopia in mezzo alla barbarie, come fece il collega Erich Kästner nel suo famoso libro per ragazzi del 1928 Emilio e i detective, dove una banda di ragazzini è a caccia di un ladro e se la cava alla perfezione consegnandolo alla polizia. Non erano esistenze alla deriva, ma piccoli entusiasti che vivono l’inseguimento come la più esaltante delle avventure. Quel gruppetto che dà lezione agli adulti prefigura un organismo sociale orientato verso la convivenza civile e democratica con una buona dose di fiducia che nel mondo di Haffner non è di casa. La sua è piuttosto una topografia della disperazione che passa attraverso il Scheunenviertel, il quartiere ebraico con la famigerata Grenadierstrasse, «strada di affari segreti e oscuri», si allunga verso Alexanderplatz e zone più popolari, da Neukölln a Wedding, e talvolta, come sconfinando in un paese straniero, va a curiosare nella ricca Berlino occidentale, verso il Kurfürsten-damm, dove signore impellicciate portano a spasso cagnolini che calzano stivaletti laccati.
Nella sua epica dei bassifondi Haffner ha creato un mito negativo intorno alla figura di Jonny, il maturo capobanda attento a ogni esigenza degli otto ragazzi stretti intorno a lui: meglio di un padre e con più affetto di un fratello. Procura documenti falsi a Ludwig ricercato dalla polizia, distribuisce fra tutti il denaro che racimola con vari espedienti, accoglie nuovi membri come Willi fuggito dall’orfanotrofio di un’ altra città. Anche lui diventa un piccolo eroe viaggiando di notte da Colonia a Berlino disteso sull’asse delle ruote del treno. Ma il ritorno nella capitale è scoraggiante: niente lavoro, poco cibo. Dovrà rubare e vendere la propria giacca a vento in una gelida città dove anche l’amo-re è fonte di malattie più che di piacere.
Girando fra locali di infimo ordine come il Mexico, il Cafè Coltellata o il bar Balena di fronte al luna park, a spasso fra ospizi di fortuna attraverso periferie, quartieri malfamati e angoli chic, il lettore vede sfilare una metropoli inospitale e impietosa, che nulla però lascia trapelare del gran frastuono politico dell’epoca. Haffner non scrive un romanzo politico, ma si concentra con vivacissimo realismo sull’umana miseria. I fatti parlano da sé e denunciano la totale insensibilità della società e delle istituzioni. Ma in quella gang, che la polizia nel frattempo ha sgominato, c’è chi scopre una speranza: Willi e Ludwig, contrari a scippare la povera gente dei mercati, si danno al commercio di scarpe usate. Forse loro due, fra migliaia, ce la faranno a Berlino, dove «da soli si è spacciati». E’ una speranza, una piccola, baluginante luce, in un paese che di lì a poco sarebbe sprofondato nel buio assoluto.

La Stampa TuttoLibri 6.3.16
Joseph Stiglitz
Una cura da Nobel per far salire i poveri sulla scala della ricchezza
L’economista vicino a Bernie Sanders spiega come ridistribuire (in tempi lunghi) i redditi
di Mario Deaglio


Giugno 1990: è questa la data di nascita della povertà globale. Prima di allora la povertà era un problema interno di ogni singolo paese. Con la pubblicazione, in quel mese, del tredicesimo Rapporto sullo Sviluppo Mondiale da parte della World Bank - un volume dalla copertina nero pece, con sopra una carta geografica del mondo e la parola «Povertà» in un inquietante color marrone – il problema diventa globale.
Negli anni Novanta il divario tra i redditi medi dei paesi ricchi e quelli dei paesi poveri cominciava a ridursi ma aumentava parallelamente, e continua ad aumentare, all’interno di quasi ogni paese, il divario tra i ricchi e gli altri. Nei paesi avanzati, gli ultimi dieci anni hanno visto lo «scivolamento» verso il basso, in termini non solo di redditi ma anche di opportunità, di una parte considerevole della classe media e, contemporaneamente, la concentrazione dei nuovi redditi e della nuova ricchezza in una minuscola frazione della classe agiata, talora inferiore all’uno per cento della popolazione.
La crescente diseguaglianza dei redditi si intreccia con il loro irrigidimento persino negli Stati Uniti che hanno fatto della mobilità sociale il principale antidoto alle tensioni sociali. Chi immigra negli Stati Uniti da un Paese povero ha ancora la possibilità di trovare rapidamente un lavoro (precario) per acquistare (a rate) un’auto. Gli è sempre più difficile, però, fare ciò che era quasi normale per le precedenti generazioni di immigrati, ossia salire qualche gradino sia della scala economica sia della scala sociale. A un certo punto (molto in basso) la scala si è spezzata; si è creata una frattura, apparentemente irrimediabile, tra chi sta sopra e chi sta sotto.
Questa frattura rappresenta una sorta di ferita aperta nel tessuto di economico-sociale di tutti i paesi «moderni» e può minarne la stabilità. Il suo sorgere è probabilmente da collegarsi al mutamento dei modi di produzione provocato da Internet e tende ad approfondirsi in maniera preoccupante. Joseph Stiglitz ha affrontato il problema in maniera sistematica nel 2012 con un vero e proprio trattato sulla diseguaglianza globale e su come combatterla, pubblicato in Italia da Einaudi nel 2015 (Il prezzo della diseguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro). Ora torna su questo stesso argomento con una raccolta di articoli e saggi, di notevole vivacità e di maggiore accessibilità anche ai non specialisti (La grande frattura. La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla, appena uscito per i tipi di Einaudi).
Stiglitz è un progressista e naturalmente la sua «casa» politica è nel partito democratico e recentemente ha mostrato particolare attenzione al candidato «di sinistra» Bernie Sanders e potrebbe forse diventare suo consigliere nel caso di una sua vittoria. È stato capo dei consiglieri economici di Bill Clinton e successivamente capo-economista del Fondo Monetario Internazionale e, oltre ad aver prodotto contributi teorici di primissimo piano (con lo studio dei mercati con «asimmetrie informative» che mette in luce alcuni limiti del libero mercato e che gli è valso il premio Nobel) è attivissimo nell’occuparsi della cosa pubblica. Unisce la pacatezza dei toni con la durezza dei contenuti; propone, senza retorica soluzioni dure ma pragmatiche, da realizzare in tempi lunghi.
Una parte dei contributi «politici» di Stiglitz degli ultimi anni è ora accessibile al lettore italiano (che è anche, nella grande maggioranza dei casi, un elettore italiano) nelle pagine de La grande frattura. Stiglitz non esita a chiamare «folle» un certo tipo di capitalisti, in larga misura legati alla grande finanza e, in un saggio uscito su «Vanity Fair» nel 2009; un altro suo saggio dello stesso anno, scritto in uno stile sobrio e brillante, è intitolato Anatomia di un omicidio: chi ha ucciso l’economia americana? ed è strutturato come un processo in cui la banca centrale e l’élite politico-finanziaria americana sono dettagliatamente chiamati a rispondere di insuccessi e complicità. In questo come in altri scritti del medesimo volume la conclusione può essere così sintetizzata: i mercati dipendono dalla politica e la politica riflette gli interessi delle classi sociali dominanti.
Stiglitz non è un «miracolista», non propone soluzioni semplici o, peggio, semplicistiche. Avverte che la cura richiederà una lunga e dura azione di redistribuzione dei redditi in senso maggiormente egualitario e richiede un forte movimento di opinione pubblica. Al di là dell’essere, come si diceva una volta, di «destra» o di «sinistra», nel preoccupante vuoto di idee e di programmi che si è delineato in Europa, questo suo libro dovrebbe essere una lettura obbligata per chiunque, da qualsiasi posizione, si proponga di cambiare l’economia di questo paese e di questo continente.

La Stampa TuttoLibri 6.3.16
Tra lune e venti, all’origine dello Zero
La “caccia” di un matematico, dal casinò di Montecarlo ai templi khmer in Cambogia
di Piero Bianucci


Lo zero è ovunque intorno a noi. Parlare al cellulare, vedere tv e dvd, ascoltare musica, scattare foto, girare video, inviare mail, sms e tweet, navigare in Internet, usare tablet e computer, sempre è immergersi in un oceano di zeri. Il mondo digitale si fonda sullo Zero e il suo vicino, l’Uno, che corrispondono nei microprocessori ad assenza o presenza di elettricità, interruttori aperti o chiusi. Curiosamente nei simboli 0 e 1 Leibniz vide una metafora della creazione, cosa che gli attirò gli sberleffi di quel materialista di Laplace. Oggi entrambi sarebbero più cauti.
Eppure ci fu un tempo, neanche tanto lontano, in cui lo zero non c’era. C’erano però gli altri numeri, astrazioni tratte dall’esistenza stessa degli oggetti fisici: una operazione così primordiale che il neuroscienziato Giorgio Vallortigara ha riconosciuto il concetto di «numerosità» in galline che controllano le loro uova. Ma lo zero inteso come numero e come segno che cambia il valore di tutti gli altri numeri a seconda della posizione è un’idea recente: emerge nel nostro medioevo dalla numerazione araba.
Gli arabi definivano indiani i loro numeri. Dunque venivano dall’India? Amir Aczel, matematico scomparso nel 2015, fu folgorato da questa domanda mentre, ragazzino, navigava sulla nave da crociera che suo padre comandava da Haifa a Montecarlo. A bordo incontrò uno steward, l’ungherese Laci (si dice lotzi), matematico laureato all’Università di Mosca, che lo iniziò alla straordinaria storia dei numeri. Memorabile fu l’incontro con lo zero quando Laci con uno stratagemma lo introdusse nel Casinò di Montecarlo e lì scoprì che lo zero era il numero più importante: con lo zero tutti i giocatori perdevano e vinceva il casinò.
In Caccia allo zero racconta decenni di ricerche spesi per scoprire il primo zero. I numeri arabi arrivano in Europa introdotti da Leonardo di Pisa (1170-1250). Fibonacci nel Liber abaci (1202) collega la parola zero all’arabo sifr, che suona come un soffio, e la associa al latino zephirum, vento primaverile che spira da ponente. In un diario talvolta anche troppo minuzioso, visitando biblioteche e monumenti in India, Thailandia, Laos e Vietnam, Aczel passa da una retrodatazione all’altra, finché in Cambogia giunge all’Iscrizione K-127 del VII secolo, trovata negli Anni 20 presso Sambor sul Mekong, tradotta per la prima volta in francese dal Khmer antico da Georges Coedès e pubblicata nel 1931. In essa compare lo zero più antico che si conosca: indica il quinto giorno della Luna calante e correva l’anno 683 della nostra era. Smarrita durante il regime di terrore dei Khmer Rossi, portata in salvo in un capanno all’Angkor Conservation e riscoperta da Aczel il 2 gennaio 2013, l’iscrizione K-127 è ora nel Museo Nazionale della Cambogia a Phnom Penh, al quale già apparteneva.
Lo zero rimanda ai concetti filosofici di nulla e di non essere, con gli annessi paradossi. Mentre Carlo Magno fondava il suo impero (800 d.C.), l’abate Fredegiso di Tours si domandava «se il nulla sia qualcosa»; se lo è, esiste, ma allora il non essere diventa essere, contraddizione diabolica insita nei concetti di zero e di nulla.
Questi giochi dialettici impallidiscono di fronte allo zero e al nulla dei fisici. Per convincersene basta leggere La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, pp. 334, 19 euro) di Guido Tonelli, un protagonista della scoperta della particella di Higgs. Il fotone, la particella della luce, deve avere massa zero, altrimenti non potrebbe correre a 300 mila km al secondo, massima velocità consentita in natura. Per lo stesso motivo dovrebbe avere massa zero il gravitone, particella associata alle onde gravitazionali di cui è appena stata annunciata l’osservazione.
Ma c’è di più. Avrebbero massa zero anche tutte le altre particelle se non provvedesse il bosone di Higgs a conferire loro specifiche masse, il che giustifica in parte l’etichetta giornalistica di «particella di Dio». Lo stesso prevalere della materia sull’antimateria – cui dobbiamo l’esistenza nostra e dell’universo – sarebbe un dono che ci ha fatto Higgs introducendo nel cosmo, qualche istante dopo il Big Bang, una lieve asimmetria: è questa incrinatura all’origine della «nascita imperfetta delle cose» che Tonelli racconta nel suo libro. Ma se fotone e gravitone hanno massa nulla, non è nulla il vuoto dei fisici. E’ anzi un pullulare di particelle e antiparticelle virtuali che si annichilano a vicenda. Un nulla pieno di tutto per qualche intervento diabolico, o meglio per il principio di indeterminazione di Heisenberg. Il che è quasi la stessa cosa.

