Il Sole Domenica 27.3.16
Rivoluzione francese
Il 1789 dei tagliateste
di Sergio Luzzatto
Haim
Burstin esplora i meccanismi che hanno fatto emergere capipopolo,
uomini sanguinari, le dames de la Halle e altri soggetti refrattari ai
meriti della democrazia rappresentativa
«Le sezioni sono per tre
quarti deserte; sembrano appartenere ormai a un pugno di individui che
finiscono per nominarsi l’un l’altro. Sono questi stessi individui che, a
furia di dispute insolenti e propositi oltraggiosi rivolti contro
pacifici cittadini senza ambizioni, hanno creato in loro il disgusto di
andare a votare nelle sezioni». Suonava così – all’inizio del 1793, anno
I della Repubblica francese – la denuncia di tale citoyen Labenette,
poligrafo bretone trasmigrato nella Parigi della Rivoluzione e redattore
di un periodico dal titolo insieme fantasioso, misterioso, minaccioso:
«Journal de la Savonette républicaine, à l’usage des députés ignorans et
de ceux qui se proposent de trahir la patrie». Cioè: «Giornale della
Saponetta repubblicana, a uso dei deputati ignoranti e di quelli che si
propongono di tradire la patria».
Nella Francia rivoluzionaria,
molti giornali somigliavano a certi blog d’oggidì. Si davano l’aria di
valere da organi dell’uno o dell’altro movimento d’opinione, mentre non
erano nulla più che torrenziali e autoreferenziali logorree dell’uno o
dell’altro mitomane. Lo stesso cittadino Labenette non lascerà
alcun’altra traccia, nella storia della Rivoluzione, che una piccola
sfilza di giornali tanto roboanti nel titolo quanto effimeri nella
durata. Ma la sua denuncia del 1793 va colta al volo, perché conduce
dritto al cuore del libro di Haim Burstin, Rivoluzionari.
Un’«antropologia politica della Rivoluzione francese», secondo
l’ambizioso sottotitolo di questo volume laterziano.
Da un secolo e
mezzo in qua, ciascuna generazione di storici interroga il passato
della Rivoluzione sulla base di un questionario più o meno
esplicitamente dettato dalle Faq (Frequently asked questions) del suo
presente. Nel caso di Burstin – il maggiore studioso italiano della
Rivoluzione francese – le domande sollecitate dall’attualità sono oggi
quelle che ruotano intorno alla crisi della democrazia rappresentativa.
Perché le sezioni (da intendere qui, per metonimia, come i luoghi
deputati all’esercizio della politica democratica) sono per tre quarti
deserte? Perché la politica non appartiene più che a un pugno di
individui che si nominano l’un l’altro? E come stupirsi se, a queste
condizioni, i cittadini dabbene provano un disgusto sempre maggiore
nell’andare a votare?
Facendo perno sulla Parigi del 1789 e degli
anni immediatamente successivi, Burstin scopre quanto presto i
rivoluzionari francesi – homines novi per definizione – siano divenuti, a
loro volta e a loro modo (cioè nel caos di un mondo sottosopra),
professionisti della politica: un notabilato, se non proprio
un’oligarchia. Quanto rapidamente il personale della Rivoluzione abbia
ragionato in termini di carrierismo e di favoritismo, a misura che il
sistema assembleare inaugurato dall’Ottantanove andava degradandosi in
lotta fazionaria. Inoltre, Burstin scopre quanto naturalmente la logica
della Rivoluzione abbia promosso come sovrana la figura dell’estremista.
E quanto copiosamente la radicalizzazione rivoluzionaria abbia
alimentato una specie di indotto sociale dell’estremismo: un vasto
sottobosco fatto di portieri delle prigioni, di custodi di abitazioni
poste sotto sequestro, di emissari addetti alla sorveglianza o alla
repressione, insomma l’equivoco demi-monde di chi aveva tutto
l’interesse a brandire senza posa la «saponetta» della Rivoluzione.
Fin
dalla primavera del 1789 e poi nel fatidico 14 luglio, con la presa
della Bastiglia, le «giornate» insurrezionali del popolo parigino
scatenarono una dinamica che era – al tempo stesso – collettiva e
individuale: era collettiva, poiché traeva la propria legittimità
dall’essere mobilitazione di massa; era individuale, poiché non poteva
prescindere dall’azione di un gruppetto di agitatori o di un singolo
capopopolo. E fin dall’indomani del 14 luglio 1789 la Rivoluzione
riconobbe ufficialmente il principio di una remunerazione politica del
merito patriottico, dal momento che il Comune di Parigi istituì una
commissione deputata ad attribuire il titolo ufficiale (accompagnato da
premi vari) di Vainqueur de la Bastille: a conti fatti, non meno di 861
prodi!
È nel rapporto tra individui e folla che nasce e cresce
l’estremismo insurrezionale. E che un popolo in rivoluzione, lungi
dall’accontentarsi della democrazia rappresentativa incarnata da
deputati formalmente eletti, investe l’uno o l’altro agitatore della
carica informale di genuino rappresentante del popolo: quand’anche si
tratti – letteralmente – di un tagliateste. Così nel giorno della
Bastiglia, quando un macellaio disoccupato, François Desnot, con il suo
coltello da tasca provvede a decapitare il governatore della famosa
prigione, e su questo costruisce la sua reputazione di rivoluzionario.
«Sono un ottimo cittadino», si vanterà Desnot di lì a qualche mese: un
cittadino che «se ne intendeva di amputazioni», e «sapeva trattare le
carni».
Neppure tre mesi dopo il 14 luglio 1789, tocca alle donne
del popolo parigino di farsi interpreti del protagonismo e del
radicalismo della Rivoluzione: sono le dames de la Halle – le donne dei
Mercati generali – che marciano compatte verso la reggia di Versailles,
il 5 ottobre, e che l’indomani trascinano a Parigi il re Luigi XVI e la
regina Maria Antonietta, un po’ in trionfo, un po’ alla gogna. A
condurre tali donne è un’avvenente fruttivendola, Louise-Renée Audu,
destinata a pagare per tutte: un anno e passa di carcere. Colpevole di
sommossa, la «Regina Audu». Ma colpevole anche, o forse soprattutto, di
avere sognato che la Rivoluzione degli uomini potesse essere la
Rivoluzione delle donne.
Più che un’antropologia della Rivoluzione
francese, il libro di Burstin offre una fenomenologia di tipi
rivoluzionari. E ha il merito di indugiare – piuttosto che sui grandi
nomi – sui piccoli. In qualche caso, nomi quasi incredibilmente
rivelatori: come nel caso del gendarme Charles-André Merda, che il 9
termidoro dell'anno II (27 luglio 1794) entrò nella storia per avere
arrestato Maximilien Robespierre. E per avere osato sparargli in faccia,
sosteneva Merda, bloccando qualunque tentativo del «tiranno» di
chiamare a raccolta i suoi feroci pretoriani. In realtà, probabilmente
Robespierre si era sparato da solo, aveva cercato di togliersi la vita.
Ma su quel controverso colpo di pistola, il granatiere Merda fonderà una
bella carriera da ufficiale napoleonico. Riuscendo a diventare, nel
1807, nientepopodimeno che barone dell’Impero.
Haim Burstin, Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari, pagg. 314, € 25