Il Sole Domenica 27.3.16
Galileo Galilei (1564-1642)
A Dio piacendo, o alla scienza?
di Massimo Firpo
È
a tutti ovvio che oggi l’ancor vitalissima questione galileiana non è
più una questione scientifica, non investe più la natura del cosmo, ma è
una questione storica, che investe il giudizio su ciò che allora
accadde e ciò che ne conseguì. Da questo punto di vista, a trent’anni di
distanza appaiono assai fragili le istanze apologetiche che ancora
ispiravano il volume Galileo Galilei 350 anni di storia (1633-1983),
apparso nel 1984, dove per esempio c’era ancora chi insisteva nel
denunciare «l’aggressività anticlericale» di quanti si ostinavano a non
capire «la ragione, nascosta ma profonda», della condanna di Galileo, e
cioè il fatto che egli «veniva a trovarsi troppo in avanti rispetto al
suo tempo», quasi che fosse un dovere della Chiesa combattere le più
ardite innovazioni scientifiche.
Quel volume scaturiva dai lavori
di un’apposita commissione istituita da Giovanni Paolo II, che sarebbero
infine approdati alla solenne ammissione di questo e altri errori della
Chiesa, o meglio di «alcuni uomini di Chiesa» – e «in un certo senso in
nome suo» – per i quali il pontefice volle chiedere perdono in
occasione del giubileo dell’anno 2000. Non stupisce che quella
distinzione tra la Chiesa e gli uomini di Chiesa, pur dotata di antichi
precedenti, diventasse oggetto di polemiche, sulle quali non è questa la
sede per tornare. Mi limito a osservare che tale distinzione – come ha
scritto Giovanni Miccoli – ha «come conseguenza una sorta di sottrazione
della Chiesa dalla storia» e che pertanto essa «vale e può valere solo
per coloro che partecipano della fede cattolica». Ed è qui, a mio
avviso, proprio sul terreno storico che intorno alla vicenda galileiana
si stringono i nodi più aggrovigliati, a cominciare dal cruciale
rapporto tra mutamento storico e verità teologica.
Tutto cambia,
tutto evolve nella storia, e presidiarla in nome di una verità
immutabile è un’impresa titanica, che l’odierna accelerazione della
storia stessa rende ancor più ardua. Si pensi solo alle delicate
questioni dibattute nelle settimane scorse dal Parlamento, nelle quali
si riflettono profondi mutamenti di costume, mentalità, sensibilità
individuali e collettive, peraltro in costante evoluzione, e sulle quali
è del tutto legittimo avere opinioni molto diverse, tutte meritevoli di
rispetto. Per questo mi è parso curioso che, in relazione a un punto
particolarmente controverso della legge, un autorevole uomo politico
abbia evocato i principi di un’astratta “natura”, così come gli
anticopernicani difendevano il cosmo tolemaico che appariva come una
natura tanto più certa quanto più suffragata dalla parola di Dio.
In
realtà, dovrebbe essere noto che la natura non è affatto astorica, ma è
sempre una rappresentazione, una costruzione storico-culturale, un modo
di pensarla e interpretarla. E in quanto tale anch’essa cambia, sta
mutando sotto i nostri occhi: da un lato noi stessi la cambiamo, talora
brutalmente, e dall’altro fino a ieri non sapevamo nulla del genoma o
del bosone di Higgs, dopo il quale sono arrivate le onde gravitazionali e
un giorno toccherà all’antimateria e alla forza oscura. Per certi versi
la storia dell’uomo ha coinciso con una battaglia incessante per
sottrarsi al dominio cieco di una natura onnipotente, delle sue forze
telluriche, delle sue catastrofi climatiche, dei suoi agenti patogeni.
Certo,
adesso i problemi più delicati non sono la cosmologia o la fisica
subatomica, e neanche il paradigma darwiniano (che pure contraddiceva il
dettato scritturale), ma la biologia, le neuroscienze, le tecniche
della fecondazione artificiale e in prospettiva l’eugenetica, dove
scienza e tecnologia pongono serie questioni morali, sulle quali la
Chiesa esercita il suo magistero muovendosi sulle impervie frontiere tra
ineludibile (e imprevedibile) mutamento storico e verità immutabili. Il
dirompente passaggio dalle rigide chiusure del concilio Vaticano I e
del Sillabo alle aperture del concilio Vaticano II sono una prova
evidente della storicità del magistero, passato in meno di un secolo da
uno scontro frontale contro la cultura laica e i processi di
secolarizzazione al tentativo di dialogare con la modernità.
In
questa prospettiva, il caso Galileo ripropone ancora una volta la sua
attualità non solo nell’ambito oggi più vivo che mai del rapporto tra
scienza e fede (o meglio, tra scienza e magistero ecclesiastico), ma in
quello non meno sensibile del rapporto tra Chiesa e storia, tra una
Chiesa che ovviamente si muove dentro la storia e che dunque cambia,
evolve e talora si contraddice o sbaglia, e una Chiesa che in nome della
verità di cui si sente depositaria quella stessa storia giudica,
ponendosi al di fuori e al di sopra di essa, e cerca di indirizzare
secondo i propri fini, i propri valori le proprie certezze.
La
bimillenaria durata della Chiesa è senza dubbio una ragione della sua
autorevolezza, del suo prestigio, della sua forza, della sua stessa
identità, ma quella stessa bimillenaria storia è anche un fardello che
rischia qualche volta di diventare troppo pesante per traghettarlo tutto
quanto verso il futuro, senza modificarne neanche una virgola, ne iota
unum. Ieri come oggi il problema resta quello della storicità del vero e
del giusto, che impone anche alla Chiesa l’esigenza di far proprie
almeno in parte le ragioni di quel relativismo che essa combatte nei
suoi esiti scettici.
Un compito immane e sempre più difficilmente
componibile nelle cautele pastorali e nella prudenza della ragion di
Chiesa, anche perché ormai fa parte del senso comune il fatto che né la
storia né la scienza postulino un fondamento divino o una legittimazione
teologica. Storici e scienziati possono essere responsabili di errori
anche gravi, e magari gravissimi, così come lo furono papa Urbano VIII e
san Roberto Bellarmino, ma oggi a vigilare su di essi – errori e non
eresie – può essere solo la comunità scientifica e non qualche tribunale
della coscienza. Un principio, questo, ormai auspicabilmente condiviso
da laici e cattolici.
(Sintesi del discorso tenuto alla Camera dei Deputati
a Roma il 4 marzo scorso nel quattrocentesimo
anniversario della prima condanna di Galilei)