Corriere La Lettura 6.3.16
La guerra fa parte della natura dell’uomo
Sulle rive del lago Turkana, in Kenya, diecimila anni fa si combatté
una furiosa battaglia, con molte vittime. Ma fu davvero la prima della storia?
In realtà, spiegano due studiosi, l’origine e l’uso delle armi sono assai più antichi. Addirittura di milioni di anni. E avrebbero a che fare con il nostro patrimonio genetico
di Patrizia Tiberi Vipraio e Claudio Tuniz


C’è stato chi, come Papa Francesco, ha affermato che siamo all’inizio della terza guerra mondiale. Saremo in grado di disinnescarla? Molto dipende dalla nostra natura più profonda. Come sappiamo, gli ingredienti comprendono armi di ultima generazione, estremismi religiosi, terrorismo, scricchiolii degli edifici finanziari, politici e sociali costruiti dall’umanità, o almeno da quella parte che sta consumando tutte le risorse del pianeta. Prima di queste ultime guerre contemporanee possiamo elencare un numero infinito di altri conflitti umani, portati a termine con materiali che rendevano sempre più efficace la nostra violenza organizzata: l’uranio e il plutonio erano stati preceduti dallo zolfo della polvere da sparo e, in tempi più remoti, dal ferro, dal bronzo, da altri metalli utili per forgiare spade e armi sempre più efficaci. Prima ancora, all’alba dell’umanità, usavamo la pietra per creare asce acheuleane, le armi di un milione e mezzo di anni fa.
Su «la Lettura» del 21 febbraio (#221), Carlo Rovelli ci parla di quella che, a suo avviso, sarebbe stata una delle prime guerre umane, combattuta sulle rive del lago Turkana, in Kenya, diecimila anni fa. In quel caso furono usate micidiali armi di ossidiana, una pietra vulcanica molto dura ma perfettamente lavorabile, particolarmente adatta a penetrare nella carne umana (in tempi recenti è stata usata come bisturi in medicina). Decine di uomini, donne (una anche incinta) e bambini sono stati rinvenuti con il cranio, le costole e molte altre ossa fratturate. Questa prima strage (documentata) sarebbe quindi avvenuta prima dell’inizio dell’agricoltura e dell’allevamento, quando, si riteneva, l’abbondanza avrebbe generato le prime guerre. Non molto prima in effetti. E questo ci consola. Forse la nostra inclinazione alla guerra potrebbe essere un fatto recente e quindi più facilmente sanabile. Ma è proprio così?
Il lago Turkana è un sito iconico per gli studiosi di evoluzione umana. Come ricorda bene anche Edoardo Boncinelli («la Lettura» del 5 luglio 2015, #188) è stato l’ambiente in cui gli ominidi da cui forse discendiamo sono riusciti a inventare i primi strumenti di pietra, oltre tre milioni di anni fa. Questo ha segnato l’inizio della nostra propensione a usare strumenti esterni al nostro corpo per sopravvivere, in una continua interazione fra capacità manuali e capacità cerebrali che, attraverso l’apprendimento e l’espansione del pensiero, ha portato fino a noi.
Queste armi erano già adatte per attaccare gli animali e combattere altri ominidi. Esistevano già allora, infatti, risorse preziose e limitate per cui competere, ad esempio una pozza d’acqua nella savana. Nella scena iniziale di 2001 Odissea nello spazio , Stanley Kubrick aveva rappresentato in modo molto suggestivo l’alba dell’uomo, facendola coincidere con l’inizio di questo tipo di conflitti, già milioni di anni fa. Guerra e violenza facevano sicuramente parte della vita dei nostri antenati ominidi, diventati sempre più potenti con il crescere del loro cervello e delle loro capacità di distruzione. Il seme della guerra doveva essere presente sin da quando, milioni di anni fa, ci siamo immaginati padroni delle asce di pietra e del fuoco. In altre parole, quando si è creata la prima distinzione tra «essere» dotati di qualche caratteristica anatomica di difesa o di attacco e «avere» a disposizione, grazie alla nostra immaginazione e alla nostra abilità, strumenti che fossero in grado di potenziare le nostre capacità di sopravvivenza.
È qui che nasce, probabilmente, la prima manifestazione della ricchezza: chi possiede un’arma è più ricco di chi non ce l’ha. Questo tema ci accompagnerà fino ai nostri giorni, segnando i caratteri dominanti della nostra linea evolutiva. L’organizzazione della violenza è cresciuta assieme al nostro cervello (e alla nostra immaginazione), fino ad arrivare agli eccidi di oggi. Le guerre devono essere avvenute per decine di migliaia di anni, precedendo di gran lunga quella del lago Turkana, e quindi anche quelle che molti storici attribuiscono prima al controllo delle risorse agricole (che sono alla base delle antiche civiltà conosciute) e poi al presidio delle vie di comunicazione.
Tuttavia, non è facile trovare le prove di guerre combattute in tempi molto lontani. Eppure, l’intuizione di Kubrick sembra essere suffragata dalle ultime ricerche. Basta assumere che il suo monolito nero illuminato rappresenti quello sviluppo mentale che ci rese capaci di immaginare. Divenuta sempre più potente, questa capacità ci avrebbe portati a vivere sempre più in un mondo che è mero frutto della nostra immaginazione, permettendoci di formare società complesse. Questo ci induce a qualche considerazione sull’essenza della natura umana e su come e perché ci siamo divisi fra amici e nemici, fra «noi» e «loro».
Per capire il comportamento tipico della nostra specie riteniamo che non dobbiamo studiare la nostra natura in base a ciò che «vorremmo essere», ispirandoci a qualche costruzione ideale che poi assumiamo come vera solo perché opportuna o desiderabile; e nemmeno in base a miti, quali ad esempio quello del «buon selvaggio» che ci siamo inventati, senza un briciolo di prova, per esorcizzare gli eccessi di violenza di cui ci vediamo capaci. Fa bene Giorgio Manzi a dubitare della sua validità (sempre su «la Lettura» del 31 gennaio, #218). La natura umana di riferimento dovrebbe essere invece quella che emerge dal caleidoscopio di comportamenti effettivamente osservati nel corso della nostra storia evolutiva. Qualcosa che è dualistico, ma anche multiforme, qualcosa che varia a seconda della prospettiva da cui si guardano gli eventi.
Facciamo un esempio osservando il presente. Sappiamo che spesso sviluppiamo degli atteggiamenti ostili verso tutti coloro che riteniamo diversi da noi. Questo può dipendere dal fatto che parlano lingue incomprensibili oppure che hanno un aspetto insolito e altre abitudini. Diventiamo particolarmente aggressivi quando temiamo che essi ci creino problemi economici e sociali, minacciando il nostro stile di vita. Le diversità che ci infastidiscono possono riguardare il colore della pelle, la fisionomia, lo status sociale, le preferenze sessuali, quelle alimentari, le ideologie politiche, i credi religiosi e altro ancora. D’altra parte a volte mostriamo anche una propensione alla cooperazione e all’empatia. E questo significa che possediamo anche uno spirito di solidarietà. Va tuttavia osservato che tendiamo a definire i confini fra «noi» e «loro» — fra coloro con cui ci identifichiamo e quelli che consideriamo nostri nemici — in maniera variabile a seconda delle circostanze: può essere il campanile, la nazione, l’etnia, la religione. Le aree d’inclusione e di esclusione, se rappresentate, possono apparire come figure che si espandono e si comprimono in continuazione, su molte dimensioni, penetrandosi a vicenda.
Allora vale la pena riflettere su come nasce questa abitudine umana di tracciare un confine, vario e variabile, fra individui. Si tratta solo di retaggi culturali, sociali ed economici, che possiamo combattere? O sono distinzioni che dipendono dalla nostra struttura genetica e da come funziona il nostro cervello? Secondo recenti studi (pubblicati sull’«Annual Review of Anthropology» alla fine del 2015) sembrerebbe che questo tratto dualistico della nostra natura sia fra i principali responsabili del nostro originario successo come specie. Eppure potrebbe trattarsi anche di una mina vagante, nella società multietnica e multiculturale in cui viviamo oggi. Vediamo perché.
Quando, 150 mila anni fa, abbiamo dovuto attraversare un periodo caratterizzato da improvvisi cambiamenti climatici, esistevano almeno quattro specie umane, che abitavano diverse aree del pianeta: i nostri antenati sapiens vivevano in Africa, i Neanderthal in Europa e in Asia occidentale, i denisoviani nell’Asia nord-orientale, e i minuscoli uomini di Flores (i cosiddetti Hobbit) nel Sud Est Asiatico. Vivendo in aree lontane e separate fra loro non c’erano allora molte occasioni di conflitto tra specie diverse; né eravamo ancora un pericolo per gli altri animali o per l’ambiente. A un certo punto, in Eurasia, il freddo e i ghiacciai cominciarono a espandersi. I Neanderthal si spinsero così verso l’Italia meridionale e la Spagna. L’Africa era invece devastata da ondate di siccità, che rendevano la savana sempre più brulla e ampliavano le aree deserte. Anche noi sapiens cercammo quindi di porci in salvo. Gli studi genetici e archeologici mostrano che in quell’occasione, nel tentativo di lasciare l’Africa, ci riducemmo considerevolmente di numero.
Le ricerche svolte negli ultimi anni ci rivelano tuttavia che gli ambienti costieri dell’Africa costituirono la salvezza per i nostri diretti antenati. Essi erano ricchi di cibi succulenti, molluschi e altri prodotti acquatici. Il nostro cervello si era ingrandito enormemente nei precedenti due milioni di anni. Ora si potevano selezionare le connessioni neuronali giuste per adeguarci alle mutate condizioni ambientali. Per sopravvivere e prosperare serviva formare, per la prima volta, bande di difesa territoriale. Nell’entroterra non era particolarmente utile coordinarsi in grandi gruppi, poiché il cibo era sparso, mobile, e non prevedibile. Le alleanze si limitavano a certe occasioni di caccia grossa, mentre il costo di presidiare ampi territori per impedire l’accesso ad altri era elevato. Sulle coste avevamo trovato invece un nutrimento di alta qualità, concentrato su un territorio da difendere. Inoltre potevamo programmare lo sfruttamento di tali risorse, poiché eravamo già in grado di comprendere il collegamento tra la luna e le maree.
Si calcola che nella parte meridionale del continente un individuo poteva facilmente raccogliere in un’ora molluschi equivalenti a 5.000 calorie. In un periodo di crisi ambientale si trattava di una risorsa preziosa per la sopravvivenza. Essa costituiva però anche occasione di conflitto tra gruppi diversi. Nascevano così la prima proprietà privata, anche se di gruppo, e le prime guerre territoriali. In questo modo si sarebbero selezionati individui con geni e connessioni cerebrali favorevoli alla collaborazione fra membri del proprio gruppo e alla competizione con individui identificabili come appartenenti a gruppi diversi. Da qui l’ambivalenza della nostra attuale natura cooperativa e competitiva.
Questi caratteri non sarebbero fra loro in antitesi ma al contrario parti integranti di uno stesso comportamento. A un certo punto, circa 70 mila anni fa, in Sudafrica, abbiamo inventato armi da lancio con punte molto sofisticate, ottenute riscaldando particolari tipi di pietra. Noi sapiens potemmo così uscire dall’Africa, diventando una forza inarrestabile. In poche migliaia di anni riuscimmo a dominare il pianeta, causando l’estinzione di tutte le altre specie umane e di moltissimi grandi animali del Pleistocene. Le nostre capacità distruttive, enormemente aumentate, sono da allora rivolte contro altri gruppi della nostra stessa specie.
Se quanto detto sopra fosse confermato, questa distinzione fra noi e loro farebbe quindi parte non solo delle nostre diverse culture, come sempre si dice, ma anche del nostro patrimonio genetico. Ovviamente, durante gli ultimi 10 mila anni, le aree da difendere o da conquistare sono proliferate: non solo le risorse alimentari ma anche la ricchezza già accumulata, e distribuita male, l’oro nero (il petrolio), l’oro blu (l’acqua), i mercati, le tecnologie, i diritti dei cittadini, lo stile di vita. Basterà conoscere la nostra natura più profonda per saperla imbrigliare? E impedire che questa distinzione fra «noi» e «loro», inizialmente utile per la sopravvivenza, ci porti all’autodistruzione? Se veramente la guerra facesse parte del nostro patrimonio genetico, non basterebbe invocare una «rivoluzione culturale», per salvarci; avremmo bisogno di una provvidenziale «mutazione».

Corriere La Lettura 6.3.16
All’empatia serve un progetto
Solo così genera condivisione
Un libro a più voci su un concetto in voga
di Adriano Favole


S haring o «condivisione», nell’imperfetta traduzione italiana, è senza dubbio una parola chiave del nuovo millennio. Abitanti di un pianeta dominato da un «uomo economico» che compete e persegue i propri interessi anche nelle istituzioni che, tradizionalmente, stavano fuori dal mercato, come le università e gli ospedali, aspiriamo tuttavia alla condivisione.
Il sogno di un mondo condiviso è stato alimentato in questi anni da vari fattori: la rivoluzione digitale in primo luogo, che sembrava poter trasformare la precedente epoca del possesso in una nuova era dell’accesso senza limiti (Jeremy Rifkin, L’era dell’accesso , Mondadori 2001). Un secondo fattore è il persistere di una lunga crisi economica, che ha messo in evidenza i limiti dello sviluppo e delle risorse, l’impossibilità di una crescita infinita, i fallimenti del modello economicista e finanziario. E poi, non ultima, una seppur timida motivazione di ordine morale, l’aspirazione a un’umanità capace di promuovere la giustizia e l’uguaglianza, di abbattere il muro più solido, quello che dai tempi del colonialismo divide i Paesi ricchi da quelli poveri — praticamente il contrario di quanto succede, in questi giorni, in Europa, da Calais alla frontiera tra Macedonia e Grecia.
Abbiamo immaginato che questa rivoluzione potesse infiammarsi soprattutto per le qualità dell’epoca digitale: la costruzione di un infinito spazio virtuale poteva aprire nuovi orizzonti in cui le frontiere politiche, etniche, economiche e di genere avrebbero vacillato, dando a ciascuno la possibilità di giocare le proprie carte. A conti fatti però, la rete ci ha connessi o ci ha imprigionati (entrambe le metafore sono pericolosamente presenti nel termine)? La cosiddetta sharing economy ha incoraggiato forme reali di «condivisione» delle ricchezze, oppure, a giudicare dal crescere delle diseguaglianze e dai nuovi monopoli digitali, ha finito per favorire una «spartizione» ulteriore delle risorse tra una élite sempre più ristretta? Non dimentichiamo che to share in inglese significa sia «spartire» sia «condividere» e, ironia della sorte, sha res sono le «azioni» nel senso finanziario del termine. Viviamo dunque in un mondo più condiviso o la sharing economy è solo l’ultima delle ideologie con cui un’economia di mercato sempre più aggressiva, arrogante e invisibile si sta affermando nel nuovo millennio?
Di questi temi discute un bel volume curato da Giulia Cogoli dal titolo Un mondo condiviso (Laterza). Il libro raccoglie gli interventi di otto tra i più noti e brillanti intellettuali del nostro tempo. Gli autori si confrontano a distanza in un dialogo a più voci che, grazie alla mano della curatrice, riesce a tessere una trama comune.
Andrea Moro e Giacomo Rizzolatti affrontano rispettivamente il tema delle matrici biologiche del linguaggio e i meccanismi del cervello empatico. Rizzolatti è internazionalmente noto per i suoi studi sui neuroni specchio e ripercorre qui alcune tappe di un appassionante percorso di ricerca. Come e più delle scimmie, siamo esseri empatici e i nostri circuiti neuronali ci mettono in risonanza con gli altri. Tuttavia, il cervello empatico non produce automaticamente una civiltà dell’empatia , per dirla con Jeremy Rifkin, uno dei più entusiasti cantori dell’epoca dello sharing . L’empatia non diviene condivisione sociale senza una progettualità che è tutta interna alla società e alla politica e non scaturisce automaticamente dalla neurofisiologia.
«Empatia oggi è una parola chiave. Ne parlano tutti, da Obama al Dalai Lama, e alcuni la considerano una rivoluzione», scrive Laura Boella. Parliamo di empatia globale riferendoci alla possibilità di connetterci in tempo reale al resto del mondo, vivendo online emozioni comuni, davanti a catastrofi e guerre, calamità naturali e più raramente lieti eventi. Ma attenzione ai facili entusiasmi: la condivisione è insieme la malattia e la cura del nostro mondo, il problema e una possibile via di uscita. Il palcoscenico globale del dolore e della morte non ci rende necessariamente più sensibili alla concreta sofferenza altrui e spesso la narrazione dell’empatia globale nasconde odio e stigmatizzazione del diverso — come non ricordare la celebre e contestata vignetta di «Charlie Hebdo» che ritraeva il piccolo Aylan morto e la proiezione della sua vita adulta immaginata attraverso gli stereotipi sugli stranieri, sintesi perfetta della odiempatia verso l’altro? Oggi c’è anche chi scrive contro l’empatia, osserva Boella, denunciando il suo carattere limitato, il suo essere modello di socialità istintiva, di un’affettività conformista, acritica, addomesticata. Di nuovo: la condivisione richiede progetti politici e sociali, una capacità di «fare società» che forse abbiamo smarrito.
Nel suo contributo Ilvo Diamanti si interroga proprio sull’incapacità politica e progettuale dell’Europa, il cui unico orizzonte di condivisione sembra oggi, paradossalmente, l’antieuropeismo. Ci sentiamo vicini ai contadini greci quando esprimono le proprie critiche a Bruxelles, agli allevatori francesi quando protestano contro l’Ue per il prezzo del latte. Non ci sarà un’Europa condivisa finché gli euro e gli anti-euro domineranno la scena e finché trionferanno le logiche nazionaliste contro l’invasione dei profughi.
Ricchi e poveri possono condividere un mondo globalizzato? (Non possono) : è il titolo del contributo di Jared Diamond che, come di consueto, non manca di arguta ironia. Condividere il mondo è impossibile se prendiamo come metro di valutazione lo stile di vita delle società ricche. I 60 milioni di italiani consumano risorse pari al doppio del miliardo di africani. Il tasso di consumo dei Paesi ricchi è in media di 32 volte più alto di quello dei Paesi poveri. Dove sta dunque il problema? Nelle fughe dai luoghi di guerra? Nel terrorismo? Nell’aspirazione dei poveri a una vita più dignitosa? Oppure nell’insostenibilità delle economie dei Paesi ricchi, che rischiano di portare al collasso l’intero pianeta, come avvenne, a suo tempo, all’isola di Pasqua?
Condividere nella contemporaneità significa certo dar vita a comunità empatiche che vivono concretamente e attraverso l’esperienza diretta il dolore e la gioia, la felicità e le preoccupazioni. Ma significa anche immaginare nuovi orizzonti di significato slargati , capaci di promuovere un senso di appartenenza a una comune società e umanità. Nel suo saggio, Mauro Agnoletti rintraccia nel paesaggio la cornice di quella condivisione che dovrebbe promuovere un senso di appartenenza al nostro Paese, ma anche una modalità per rilanciare economicamente l’Italia. «Ciò che distingue la complessità dei caratteri del paesaggio italiano è la molteplicità e stratificazione delle tracce che così tante e distinte civiltà hanno lasciato nel territorio e nelle forme delle nostre campagne». Il paesaggio è una forma di costruzione collettiva a più mani, metafora reale di un’appartenenza comune e plurale al tempo stesso.

Corriere La Lettura 6.3.16
Emigreremo nell’universo. Abiteremo altri mondi
Christophe Galfard è un fisico francese di 40 anni, autore di un saggio divulgativo in uscita, che ha collaborato con Stephen Hawking allo studio dei buchi neri
In questa conversazione con Giulio Giorello riflette sulle ambizioni della scienza. Che sono le speranze dell’umanità
«Abbiamo la possibilità di offrire alla nostra specie un arco di tempo lunghissimo, imparando a viaggiare a grandi distanze nello spazio. Fino a pochi decenni fa nessuno sapeva come arrivare sulla Luna. Oggi nessuno sa quel che saremo in grado di fare nei prossimi secoli»
di Giulio Giorello


A pro a caso il libro di Christophe Galfard. Scopro che ancora stiamo soffrendo — tu scrivi — di una grave malattia detta «Depressione Filosofica Copernicana». Non siamo più in un cosmo finito e tranquillo con la Terra ferma pressoché al centro. Come tu sostieni, perché mai un matematico polacco del Quattrocento, un tale Copernico, «ha dovuto rovinare tutto questo e proclamare che il Sole non girava intorno alla Terra?». Eppure, non credi che quella «Depressione» sia stata una vittoria della ragione scientifica?
«Certo! E questa vittoria della ragione scientifica, con la gioia che ne deriva, è esattamente quel che voglio condividere e trasmettere nel mio libro. La “Depressione Filosofica Copernicana” di cui parlo ha lo scopo di definire e riconoscere quel che prova chi si sente sopraffatto dalla vastità del nostro universo, e dalla parte insignificante che noi abbiamo in esso. Poi però capovolgo questo sentimento e lo trasformo in uno stato di esaltazione: quel che nei secoli passati abbiamo capito del nostro universo è straordinario ed emozionante, fonte incredibile di sogni e gioia. E noi, esseri umani, l’abbiamo capito da soli. Quindi, anche se è grande (e lo è), può essere contenuto nella nostra mente! Di questo dovremmo tutti essere molto orgogliosi, anche se non siamo scienziati».
Oggi sappiamo che il nostro globo non è fermo al centro dell’universo e che il Sole è una stella abbastanza periferica della galassia. Quest’ultima è solo una delle tante che si vanno allontanando l’una dall’altra con l’espansione dell’universo. Tu descrivi lo scenario cosmico come «bello e violento». Perché?
«Le dimensioni e le energie presenti nello spazio cosmico vanno al di là di qualsiasi cosa a cui siamo abituati e che possiamo provare sulla Terra. Per fare un esempio, l’energia sprigionata dai due buchi neri che sono stati “visti” lo scorso anno dal rivelatore LIGO mentre si fondevano è pari a 50 volte l’energia di tutte le stelle dell’universo visibile messe assieme. Un livello di violenza di cui mai si era avuta notizia prima d’ora. Se mi chiedi se vi sia bellezza nella violenza, ebbene, credo di sì. Ma non parlo della violenza umana, che detesto. Parlo della natura. Le leggi della natura, quelle di cui finora siamo riusciti a venire a capo, ci dicono che quando si raggiungono nuovi stadi di energia appaiono nuove realtà. La violenza che rileviamo nel cosmo ci apre gli occhi su realtà che non sono accessibili qui sul nostro pianeta, realtà che ci permettono di leggere la storia del nostro universo, di comprendere il passato, il presente, e infine anche le leggi stesse dell’universo. È una cosa meravigliosa».
Il Sole aumenterà diventando cento volte più grande ma prima che scoppi ciò di cui era fatto avrà annientato i suoi pianeti, tra cui appunto la Terra. Certo, la tragedia non è per domani ma tra circa cinque miliardi di anni! Eppure, c’è gente che già oggi resta impressionata da questa morte del Sole.
«Il Sole è l’unica fonte di energia che abbiamo. La sua estinzione provocherà la morte del nostro pianeta. Non è cosa da poco. Anche se sappiamo che tutti, come individui, un giorno moriremo, l’idea che questo debba succedere anche al Sole e alla Terra ci sembra anche peggiore. Significa che vi è un limite alla nostra esistenza non solo come individui, ma come specie. Non conosco nessuno che non si turbi a questo pensiero, dato che non coinvolge solo noi, ma anche i nostri figli (in un futuro molto, molto lontano). Ciò detto, e qui arriva la buona notizia, non credo che l’estinzione sia il nostro destino. Penso che in realtà dipenda solo da noi. Abbiamo la possibilità di capire le leggi della natura a un punto che consenta di evitare questa prospettiva. Abbiamo la possibilità, grazie alla scienza, di offrire all’esistenza della nostra specie un arco di tempo molto più lungo. Non impedendo la morte del Sole, ma imparando a viaggiare a grandi distanze nello spazio. È un buon incentivo per fare scienza, no? Ricorda comunque che parlo di eventi che si verificheranno tra miliardi di anni! Il tempo è dalla nostra parte!».
Magari emigreremo su qualche pianeta extrasolare: oltre alla scienza pura non ci sarà però necessaria anche una robusta tecnologia, oggi nemmeno immaginabile?
«Certamente. Non abbiamo ancora la tecnologia, e non sappiamo neanche di che tipo sarà. Chiedi a un uomo o a una donna del Medioevo come andare sulla Luna. Oggi lo possiamo fare. Nessuno sa quel che saremo in grado di fare nei secoli a venire».
Sembra non esserci struttura celeste che, al contrario di quanto credeva Aristotele, non debba prima o poi morire. E allora cosa ci resta di eterno? Forse il processo di inflazione detta appunto «eterna». Non potremmo essere tentati di dire, magari con un po’ di ironia, che se un Dio c’è, esso coincide... con tale inflazione?
«No, non dovremmo. La scienza non si occupa di provare o confutare l’esistenza di Dio. La scienza si occupa di fare domande e dubitare costantemente delle risposte date. Vuole cercare di capire come funziona l’universo, indipendentemente dalle nostre opinioni personali. Non intende dare risposte senza preoccuparsi della loro corrispondenza con il “mondo reale”. In questo senso Aristotele non era uno scienziato come lo definiamo oggi. Infatti la maggior parte delle sue idee sull’universo — ora lo sappiamo — erano sbagliate. Questo non significa che non fosse intelligente (anche se a volte il suo modo di ragionare era stravagante). Semplicemente non sapeva quel che conosciamo oggi e non aveva gli strumenti di ragionamento straordinariamente efficaci che abbiamo ereditato dai nostri antenati — e che abbiamo migliorato. Cercare di trovare Dio da qualche parte in quel che la scienza produce mi sembra un’illusione. La scienza è molto più modesta. Prendiamo l’inflazione cosmica, eterna o no. È una teoria. Solo una teoria. Non è ancora stata confermata sperimentalmente e nessuno potrà dire che è reale finché non lo sarà. Eppure, è una teoria affascinante che potrebbe fare luce su molti misteri».
Tu evochi anche «l’eretico ostinato» Giordano Bruno, finito al rogo nel 1600 per aver sostenuto (anche) che «esistono innumerevoli Soli e innumerevoli Terre che ruotano attorno a questi». Nel 1755 Immanuel Kant definiva il sistema delle «stelle fisse» come «un mondo di mondi». Si riferiva alla nostra galassia (la vecchia Via Lattea) ma poche righe prima dichiarava pure che le varie nebulose non erano singoli astri immensi, ma «piuttosto sistemi di molte stelle». Il filosofo era anche convinto che i pianeti di un qualche sistema solare potessero ospitare vita intelligente. Tu torni su questo argomento nel tuo volume. Non sei dunque troppo impressionato dal «Paradosso di Fermi» (se sono così intelligenti e tecnologicamente avanzati perché non sono già qui?).
«Ci sono molti modi di rispondere a questa domanda: potrebbe non esserci vita intelligente altrove (e, come ho scritto nel libro, Stephen Hawking ha anche detto che forse dobbiamo ancora trovarla sulla Terra...), viaggiare nello spazio a distanze tanto grandi potrebbe essere impossibile, potremmo essere i primi, ecc. Non lo so. La mia convinzione — ed è solo una convinzione — è che lo spazio brulichi di vita. Non necessariamente vita intelligente. Credo che la vita intelligente esista, ma che sia troppo lontana perché ci sia stato possibile trovarla finora».
Ci troviamo, scrivi, «un quadro dell’universo ricolmo per lo più di profonde incognite», ma non ricadiamo in depressione! «Questi territori ignoti sono le finestre che si affacciano sulla scienza di domani». Possiamo già indicare qualche esempio?
«I misteri per me sono l’esatto contrario di quel che può provocare un esaurimento nervoso. Sono una sfida, una fonte di gioia, sono cose a cui pensare con la speranza di scoprire un tesoro sconosciuto. Questo è quel che è successo sistematicamente in passato. Deprimente sarebbe sapere tutto. Ma per fortuna non accadrà in tempi brevi. Come ho detto nel libro, ci sono molti campi in cui sappiamo di non sapere quel che succede. Alcuni di questi — ma ce ne sono altri — sono il regno della gravità quantistica, che si manifesta nei buchi neri e all’origine del nostro universo, o la natura della materia oscura e dell’energia oscura che, assieme, costituiscono il 96% circa dell’energia presente nel nostro universo... Questo, per inciso, significa che se qualche giovane stesse pensando se vale la pena di intraprendere una carriera scientifica, deve sapere che ci sono ancora molte grandi scoperte da fare! Ci sono molti tesori da scoprire».
Abbiamo spinto l’audacia di Bruno al punto di concepire che l’intero nostro universo non sia unico. Eppure, tutto è cominciato dalla nostra Luna. Mi viene in mente una battuta (1896) del fisico e fisiologo Ernst Mach. I saggi antichi ammonivano a guardare dentro se stessi. Ma né la scienza né la stessa filosofia hanno seguito questa strada. Mach diceva ancora: «Abbiamo carte che ci rappresentano esattamente i monti e le regioni lunari. Ma i fisiologi appena adesso cominciano a sapersi raccapezzare nelle regioni del nostro cervello». Questo cent’anni fa. E oggi?
«Lo studio scientifico del funzionamento interno del nostro cervello è una scienza piuttosto giovane, con un potenziale e un futuro straordinari. Ma per quanto ne so, credo sia giusto dire che, se pure sono stati fatti progressi, non abbiamo ancora capito molto di quel che succede là dentro. Sembra che ne sappiamo meno di quanto sappiamo del cosmo... Ora, se posso, userò questa opportunità per esortare alla prudenza: collegare quel che abbiamo appreso del cosmo o della fisica quantistica a quel che si prova o si pensa non è scienza. Recentemente sono usciti molti libri sul benessere quantistico, la guarigione quantistica, la medicina quantistica. Alcuni li leggono con piacere, ma sono quasi tutte sciocchezze e non hanno nulla a che fare con la scienza su cui pretendono di basarsi».
Torniamo allora ai «misteri insospettati» entro la nuova fisica. Abitualmente molti si riempiono la bocca del termine mistero per indicare quello che ritengono per sempre inconoscibile. Ma i misteri non è meglio risolverli? A cent’anni dalla formulazione della relatività generale di Einstein la fisica non sta costituendo il modello di un nuovo Illuminismo, ove dubbi e controversie ci fanno constatare come sia doveroso «osare con la nostra ragione?».
«Nel corso dei secoli, l’umanità ha basato la comprensione della nostra realtà (qualunque cosa significhi questa parola) su quel che si sapeva in quel tempo. E la conoscenza, sostanzialmente, è sempre stata basata su due modi di pensare, o su uno di essi: il primo è sperimentale, il secondo teorico. Per alcuni dei greci antichi, come per esempio Platone, il secondo, quello teorico, era più importante del primo. Oggi, è il contrario: solo quel che è stato verificato attraverso esperimenti ripetuti e indipendenti è considerato corretto. O almeno non sbagliato. I “misteri insospettati”, come li chiamo nel libro, sono i misteri che emergono quando gli esperimenti non concordano con un quadro teorico precedentemente accettato ed efficiente. Misteri di questo genere sono sorti in passato (tipo: perché Mercurio non gira intorno al Sole secondo la formula di Newton?) e alcuni sono stati risolti (la particolare orbita di Mercurio ha portato alla scoperta della gravitazione di Einstein). La materia oscura e le energie oscure sono misteri di oggi: se non avessimo capito la gravitazione, non li avremmo individuati. Mettono in luce il fatto che non abbiamo una teoria che spieghi tutto. Alcuni dei misteri di oggi lo saranno per sempre? Non credo. La nostra conoscenza migliorerà e, come hai giustamente detto, nel corso di questa sfida dovremo pensare l’impensato. Un nuovo Illuminismo? Può darsi. Ma senza le opere dei giganti del passato, sulle cui spalle poggia la conoscenza moderna, anche i misteri svaniscono. Abbiamo bisogno di loro per andare avanti. A ogni modo, ho una fede così profonda in quel che l’umanità può fare, che non credo possano esserci misteri eternamente inconoscibili. Piuttosto, credo che questi ne produrranno di nuovi, che a loro volta ne susciteranno altri. Non abbiamo nessuna idea di quali potrebbero essere i misteri di domani. E per me questo è un pensiero affascinante».

Corriere La Lettura 6.3.16
«Un nuovo cielo» Anche Shakespeare si ispirò a Galileo
«Antonio e Cleopatra», «Cimbelino»: la lezione del secolo che vide un’intersezione senza precedenti tra scienza e filosofia
di Edoardo Boncinelli


Le ultime settimane sono state tutto un ribollire di furenti discussioni politiche e di anniversari. Solo qualcuno ha ricordato, tra le altre, la ricorrenza della nascita di Galileo (15 febbraio 1546). A riportarmi alla realtà è stata una serie di messaggi su Twitter, che hanno giustamente celebrato l’anniversario della nascita del nostro grande scienziato-filosofo. Mi ha colpito in particolare il riferimento a un libro del 2014 riguardante nientemeno che l’influenza delle scoperte del nostro sulle opere di William Shakespeare. Il libro è The Science of Shakespeare. A New Look at the Playwright’s Universe di Dan Falk. Vi si afferma, tra l’altro, che chiunque sia stato, Shakespeare è vissuto in un momento veramente speciale della nostra storia. Nato lo stesso anno di Galileo appunto, definito dall’autore «un padre fondatore della rivoluzione scientifica», e poco prima di Montaigne, Shakespeare è stato testimone di un’intersezione senza precedenti fra scienza e filosofia, nel momento in cui l’umanità cercava affannosamente di dare un senso alla propria esistenza.
Non c’è dubbio che uno degli eventi che allora contribuirono alla rifondazione di un tale senso sia stato lo sviluppo e quasi l’esplosione dell’astronomia osservativa, che portò un nuovo tocco di scientificità all’antica domanda sull’ordine che regna nel firmamento.
«Devi allora scoprire un nuovo cielo, una nuova terra», dice Antonio a Cleopatra nel dramma shakespeariano, e di nuovo cielo e di nuova terra, espressione ripresa dall’Apocalisse, veramente si trattò, allorquando si cominciò ad aprire gli occhi sulla struttura del cosmo, fino ad allora inattingibile palcoscenico di entità iperuranie, schermo fisso di realtà visibili come le stelle, ma sfolgorante indizio di verità «superiori», a noi celate.
Non possiamo ignorare, d’altro canto, le illuminanti parole di Giordano Bruno, un altro grande di cui si è celebrata la ricorrenza in questi giorni. «Non è che, rispetto all’universo, tu possa dire di essere più al centro che in qualsiasi altro luogo; perché è evidente che tutto all’intorno, ugualmente, da qualunque parte, si apre uno spazio infinito, che contiene infiniti astri e mondi», dice Bruno nel De immenso et innumerabilibus , e continua: «Considera come l’orizzonte, osservato da un’altra torre, mostri che il convesso continua il piano; quando sia impossibile correre oltre con lo sguardo, sarà come se la natura progenitrice si sia eretta una muraglia dinanzi; ma se, al contrario, sarà possibile superare ogni confine, si potrà vedere, allora, intrecciarsi ciò che è e ciò che non è».
Il pensiero filosofico era quindi pronto al gran salto, ma occorreva trovare qualcosa di concreto che ci mostrasse «la potenza dei cieli» come una cosa quasi terrena. Occorreva cioè portare il cielo sulla terra, come fecero vari scienziati fra cui Galileo a quei tempi, e Isaac Newton qualche tempo dopo, nonché Albert Einstein ancora dopo, in una vicenda appassionante che ci fa oggi parlare di onde gravitazionali, come se le vedessimo o addirittura le potessimo «cavalcare».
È noto che sulla natura della forza che teneva la Terra avvinta al Sole — e le mele sempre sull’orlo di cadere dal ramo — Newton non si volle esprimere. «Hypotheses non fingo», non faccio ipotesi, affermò a tal proposito con la ostinata e ostentata sobrietà dello scienziato. Ebbene, in questi giorni abbiamo appreso che la forza di cui sopra viaggia come un’onda dello spazio-tempo impiegando ad esempio poco più di otto minuti per raggiungere il nostro pianeta partendo dal Sole. Come dire che le forze gravitazionali viaggiano nel cosmo come onde, impegnando secondi, minuti, ore, anni o miliardi di anni, secondo i casi. Detto così, sembra un raccontino per ragazzi, ma consideriamo quanto tempo, quanto ingegno e quanti sforzi materiali ci sono voluti per raggiungere una tale consapevolezza! «Eppur si muove!», è il caso di esclamare con Galileo. In tutto l’universo qualcosa si muove, e le azioni dei corpi che lo popolano richiedono tempo per raggiungere i loro obbiettivi. Niente viaggia a velocità infinita, anche se tanti si sciacquano continuamente la bocca con la parola «infinito». Ognuno fa la sua parte nel cosmo; ciò che è miracoloso e eccezionale è che noi lo stiamo comprendendo e descrivendo, talvolta minuziosamente.
Questo è il clima inaugurato da Galileo e respirato anche da Shakespeare e dai suoi contemporanei, almeno alcuni. Stupore, ansia di infinito, senso e superamento del limite e, nello stesso tempo, immanente trascendimento dell’umano, figurano fra i temi portanti delle sue opere, e non si può negare che descrivere le frenesie e le bassezze, ma anche le magnanimità, ha un altro sapore e un altro valore prospettico se le gesta dei protagonisti vengono proiettate contro una realtà fisica così prepotentemente dilatata.
Dan Falk nel suo libro esplora la connessione fra l’arte del famosissimo drammaturgo e lo spirito della rivoluzione scientifica, concludendo che il Bardo stesso fu significativamente influenzato dal progresso scientifico, e in particolare dall’astronomia dell’epoca. Una delle osservazioni più interessanti è quella che egli fa a proposito della commedia romantica Cimbelino . Riferendosi in particolare a una strana scena, altamente simbolica, dell’ultimo atto del dramma, dove il protagonista vede in sogno gli spiriti dei quattro membri defunti della sua famiglia aleggiare intorno a sé dormiente, si chiede se i quattro spiriti che gli volano intorno non possano essere un riflesso, magari inconsapevole, delle quattro lune che ruotano intorno al pianeta Giove, lune appassionatamente studiate e descritte da Galileo. Per fare una tale affermazione, l’autore cita, ovviamente, un certo numero di testimonianze sulle quali non possiamo soffermarci, ma basti dire che il dio Giove figura effettivamente nella commedia in questione, ed è l’unica volta che questi compare in un’opera di Shakespeare.
Possiamo concludere con una citazione dallo stesso dramma. Iachimo, gentiluomo italiano, dice, rivolgendosi alla figlia di Cimbelino: «Grazie,/ bellissima signora. Ma sono forse pazzi gli uomini?/ Dalla natura hanno avuto gli occhi per contemplare/ la volta celeste e l’inesauribile ricchezza/ della terra e del mare, per distinguere/ i globi di fuoco lassù dalle pietre indistinte/ sparse lungo le spiagge, e non riescono/ con lenti tanto perfette a distinguere/ il bello dal brutto?». O il bene dal male. Parecchi decenni più tardi Maria Mitchell, una pioniera dell’astronomia moderna, ebbe a dire: «C’è un particolare bisogno d’immaginazione nella scienza. Non è tutta matematica, né tutta logica, ma è piuttosto un’esperienza di bellezza e di poesia».

INTERNATIONAL ORGANIZATION FOR MIGRATION
THE MISSING MIGRANTS PROJECT
www.missingmigrants.iom.int

Corriere La Lettura 6.3.16
Non sanno il nostro nome E ci chiamano migranti
di Antonio Dikele Distefano


Tra tutte quelle persone che fuggivano dalla miseria c’ero anch’io.
Nei nostri occhi da emarginati c’era tutto ciò che il nostro destino ci obbligava a rivelare. Avevamo addosso l’odore dei poveri, tasche vuote e lo sconforto di chi ha visto le proprie fantasie ritornare tristi.
In Mali ho lasciato mia moglie e i miei figli, perché dove sono nato io provvedere alla famiglia è una responsabilità degli uomini e in paese non c’erano occasioni, non c’era nulla che mi avrebbe permesso di aiutare le persone che amavo.
Quando le dissi che sarei partito, lei sorrise in modo diverso e con debole protesta provò a convincermi a non andare. Mi chiese di restare, disse che i soldi li avremmo trovati, che aveva paura. I conoscenti raccontavano storie, qualcuno aveva perso un parente durante il viaggio verso l’Europa, altri vivevano meglio perché avevano chi era riuscito ad arrivare dall’altra parte del Mediterraneo e mandava soldi a casa. Mi scosse con furia la sera prima della partenza, mi ribadì che non ero obbligato a farlo, mentre io, mentendo con il sorriso di chi la sa lunga, le dicevo che sarei tornato il prima possibile, che se non avessi avuto certezze non sarei partito.
Salii su un pullman per il Burkina Faso una mattina di giugno, con 1.600 franchi e poche cose, che non mi sarebbero servite per il viaggio ma a ricordarmi da dove venivo. C’erano le foto dei miei figli, di lei, di mia madre e le mie sorelle. Non avevo foto con mio padre, lui lavorava sempre e io ero cresciuto con la sensazione che avrei fatto la sua stessa fine.
La prima tappa mi illuse perché fu semplice, pagammo al confine, attraversammo il Sahel e arrivammo a Ouagadougou dopo nove ore di viaggio. Molti avevano solo i vestiti che indossavano e la paura che ai posti di blocco ci avrebbero chiesto altri soldi. Ogni volta che ci fermavano i militari, ci dicevano con tono minaccioso che per passare bisognava pagare e che se non l’avessimo fatto non ci avrebbero restituito il passaporto.
In Niger conobbi Matar, un ragazzo del Mali come me. Avevamo fatto una parte della tratta assieme e diventammo amici una sera che m’invitò a cenare con lui. Un pugno di riso, un po’ di patate e qualche cipolla soffritta. Mangiavamo con le mani da un piatto al centro del tavolo fuori da un bar che restava aperto tutta la notte. Matar si scioglieva in sorrisi doppi d’intensità quando cercava di ricordare i motivi che l’avevano spinto ad «andare a morire in Europa». Diceva proprio così, mentre con estrema cura accendeva la sua unica sigaretta.
Chiesero a tutti noi altri 800 franchi per lasciarci raggiungere il confine con la Libia, ci caricarono su un pick-up. Eravamo in tanti, non parlava quasi nessuno, e chi lo faceva teneva gli occhi bassi. Al confine l’autista ci consegnò ad altre persone che ci fecero attraversare il deserto fino alla città libica di Zuwara dove restammo cinque giorni sulla spiaggia, in attesa che qualcuno dell’organizzazione si facesse vivo.
Ripartimmo il sesto giorno, eravamo almeno in 400. C’erano anche donne e bambini. Il barcone era condotto da quattro «soggetti», due ci controllavano, uno era al timone e l’altro al motore. Prima di imbarcarci ci tolsero tutto, i soldi, i pochi gioielli e i vestiti negli zaini. Eravamo ammassati uno sull’altro, i bambini piangevano e chi chiedeva di uscire dalla stiva per prendere un po’ d’aria non veniva ascoltato. Chi creava problemi veniva picchiato, però molti insistevano lo stesso, volevano uscire all’aperto, bere un po’ d’acqua, ma non era possibile, eravamo in troppi. Il peschereccio imbarcava acqua, navigammo in quelle condizioni per giorni. Persi la cognizione del tempo su quel barcone: senza cibo né acqua, senza ripari dalla pioggia e dal freddo.
Finimmo in mare dopo una tempesta. Ci eravamo spostati tutti su un fianco del peschereccio per paura e quello si era ribaltato. A bordo non c’erano giubbotti di salvataggio, solo urla. I ragazzi che non sapevano nuotare, tra cui Matar, colavano velocemente a picco ingoiati dal Mare. L’acqua era gelida, molti, nonostante muovessero le braccia, non resistevano e venivano inghiottiti dal Mediterraneo. In quel momento non pensavo al fatto che potevo morire, ma a mia moglie e ai miei figli, alle promesse che avevo fatto e all’infinità di parole che avevo usato per rassicurarli. Il mare sembrava non finire più, non c’era terra. Trovai un resto del barcone e cercai con tutto me stesso di tenermi a galla, qualcuno fece lo stesso, altri due si contesero un pezzo di legno ma alla fine andarono giù entrambi.
Esattamente un anno fa ho messo piede per la prima volta in Italia grazie a quegli uomini vestiti di rosso che mi hanno teso un salvagente e mi hanno tirato fuori dall’acqua.
Qui non ho trovato tutto quello che ho promesso a mia moglie. Questo posto non assomiglia minimamente a tutto quello che mi è stato raccontato da mio padre.
In Italia ci chiamano migranti, come se questo servisse a far tacere il dolore e a rendere l’immagine di una strage una cosa ordinaria, di passaggio. Ci chiamano migranti, come se non avessimo un nome, un volto, come se non avessimo una storia. Ci chiamano migranti perché è meglio che restiamo a casa nostra, che moriamo nelle nostre terre, e non nel loro mare che chiamano «Nostrum». Ci chiamano migranti, come se fossimo una categoria e non persone, come se non fosse morto nessuno d’importante, nessuno che ha una famiglia. Loro si sono chiamati coloni, turisti, esploratori quando nelle nostre terre hanno portato il malessere che oggi ci costringe a fuggire. Ci chiamano migranti, per ricordarci che al mondo ci siamo noi e loro. Loro che hanno una famiglia, una casa, che se muoiono finiscono sui giornali con il loro nome, loro che hanno tutto e non provano vergogna. Ci chiamano migranti. Noi che non siamo niente, che non siamo gli ultimi e nemmeno i primi.
Perché i primi partivano da qui, dall’Italia, e avevano il volto dei loro nonni, gli occhi dei loro parenti, le valigie dei loro amici di famiglia. E la speranza dei migranti.

Corriere La Lettura 6.3.16
Accoglienza , l’arma segreta di Roma
Antichità La capacità di espansione dell’Urbe non derivava da una vocazione militarista esasperata, ma dalla tendenza a integrare genti diverse. Latini, Etruschi, Campani, Umbri e Sabini vennero ammessi nel Senato e stabilirono legami solidissimi con la Repubblica
di Giovanni Brizzi


Wolfgang Blösel scopre le carte dall’inizio del libro Roma: l’età repubblicana (Einaudi), quando proclama che lo scopo è «chiarire la travolgente espansione di Roma da città-Stato italica a impero mondiale, e la pressoché insaziabile brama di conquista dei Romani», attraverso il loro esasperato militarismo; e in questa tesi preconcetta, che lo accompagna a lungo, sta probabilmente il limite principale del suo lavoro.
Molti degli argomenti addotti dall’autore per comprovare un vincolo addirittura genetico tra la nobilitas romana e la guerra appaiono, in verità, piuttosto fragili; a cominciare dall’importanza data al trionfo, che, viceversa, fu in origine una cerimonia di purificazione per il sangue versato. Ma ove anche davvero così fosse, qual era, in principio, l’identità dell’aristocrazia romana? La Città ebbe da subito (e lo stesso Blösel lo ammette) una natura «meticcia», come dimostra il carattere «etnico» (o non piuttosto linguistico? Ma fa lo stesso…) delle cosiddette tribù genetiche, i Ramnes , i Tities e i Luceres ; e un vasto insieme di tradizioni — dall’ asylum romuleo alla scelta del figlio di Demarato di Corinto, il futuro Tarquinio Prisco, il quale si trasferisce a Roma in cerca delle opportunità che la nuova patria gli offre — parla di una capacità precoce di accogliere gruppi di immigrati; e non solo mercanti o artigiani, ma membri delle élites italiche.
Ora, a meno di ipotizzare l’azione di germi nocivi nell’aria stessa dei sette colli, quello verso la guerra doveva essere un atteggiamento largamente condiviso da una parte assai vasta dell’aristocrazia italica, ben oltre i confini dell’Urbe (a cominciare da quei fondamenti etici che poggiavano sulla fides , un valore purtroppo totalmente ignorato da Blösel…). Al contrario, tipica in particolare di Roma è proprio la capacità di assimilare, assorbendo dapprima intere gentes come i Claudii poi soprattutto singoli individui, entrati spesso (quei Decii campani, ad esempio, che alla battaglia del Veseri comandano le legioni contro la stessa Capua; o quei Volumnii che danno un console a Roma mentre la loro Perugia è leader degli Etruschi schierati con Sanniti e Galli a Sentino contro l’Urbe) a far parte del Senato prima ancora che le loro comunità vengano assorbite; e che a questo assorbimento per lo più attivamente collaborano.
Così la res publica viene dapprima sconfitta spesso sul campo, sia in singoli scontri (dai Volsci e dai Galli, da Pirro e da Annibale), sia in vere guerre (da Porsenna e, a mio avviso, dai Sanniti alle Forche Caudine…); ma trionfa poi sistematicamente in virtù di strutture lato sensu politiche, in particolare grazie ai solidissimi legami che uniscono un Senato composto in larga parte di Latini ed Etruschi, di Campani, Umbri, Sabini alle gentes d’origine, le quali, di fatto in suo nome, controllano le loro comunità attraverso meccanismi come quello infine del municipium o della civitas sine suffragio (quanta maggiore attenzione, a proposito, andrebbe dedicata a questa seconda struttura!).
Nel conquistare e assorbire la «prima Italia», quella tirrenica, i rapporti personali, l’ amicitia , l’ hospitium e soprattutto il matrimonio tra aristocratici contano così almeno quanto la spada. Ma anche nei confronti della «seconda Italia», quella appenninica, occorre chiedersi, con Sherwin-White, se davvero sia stata Rome the aggressor . O non siano state invece le genti montanare, sia pure perché spinte dal bisogno e dall’esuberanza demografica, a premere in direzione delle coste (anche di quelle ioniche: certe reazioni di Taranto parlano da sole…), scendendo verso il mare prima con la prassi delle migrazioni legate alle «primavere sacre», poi con vere operazioni di conquista; che finirono per rinsaldare i legami con Roma delle comunità tirreniche minacciate.
Costantemente guidato dall’ottica prescelta, Blösel pone poi sotto lo stesso segno ogni fase dell’espansione oltremare, a cominciare dalle guerre puniche per cui, sulla scorta di Zimmermann, ritiene di poter smascherare «i Romani come responsabili di tutte e tre le guerre»; ignorando però dettagli essenziali, come gli attacchi punici contro i mercatores italici durante la rivolta dei mercenari o la data di costruzione del porto di Cartagine, indizio, alla metà del II secolo a.C., di un ben preciso programma di riarmo navale; alterandone altri, come la data della symmachia , l’alleanza militare, tra Roma e Sagunto.
Molto ci sarebbe ancora da dire. Un accenno almeno va tuttavia riservato a una bibliografia quasi per intero in lingua tedesca, con concessioni sporadiche all’inglese, richiami quasi inesistenti agli autori francesi e soprattutto agli italiani; e se è deplorevole l’assenza di voci come ad esempio quelle di Humbert o di Lancel (e non si può citare Hinard per le proscrizioni dimenticando poi i suoi studi su Silla…), è inconcepibile trattare le origini di Roma dimenticando Pallottino o Torelli, la dialettica sull’imperialismo trascurando Zecchini, la nozione di Italia ignorando Giardina.
In conclusione, il libro ha pagine talvolta belle, talvolta esaurienti e persino acute; là dove, per esempio, illustra con dovizia di particolari e insieme con chiarezza alcune istituzioni dell’Urbe o coglie nella disaffezione della nobilitas verso gli allori bellici, «in disuso presso la gioventù» come dice Cicerone, una, se non la principale, causa della crisi della Repubblica. Ma gli nuoce un’impostazione che ha il gusto rétro di certa produzione degli anni Settanta del secolo scorso.

Corriere La Lettura 6.3.16
La Schengen di Caracalla Cittadini sì, ma non tutti uguali
L’editto imperiale del 212 d.C. viene presentato come la realizzazione di un ideale cosmopolita di fratellanza universale. Ma non stabiliva una forma di parità generalizzata
in fatto di diritti. Restavano le differenze
di status e notevoli limitazioni alla mobilità, per esempio tra la campagna e i centri urbani
di Livia Capponi

qui

Corriere La Lettura 6.3.16
Mezz’ora di Bach per 13 euro e 6 centesimi
Uno dei migliori violinisti d’Italia suona in una stazione del metrò: su 1.760 passanti si fermano in 11. Siamo sordi alla bellezza?
«La Lettura» ha chiesto a Carlo Maria Parazzoli di interpretare l’Adagio e la Fuga dalla prima Sonata per osservare le reazioni
di Federico Fubini


Irrigidito nel gelo del primo mattino, ha sceso passo dopo passo le scale fino al tunnel del metrò sotto via Lepanto. Portava una barba folta, capelli un po’ lunghi sulla fronte, era senza cappotto anche se il termometro segnava esattamente zero. Tutto ciò che aveva con sé quell’uomo era un grosso pullover grigio, guanti di lana mozzati all’altezza delle dita e un astuccio di pelle ammaccata fra le mani. Le quattro addette della biglietteria della metropolitana lo hanno visto fermarsi proprio davanti al loro sportello e aprire la sua scatola con cura. Ne ha tirato fuori un violino. Ha poggiato il contenitore sul pavimento di linoleum nero, ha sparso con metodo quattro monete d’incoraggiamento sul velluto rosso della fodera. Ed è a quel punto che ha iniziato.
Se conoscete l’ Adagio e la Fuga della prima Sonata per violino di Johann Sebastian Bach, sapete di che cosa si tratta. Ti lacera il corpo e ti strappa via l’anima con una precisione matematica, te la porta allo scoperto e tu non puoi farci niente. È anche una delle pagine per violino più difficili mai scritte (1720), così innovativa e sconcertante che Bach morì trent’anni dopo senza che nessun editore si fosse mai arrischiato a pubblicarla. Un secolo e mezzo più tardi, Johannes Brahms non osò comprare il manoscritto originale che gli veniva offerto perché dubitava che fosse autentico. Sono meno di dieci minuti di musica ma si portano dietro un’ombra d’incredulità fin dal primo momento.
Questa è la composizione, e questi il tempo e il luogo: la fermata Lepanto sulla linea A della metro di Roma, lunedì 18 gennaio. E quest’articolo è un puro e semplice plagio, è bene dirlo subito. Nel 2008 Gene Weingarten del «Washington Post» vinse il primo dei suoi due premi Pulitzer per le feature , le storie più lunghe, con un testo che mise alla prova un migliaio di passanti del metrò della capitale degli Stati Uniti e la dignità di uno dei grandi maestri di questo secolo. Joshua Bell, ciò che di più vicino a una rockstar esista nel mondo del violino, aveva accettato d’improvvisarsi musicista di strada nel centro di Washington un mattino presto all’ora di punta. Per 43 minuti aveva suonato la Ciaccona di Bach e altri 5 pezzi, raccogliendo 32 dollari e spiccioli da 27 persone; quel giorno nessuno lo riconobbe e un solo passante adulto si fermò ad ascoltarlo. Per 9 minuti.
Anche in questo lunedì di gennaio l’uomo che raccoglie qualche moneta agitandosi contro la parete del metrò è famoso, nel resto della sua vita. È un interprete solido e raffinato, fra i più grandi d’Italia. Carlo Maria Parazzoli, 51 anni, da poco meno di venti primo violino solista dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia. In carriera si è esibito con i più celebri direttori e nelle migliori sale del mondo. Ha suonato musica da camera con Lang Lang, Martha Argerich, con il mitico direttore e pianista Wolfgang Sawallisch. Quando c’è lui l’incasso medio di una serata all’Auditorium della capitale è di alcune decine di migliaia di euro, un buon posto ne costa circa 50 e non sarà mai situato così vicino alla fonte del suono come in questo corridoio a Lepanto.
Ma il pubblico nei teatri conosce un codice non scritto, che detta concentrazione e silenzio in momenti dati. Il mondo di Parazzoli è questo. E ciò che segue è il risultato della fredda mattinata di gennaio. Il maestro ha suonato 30 minuti (dalle 8.04 alle 8.34), davanti a lui sono passate 1.760 persone, nessuno l’ha riconosciuto, in 11 hanno offerto qualcosa, in 4 gli hanno rivolto uno sguardo aperto e sostenuto per almeno qualche secondo e quelle 4 persone avevano tutte lo stesso profilo demografico: frequentano invariabilmente la scuola materna o le prime classi delle elementari, hanno fra i 4 e i 6 anni di età.
Dopo la performance, scaldandosi in un bar, Parazzoli prenderà atto che la distinta dei ricavi presenta 2 monete da 2 euro, 6 da uno, 3 da 50 centesimi, 5 da 20, 3 da 10, 5 da 5 centesimi e una da un cent. Qualcuno deve averne approfittato per svuotarsi le tasche. In tutto fanno 13 euro e 6 cent. In uno dei grandi quartieri borghesi di Roma, dove le persone che usano il metrò vengono da case piene di libri e si affrettano verso uffici — spesso pubblici — di un qualche prestigio, lo 0,63% dei passanti ha scelto di fare un’offerta per l’ Adagio e la Fuga di Bach interpretati da Parazzoli. In un quartiere paragonabile di Washington, Joshua Bell aveva raccolto contributi dal 2,4% di quelli che l’hanno incrociato.
Non è un atto d’accusa. Piuttosto questo è un test su come lavorano i muri che chiudono la nostra mente e quei binari invisibili che ci guidano sempre verso una direzione data, anche quando ai lati appaiono panorami stupefacenti. È un modo di riflettere sulla bellezza e sulla sottigliezza che ci sfuggono tutti i giorni, semplicemente perché non pensiamo che debbano essere qui. Non ora, non in questo luogo. Convinti di essere nel pieno delle nostre facoltà, obbediamo al contesto anziché ai nostri sensi. Confondiamo il valore con il prezzo, prendiamo il secondo come misura esclusiva del primo. Alcuni studi mostrano che, alla cieca, spesso tendiamo ad apprezzare vini meno cari ma improvvisamente preferiamo i più costosi non appena qualcuno ci informa su quanto siano stati pagati. L’aver speso per un prodotto acuisce la nostra mente e ne affina la percezione.
Sapere è tutto. Ragguagliate di ciò che sta realmente accadendo, le quattro addette della biglietteria si alzano in piedi dietro il vetro dello sportello non appena Parazzoli accenna le prime note. Non riescono più a lavorare, ascoltano incantate. Ma quando poco dopo arriva un treno e un’ondata di gente si rovescia fuori dai tornelli, nessuno degna quell’uomo in golf grigio di uno sguardo. Lo fa solo una bambina in una giacca a vento bianca, cercando di mimare i gesti del maestro al violino ma la madre non rallenta e anche la piccola sgambetta via.
È in quel momento che arriva il direttore della stazione Lepanto. Nervoso, chiede al maestro di mostrargli l’autorizzazione per quella performance. Bastano un pezzo di carta, un timbro. Non ne ha. «Cerchi almeno di abbassare il volume», fa lui. Il direttore sparisce per qualche minuto, torna per un nuovo tentativo di cacciare Parazzoli e alla fine si arrende: «Vabbè, dirò che ero in bagno. Ma lei alle 8.30 se ne vada». Solo le donne si avvicinano per lasciare dei soldi, gli uomini mai. Ma anche quelle sfuggono con gli occhi. Depositano le monete sulla fodera rossa — non le gettano, per rispetto — e si dileguano senza guardare il musicista. La loro pietà viaggia sempre mista al fastidio. «Anche se al mio posto ci fosse stata una tela originale di van Gogh, nessuno si sarebbe fermato. Non ci avrebbero creduto. Abbiamo sempre paura che i nostri piani di giornata siano sconvolti», dirà Parazzoli più tardi. Ma non per tutte è così. Alberta Milone, un avvocato di 47 anni, nel tempo libero suona il liuto rinascimentale e quella mattina sente subito qualcosa di speciale in quel suono. Lascia due euro. «Ho capito che non era una persona qualunque, perché non mi ha ringraziata».
Era il primo violino di Santa Cecilia, avvocato.
«Wow. È stato un momento intenso», razionalizza.
In cima alle scale della metro Elvio Tiburzi, 61 anni, impiegato alla Corte dei conti, aspetta la collega Gigliola Caratelli per avviarsi con lei verso l’ufficio. Tiburzi da ragazzo ha abbandonato gli studi di musica prima del diploma perché era diventato padre molto presto. «Poi ho suonato un po’ nei piano bar, ma sono di formazione classica. Mia figlia si è diplomata e ora suona quando la chiamano», dice con un orgoglio controllato.
Quel mattino Tiburzi non resiste, scende le scale della metro per controllare da dove viene quel canto di violino. Vede Caratelli, la collega della Corte dei conti, che ha appena lasciato una moneta («volevo mostrare che qualcuno capiva cosa stava accadendo»). Tiburzi si ferma, assorbe ancora un istante di quella musica sublime, poi un dubbio lo blocca. «Suonava troppo bene — ricorda — allora ho pensato: mi sa che è un esperimento». E i due colleghi si sono affrettati verso la Corte dei conti.

Repubblica Cult 6.3.16
La rivoluzione mancata di Copernico
di Piergiorgio Odifreddi


La scorsa settimana abbiamo ricordato che il 26 febbraio 1616 il cardinal Bellarmino ingiunse a Galileo di «abbandonare del tutto la dottrina che il Sole è al centro del mondo». Ma questa ingiunzione mostrava che l’Inquisizione non ce l’aveva con lo scienziato, bensì con la teoria da lui professata.
Questa teoria però non era di Galileo, ma di un polacco laureato in diritto canonico di nome Niccolò Copernico. E non era nuova, ma vecchia di cent’anni, essendo stata fatta circolare nel 1514 in un Commentariolo, e pubblicata nel 1543 nel trattato Sulle rivoluzioni dei corpi celesti, dedicato al papa Paolo III. L’opera era sopravvissuta senza traumi anche perché la sua anonima prefazione dichiarava diplomaticamente che la rivoluzionaria teoria eliocentrica non era «né vera, né verosimile», e costituiva solo una finzione matematica utile per descrivere i fenomeni celesti. Ma dopo il can can sollevato da Galileo l’In-quisizione non poteva più fare finta di niente, e il 5 marzo 1616 anche il trattato di Copernico finì all’indice.
Ci rimase fino al 1758, quando ormai l’intera comunità scientifica aveva adottato l’eliocentrismo, che il Sant’Uffizio permise di insegnare solo nel 1820. Ma solo nel 1990 una commissione pontificia ha ufficialmente chiuso la vicenda, accettando l’evidenza che fin dagli inizi la teoria eliocentrica era chiara come la luce del Sole.

Repubblica Cult 6.3.16
Il sonno della ragione non genera sempre mostri
di Francesca Bolino


Pensavate di sapere tutto sui sogni e invece non è così. È passato più di un secolo da L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud, decenni in cui gli scienziati hanno raccolto elementi classificati in gigantesche banche dati, alimentate dagli studi sul cervello. Grazie alle neuroscienze è ora possibile indagare i nostri meccanismi più segreti con una precisione nemmeno immaginabile ai tempi di Freud. Il risultato di tutto questo lavoro è che i sogni sono molto di più dell’espressione dei desideri inconsci, sono «una chiave per risolvere l’enigma della nostra coscienza: essi ci permettono di riconoscere in che modo il nostro cervello produce quella che noi percepiamo come realtà». Stefan Klein, tra i più noti saggisti scientifici tedeschi, affronta col passo del narratore uno dei grandi enigmi dell’umanità alla luce dei nuovi metodi di ricerca sul cervello: oggi non è più fantascienza leggere direttamente i sogni di un soggetto mentre dorme, i segnali che uno scanner riceve dalla mente di una persona addormentata rivelano esattamente ciò che essa sta sperimentando. Mentre sogniamo, le nostre capacità si ampliano e il nostro cervello cambia. E la nostra personalità si sviluppa e muta. In altre parole, il sonno ha più potere su di noi di quanto abitualmente immaginiamo. Noi ci sentiamo in pieno possesso delle nostre forze mentali quando siamo svegli, e solo allora pensiamo di percepire la realtà così com’è, mentre riteniamo il sonno uno stato subordinato, una porzione di tempo sottratta alla vita attiva. Perciò guardiamo i sogni con sospetto e diffidenza: un’immagine deformata della realtà. In realtà il sonno non è una pausa di riposo, ma una conseguenza di stati molto vari, nei quali il cervello riordina le tracce del passato, acquisisce conoscenza e si prepara alla giornata. Nel cervello tutto è in movimento e quasi tutto è collegato con tutto: senza la possibilità di sognare noi non potremmo esistere.
I SOGNI di Stefan Klein BOLLATI BORINGHIERI TRADUZIONE DI L. SOSIO PAGG. 238, EURO 22

Il Sole Domenica 6.3.16
Friedrich Nietzsche (1844-1900)
L’arte di dire sì alla vita
La morte di Dio e l’«eterno ritorno» riletti alla luce di una nuova accurata edizione della «Gaia scienza»
di Remo Bodei


Diceva Karl Kraus che «l’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo». Gli aforismi che Nietzsche presenta ne La gaia scienza (prima edizione 1882, seconda, con importanti aggiunte, del 1887), a parte quelli invischiati in polemiche contingenti, sono per lo più delle verità e mezzo.
La nuova traduzione di Carlo Gentili innova rispetto a quelle già eccellenti di Ferruccio Masini (Adelphi 1965) e di Sossio Giametta (Rizzoli 2000) ed è, soprattutto, dotata di un’ampia introduzione e di un capillare e filologicamente rigoroso commento ai testi. Si avvale, inoltre, di alcuni accorgimenti grafici – come il maggior rispetto della punteggiatura e dei trattini di sospensione – che permettono di separare meglio le citazioni dalle parole di Nietzsche.
In questa «opera laboratorio», che contiene in sé altre opere fondamentali (come Zarathustra e Al di là del bene e del male), i componimenti poetici «Scherzo, malizia e vendetta» e le Canzoni del principe Vogelfrei aprono e chiudono le raccolte di aforismi. Alla maniera dei troubadours provenzali da lui ammirati – lo si vede già dal titolo del libro e dalla scintillante poesia finale Al Mistral – la gioia, e non la seriosità, deve per Nietzsche caratterizzare la scienza: «Libera – sia chiamata l’arte nostra / Gaia – la nostra scienza! // […] Come trovatori danziamo / Tra santi e puttane, / Tra Dio e il mondo la nostra danza!».
Fra le varie questioni dibattute in questo volume, ne seleziono solo due, quelle che hanno avuto storicamente e teoricamente il peso maggiore: la prima, relativa alla morte di Dio (si veda, soprattutto, l’aforisma 125) e la seconda, che contiene in nuce la dottrina dell’eterno ritorno (l’aforisma 341).
L’affermazione di Nietzsche «Dio è morto e noi l’abbiamo ucciso» – significativamente messa in bocca all’«uomo folle» - non va intesa come un grido di giubilo. Tale morte annunciata del Creatore e signore dell’universo, del Garante di quei valori morali assoluti e indiscutibili che hanno orientato per millenni le azioni visibili e i pensieri e i desideri invisibili degli uomini, lascia un vuoto difficilmente colmabile, scaricando su di loro la tremenda responsabilità di dare senso a un mondo privo di stabili e credibili punti di riferimento. Eppure, come mostra opportunamente Gentili, l’annuncio del fatto che Dio è morto non è di per sé scandaloso per gli ascoltatori dell’«uomo folle». Il suo uditorio è, infatti, costituito da una folla di non credenti che a tale comunicazione scoppiano in «una grossa risata». In maniera più o meno consapevole, gli “europei” questo lo sanno già. Ciò che ignorano è l’«ombra», la “traccia” che, scomparendo, Dio ha lasciato, vale a dire le premesse nascoste della fede in lui, che ora vengono erose e vacillano nella coscienza e nella scienza degli uomini. Capita al Dio cristiano quel che è accaduto a Buddha: «Dopo che Buddha fu morto, si continuò a indicare per secoli la sua ombra in una caverna, – un’immensa, orribile ombra. Dio è morto: ma, data la natura degli uomini, vi saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si indicherà la sua ombra. – E a noi – a noi resta da vincere anche la sua ombra!».
Certo, ai filosofi e agli «uomini liberi» la morte di Dio appare come la fine delle tenebre (»ci sentiamo illuminati dai raggi di una nuova aurora»). E, tuttavia, anche loro si rendono conto che «un qualche sole è tramontato, che una qualche antica e profonda fiducia sia stata rovesciata in dubbio». Per gli altri uomini l’impresa compiuta da loro stessi compiuta nell’uccidere Dio non è ancora entrata nelle «orecchie», perché non si sono accorti dell’enormità del loro atto. Le sue conseguenze si vedranno solo in seguito, quando un nuovo «oscuramento» colpirà l’Europa, disorientando i propri abitanti, ormai privi dei valori tradizionali e ancora incapaci di sostituirli con dei nuovi.
Leggiamo – o rileggiamo – con calma parte dell’aforisma 341 (che preannuncia l’idea dell’eterno ritorno, più diffusamente elaborata nello Zarathustra e nei Frammenti postumi), anche per assaporare la prosa di Nietzsche nell’efficace traduzione di Gentili. L’argomentazione utilizzata è, significativamente, al condizionale: «Come sarebbe se, un giorno o una notte, un demone s’insinuasse di soppiatto nella tua solitudine e ti dicesse: ’Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla almeno una volta e ancora innumerevoli volte; e non vi sarà in ciò nulla di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro e tutto l’indicibilmente piccolo e l’indicibilmente grande della tua vita deve fare ritorno a te, e tutto nella sequenza e successione – e altrettanto questo ragno e questo chiaro di luna tra gli alberi, e altrettanto quest’attimo e io stesso’ […] Se questo pensiero ti prendesse in suo potere produrrebbe in te, quale tu sei, una trasfigurazione e forse ti annienterebbe […]».
Da notare come l’esperienza dell’eterno ritorno abbia in Nietzsche un carattere inquietante e quasi sinistro e conservi il sapore di un ricordo infantile, di un déjà vu. Lo si può costatare in un passo dello Zarathustra, anche questo da gustare e perciò degno di una citazione abbastanza estesa: «E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna, e persino questo chiaro di luna, e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti – non dobbiamo tutti essere stati un’altra volta? – e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via – non dobbiamo ritornare in eterno? […] E improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? E il mio pensiero corse all’indietro. Sì! Quando ero bambino, in infanzia remota: – allora udii un cane ululare così. E lo vidi anche, il pelo irto, la testa all’insù, tremebondo, nel più profondo silenzio di mezzanotte, quando i cani credono agli spettri: – tanto che ne ebbi pietà. Proprio allora la luna piena, in un silenzio di morte, saliva sulla casa, proprio allora si era fermata, una sfera incandescente, – tacita sul tetto piatto, come su roba altrui […]».
Contrariamente a quanto si può supporre, l’idea dell’eterno ritorno non possiede un significato cosmologico, non si riferisce – alla maniera dei pitagorici e degli stoici – all’esatto ripresentarsi dei medesimi eventi, ma costituisce invece uno strumento per selezionare gli uomini, distinguendo chi accetta la decisione suprema di assumersi «il peso più grande» e chi la respinge. Anche se questo pensiero fosse falso, una volta assimilato, sarebbe in grado di dare agli eventi un senso diverso, di plasmare le convinzioni o le azioni di ciascuno. Volere l’eterno ritorno significa, infatti, determinare il corso della propria vita, così come accade nel cristianesimo, dove la prospettiva della dannazione o della salvezza eterne dirige i comportamenti effettivi in questo mondo. Per Nietzsche, a differenza della fede cristiana nell’al di là, la decisione di sopportare lo spostamento del centro di gravità dal paradiso o dall’inferno all’eterno ritorno terreno è dovuta alla convinzione che quest’ultimo aiuta a sviluppare maggiormente la vita (anche se, per certi aspetti, rappresenta una condanna), mentre il cristianesimo la deprime.
Friedrich Nietzsche, La gaia scienza , a cura di Carlo Gentili, Einaudi, Torino, pagg. 341, € 25

Il Sole Domenica 6.3.16
Chimica di Neanderthal
E l’uomo accese il fuoco
di Gianni Fochi


Sarà l’ennesimo Oopart (Out Of Place Artifact, manufatto nel posto sbagliato)? Come la millantata pila elettrica di Baghdad, risalente al secondo secolo a.C., o il cosiddetto astronauta dipinto dai Maya circa 1.300 anni fa, ai quali Silvano Fuso, nel libro La falsa scienza (Carocci), toglie spietatamente ogni alone di mistero.
Invece la segnalazione arriva dalla Royal Society of Chemistry, l’antica e autorevole società chimica britannica, che rilancia una notizia della rivista Scientific Reports del gruppo editoriale Nature. In Olanda sei ricercatori dell’università di Leida e del politecnico di Delft lanciano l’ipotesi che l’uomo di Neanderthal, circa cinquantamila anni fa, preparasse un accendi-fuoco basato su una reazione chimica tutt’altro che banale.
Negli scavi di Pech-de-l’Azé in Dordogna (nel sud-ovest della Francia) sono stati trovati, in prossimità di focolari, blocchetti lavorati neri di pirolusite, minerale composto da biossido di manganese, attribuibili a poco prima della fine del paleolitico medio. Altri ossidi di manganese sono stati portati alla luce nello stesso sito, e s’è sempre pensato che nell’insieme servissero come pigmento, per decorazioni rupestri o della pelle. Ora però il gruppo olandese, dopo aver fatto analisi con tecniche strumentali raffinate e aver tentato con successo un esperimento, ritiene probabile che la pirolusite avesse uno scopo particolare e inaspettato.
Prima di lasciarsi andare all’entusiasmo, è bene ricordare che Scientific Reports pubblica moltissimi articoli e lo fa dietro pagamento da parte degli autori. Non è una rivista particolarmente selettiva, insomma, sebbene segua comunque la regola del peer review, l’esame da parte di specialisti. Senza voler mettere in dubbio la serietà metodologica della ricerca olandese, è bene accogliere l’ipotesi appunto come ipotesi: molto interessante, ma da corroborare con altri indizi.
Di certo c’è che il biossido di manganese abbassa parecchio la temperatura necessaria per accendere un fuoco, e d’altra parte l’industria dei Neanderthal presuppone che essi il fuoco sapessero controllarlo abbastanza bene, senza limitarsi a disporne solo in seguito a incendi spontanei. Se l’ipotesi fosse vera, saremmo davanti al più antico uso deliberato d’un reagente chimico: nei manuali di chimica per le scuole non sarà male raffigurare il primo chimico con le fattezze e l’abbigliamento d’un Neanderthal.

Il Sole Domenica 6.3.16
il lungo viaggio di homo sapiens
Migranti da sempre per natura
di Giuseppe D’Alessio


Ho assegnato al mio nipotino un compito facile. Di registrare che succede se racchiude nel terreno umido di un vasetto qualche seme di fagioli. Quando torna, dopo pochi giorni, commenta che i semi di fagiolo sono scomparsi e riemersi come un grumo di verde. È un germoglio, gli dico.
Ma il bambino ha perso interesse; grida: «Nonno le barche!», affascinato dai barconi di migranti comparsi a mare, sotto casa. Sono colmi di uomini, donne, bambini, che si mantengono ritti in piedi solo perché addossati gli uni agli altri. Poi il mio bambino mi informa, demoralizzato, che tutti quelli che salgono sui barconi rischiano la vita, e molti annegano, specialmente quando il mare è grosso o quando la barca si rovescia. Sono tanti questi barconi che arrivano, e anche il traffico per via terra è molto aumentato.
Ci si chiede perché i migranti si mettono in viaggio pur sapendo tutte le avversità del viaggio: come il pericolo, oltre che di annegare, di subire violenze, privazioni, la fame nei “campi”, orribili strutture dove i migranti stazionano prima della meta, controllate da schiavisti che si arricchiscono organizzando i viaggi e sfruttando in ogni modo i migranti. Eppure, nonostante le difficoltà, spesso mortali, che i migranti incontrano, il numero di migranti che riesce a raggiungere la costa aumenta continuamente.
Hanno tutti dovuto riconoscere che il fenomeno delle migrazioni non è per niente limitato, ma di dimensioni storiche, addirittura epocali. Studi fatti in vari organismi delle Nazioni Unite hanno portato a calcolare che nel 2014 i migranti intra-nazionali, da un territorio a un altro della stessa nazione, sono stati 200 milioni, mentre il numero dei migranti inter-nazionali, trasmigrati da una nazione a un’altra, è stato molto più alto, intorno a 700 milioni. Sono state catalogate le cause delle migrazioni e si è trovato che si emigra per scoprire migliori condizioni di vita, per sfuggire alla guerra, alla propria o a quella di popoli vicini, o alle persecuzioni, religiose o politiche, o ancora si emigra per sottrarsi a minacce dell’ambiente, come le inondazioni, l’insufficienza di terra coltivabile, i terremoti.
Analizzando queste motivazioni si comprende che le cause delle migrazioni sono tutte connesse alle leggi della Biologia, in particolare alla legge della sopravvivenza. Quando una popolazione di organismi viventi entra in crisi per la scarsità di cibo, non può più garantire il mantenimento di quella specie e deve allora, ineluttabilmente, trovarvi rimedio. E la metodologia è quella: se il territorio non offre più risorse, occorre spostarsi dal territorio ormai esausto a un territorio più ricco. La conservazione della specie va in ogni modo tutelata.
Queste trasmigrazioni possono essere brevi spostamenti, ed è possibile osservarli in tanti animali, oppure sono spostamenti lunghi, che interessano solo le specie del genere Homo, il genere umano. Per questi ultimi si parla di «viaggi» quando resti fossili di un Homo pre-sapiens sono ritrovati in zone molto distanti tra loro, ad esempio nel Sud-Est d’Africa, dove si ritiene che i primi Homo siano emersi, e poi anche nell’Asia centrale.
Solo gli Homo hanno viaggiato e ancora viaggiano tanto. All’inizio erano nomadi in continuo viaggiare alla ricerca di territori ricchi di risorse e forniti di ripari dalle possibili aggressioni di carnivori. Non era difficile per un Homo spostarsi da un territorio a un altro, dato che non aveva siti propri: dormiva quando era stanco e dove si trovava; poi ha imparato a vivere in luoghi protetti come le caverne; e poi ha iniziato a costruire capanne. Infine, intorno a 10-11mila anni fa, Homo sapiens ha scoperto con l’agricoltura la necessità, e insieme il vantaggio, di rimanere anche a lungo nella stessa zona, per curare semi e raccolti, e per attendere alle necessità imposte dalla domesticazione degli animali. Così Homo sapiens, e forse anche altri Homo prima di lui, come le specie Homo habilis, Homo erectus, Homo rudolfensis, hanno abbandonato il nomadismo per risolvere i loro problemi di sopravvivenza.
La capacità di compiere viaggi lunghi è stata certamente un vantaggio per Homo, tanto che è stata fedelmente conservata per milioni di anni nella evoluzione delle specie, e soltanto nelle specie del genere umano. Ci si chiede allora se possiamo effettivamente cogliere significative differenze tra il viaggio di un somalo che fugge dalla guerra, e quello di un Homo erectus che ha migrato dal Sud-Est africano fino al centro della Cina. Semplificato in questi termini, l’evento «migrazione» può rappresentare la semplice, diretta risposta operativa di una popolazione di Homo, che deve affrontare insufficienze che urtano i principi fondamentali della biologia: sopravvivere e riprodursi.
C’è gente (e sono Homo sapiens!) che si oppone alle migrazioni: è come se volessero sottrarre alle leggi immutabili della Biologia i «viaggi» di Homo moderni. Non è possibile. Sarebbe come impedire a un seme di germogliare, anche quando ha disponibilità di terreno e di energia solare. Sono quindi fenomeni biologici i “viaggi” dei migranti di milioni di anni fa come quelli di questi ultimi secoli. Anch’essi devono obbedire al comandamento della sopravvivenza, spostandosi da un territorio esaurito a uno ricco.

Il Sole Domenica 6.3.16
Orientarsi sull’omogenitorialità
La famiglia è «culturale»
di Vittorio Lingiardi


Non siamo figli per nostra volontà. Molti sono concepiti senza essere pensati, altri sono cercati a tutti i costi, la maggior parte arriva percorrendo una delle tante strade comprese tra questi due estremi. Ogni concepimento, nascita, adozione, ha una sua storia da raccontare, più o meno consapevole, più o meno fortunata. Qual è il “vero” genitore? Quello che mette a disposizione la propria biologia o quello che cresce i figli fornendo cure e sicurezza? Quello che concepisce per caso o per sbaglio o quello che desidera e attende? E che cosa è una famiglia?
Per Natalia Ginzburg «una famiglia è anche, forse soprattutto, fatta di voci che si intrecciano, è un linguaggio comprensibile solo a chi lo pratica, una rete di ricordi e richiami». Nel 1888 (avete letto bene) Émile Durkheim, padre della sociologia, scrive: «non esiste un modo di essere e di vivere che sia il migliore di tutti [...] La famiglia di oggi non è né più né meno perfetta di quella di una volta: è diversa, perché le circostanze sono diverse».
Nonostante la storia ci mostri i continui cambiamenti di forma e contenuto della famiglia, per alcuni questa parola non evoca una costruzione relazionale di affetti e progetti tale da giustificare l’uso del plurale (famiglie), ma coincide solo con l’immagine di un uomo e di una donna sposati, monogami, eterosessuali e fertili. Tutto ciò che sta fuori da questo modello viene, implicitamente o esplicitamente, delegittimato: famiglie con genitori adottivi, madri lesbiche e padri gay, madri e padri single, famiglie create ricorrendo alle tecniche di riproduzione assistita. I ripetuti inni al “naturale” (quindi niente antibiotici e anticoncezionali?), sono evidentemente ignari di quanto “culturale” sia la nostra cangiante idea (ideale) di “natura”.
Per questo è frettolosa e transeunte, oltre che tracotante, l’affermazione del ministro Alfano per cui avere impedito a due persone dello stesso sesso («cui lo impedisce la natura») la possibilità di avere un figlio sarebbe stato «un bel regalo all’Italia». Impedire la stepchild adoption non è stato fermare «una rivoluzione contronatura e antropologica», bensì impedire a dei bambini il diritto di vedersi riconosciuta la propria famiglia. Oggi, ignorare le complessità della scena riproduttiva e delle funzioni genitoriali significa vivere fuori dalla realtà. Al cui confronto quella dei cavoli e delle cicogne è senz’altro preferibile.
Mentre il Parlamento, complice il primadonnismo cinico dei pentastellati, stralciava e spacchettava una legge umana, anche le vite di molte famiglie sono state stralciate e spacchettate. Per la legge italiana, il genitore non biologico è un estraneo e il bambino un semi-orfano. Non riconoscere che ci sono due genitori che hanno desiderato quel figlio e vorrebbero assumersi la responsabilità di crescerlo, vuol dire creare legalmente uno stato artificiale di mancanza che non corrisponde alla realtà e alle necessità di quella famiglia. Non è solo il genitore sociale a essere cancellato, ma la sua intera genealogia.
Da anni la comunità scientifica sta studiando le dimensioni affettive, psicologiche, fisiche, sociali, tecniche, legali, etiche ed economiche delle varie forme di genitorialità. Le domande sollevate sono molte e riguardano il rapporto tra desiderio di diventare genitore e ricorso alle tecniche procreative, le rappresentazioni mentali che genitori e figli hanno delle figure del donatore e della portatrice, le dinamiche tra genitore biologico e genitore sociale, le complessità psicologiche, filosofiche e giuridiche della gestazione di sostegno, la rilettura della categoria psicoanalitica dell’Edipo, magari liberandosi del complesso a favore della complessità.
Recuperando l’inevitabile ritardo nei confronti della letteratura scientifica anglosassone, ricercatrici e ricercatori italiani hanno prodotto una serie di volumi che consiglio a chiunque sia chiamato ad esprimersi sul tema delle «famiglie moderne» (che tra l’altro è il titolo di un importante volume di Susan Golombok, direttrice del Centre for Family Research dell’Università di Cambridge, che ad aprile uscirà in traduzione italiana per le edizioni Edra). Nel box pubblicato all’interno di quest’articolo un elenco di contributi italiani che mi hanno colpito per la chiarezza documentata della loro voce.
Quanto alle riviste scientifiche, è purtroppo esaurito, ma ci auguriamo verrà ristampato, il numero monografico 2/13 di Infanzia e Adolescenza (il Pensiero Scientifico) a cura di Anna Maria Speranza. Per il prossimo aprile è annunciato un numero del Giornale Italiano di Psicologia (il Mulino) interamente dedicato all’omogenitorialità. Ultima segnalazione: il sito della Colombia Law School (http://whatweknow.law.columbia.edu) raccoglie la più completa rassegna della letteratura scientifica sull’omogenitorialità: consultatelo.

Il Sole Domenica 6.3.16
Nel mondo antico
La lettura è femmina
di Dorella Cianci


Come si insegnava a leggere nel mondo antico? Come si vendevano i libri? Quali erano i termini legati alla scrittura? E che ruolo essa aveva? Di recente è stato ristampato un libro memorabile per antichisti filologi e paleografi, non facile da trovare in libreria, un celebre volume di Horst Blanck, Das Buck in der Antike tradotto in lingua italiana da Rosa Otranto nel 1998, per la collana di Luciano Canfora. La prefazione dell’edizione italiana del libro è affidata allo stesso Canfora, il quale si chiede se nel mondo antico era un fenomeno prestigioso possedere delle biblioteche piene di libri e ricorda Euripide, preso in giro dal comico Aristofane anche per questo, infatti nelle Rane era accusato di possedere un «decotto di libri». In realtà Aristofane era un comico colto e aveva letto molti autori, soprattutto i più importanti tragici del tempo. L’alfabetizzazione, nel mondo antico, è stata spesso oggetto di studio nel Novecento e, secondo Rostovtzeff, la civiltà classica, in Occidente, era crollata proprio per fattori culturali, poiché la campagna aveva sommerso le città, cioè i luoghi pieni di libri e i luoghi dove per giunta vi erano maggiori lettori. Sottolinea Canfora che anche in età più vicine a noi, ad esempio nell’Italia di metà Ottocento, verso il momento dell’unità nazionale, la massa analfabeta rasentava il 70% della popolazione, questo perché l’alfabetismo non ha mai avuto un andamento stabilmente progressivo.
È interessante guardare nel dettaglio i casi dei lettori celebri e in questo ci aiuta un libro di atti spagnoli pubblicati in Italia, a cura di Carmen Morenilla e Francesco De Martino, Palabras sabias de mujeres (Levante editori, Bari) dove si dice che i casi di lettura sono paralleli a quelli di recite a memoria. In un frammento comico si ricorda che son proprio le tragedie i pezzi forti da leggere: eppure ironicamente si racconta che Eracle preferì un libro di cucina! Dione racconta di aver letto di mattina, dopo aver fatto colazione, i tre Filottete di Eschilo, Sofocle e Euripide. Lo stesso Socrate racconta nel Fedone di Platone di aver letto un libro di Anassagora, dopo aver sentito un tale che lo leggeva e da questa lettura ne rimase deluso. Una lettura fatta in poco tempo, velocemente (e non a memoria come si potrebbe tradurre un passo di Taziano) è quella fatta dal tragico Euripide di un libro del filosofo Eraclito. Leggere libri filosofici era molto gradito. Una classifica ipotizzabile, nel mondo greco, potrebbe consegnarci questa lista: alcuni testi di Zenone, Sugli dei di Protagora, Su Eracle di Prodico e La Grande Cosmologia di Democrito. Era di moda anche leggere tutti insieme, ed è noto il party di Antimaco, il quale invitò tutti a casa per dare lettura del Lide, un lungo poema…Peccato che dopo poco la stanza si svuotò, eccezion fatta di Platone, un lettore non da poco.
La Grecia ha inventato la lettura silenziosa ben prima di Aristotele, al contrario di quanto a volte si scrive. Platone leggeva solitario, fra sé e sé, come si racconta nel Faone. Gli studi migliori su questo restano i volumi di Svenbro e di Knox. Un libro portava onore nella cultura greca quasi quanto uno scudo, in rarissimi casi anche per le donne e di questo ci informa Pausania, il quale parla di una stele che si trovava ad Argo e che raffigurava la poetessa Telesilla. Ai suoi piedi son gettati alla rinfusa dei libri, «quei suoi famosi volumi di poesia, mentre lei guarda l’elmo che ha in mano», come dice la traduzione di Domenico Musti. Non sappiamo se donne colte come Saffo sapessero leggere o scrivere in maniera precisa, però si può dire, con De Martino, che «la lettera è femmina», stando a un indovinello proposto da Antifane, che recita così: «C’è una creatura che protegge i suoi piccoli. In grembo essi non hanno voce, ma lanciano un grido sonoro che, volando sull’onda del mare se tutta la terrà, raggiunge chi vogliono i mortali, e a costoro è possibile udire anche quando sono lontani; ma il loro udito è sordo». La soluzione è questa: «La creatura femminile è la lettera, i figli sono i caratteri, pur senza voce parlano a distanza, a chi essi vogliono; e un altro che per caso si trovi accanto a quello che legge, nulla udirà».
Horst Blanck, Il libro nel mondo antico , traduzione a cura di Rosa Otranto, pref. a cura di Luciano Canfora, Dedalo edizioni, Bari, pagg.384, € 30