Il Sole Domenica 13.3.16
Pamphlet
Li chiamavano progressisti
Tra i paradossi della «progressive era» il salario minimo usato in chiave antimigranti e per promuovere l’eugenetica
di Alberto Mingardi
Come
porre un freno all’“immigrazione selvaggia” che prendeva d’assalto
l’America, togliendo pane ai lavoratori statunitensi? Paul Kellogg,
giornalista e riformatore sociale, pensò a un dazio sul lavoro dei
migranti. Non si trattava proprio di una tassa. Gli immigrati avrebbero
dovuto semplicemente essere respinti, se non dimostravano di avere un
impiego che rendesse almeno due dollari e mezzo al giorno. «Il minimo
stabilito da Kellogg superava del 50 per cento il salario medio di un
lavoratore non specializzato nel 1910 (…) Un salario minimo di due
dollari e mezzo al giorno avrebbe posto fine all’immigrazione di
lavoratori non specializzati, riducendone il numero da 500mila a
qualcosa come 5mila all’anno».
A tutt’oggi, il salario minimo è
una bandiera della sinistra, pensate a Bernie Sanders. Si tratterebbe di
un modo per disinnescare l’istinto primordiale dei capitalisti,
predatori di surplus. Quanti ribattono che alzando il minimo di legge
l’offerta di lavoro tenderà a contrarsi, vengono tacciati d’intelligenza
col nemico. Usare il diritto per alzare le retribuzioni non avrà altra
conseguenza che retribuzioni più alte: basta limare gli artigli al
capitale.
Sarà quindi una sorpresa per molti apprendere che i
primi sostenitori del salario minimo, al contrario, non solo avevano ben
presente gli effetti sull’offerta di lavoro: ma lo auspicavano proprio
per quella ragione. Illiberal Reformers di Thomas C. Leonard è un libro
che irriterà più d’uno.
Leonard s’è immerso nel pensiero degli
intellettuali che diedero il nome alla Progressive Era. È il periodo
(1880-1920) nel quale, negli Stati Uniti, nascono lo Stato
amministrativo, e gli strumenti per indirizzarlo in una direzione o
nell’altra. Gli uomini di pensiero si organizzano per smettere di
limitarsi a osservare il mondo e cominciare a cambiarlo: nasce
l’American Economic Association, debutta il primo think tank,
l’Institute for Government Research (ora Brookings Institution), vengono
istituite le prime autorità di regolazione. Come dire il sistema
nervoso della modernità.
Il panico del 1893, un classico bank run,
trascina l’America nella più grande recessione che avesse sino ad
allora conosciuto, la disoccupazione raggiunge il 18% nel 1894 e resta
stabilmente sopra il 12% nei quattro anni successivi. A una generazione
di economisti e giuristi, da Richard T. Ely a Woodrow Wilson, da Louis
Brandeis a Lester Ward, ciò appare come la conferma di una loro
intuizione. La produzione è troppo importante per lasciarla ai
produttori. Il “mercanteggiare” del mercato porta con sé contraddizioni e
squilibri, che possono essere superati solo con opportune politiche
pubbliche.
Fin qui, la storia è nota. Ciò che è meno noto, e che
Leonard indaga senza risparmiare dettagli, è il rapporto fra le buone
intenzioni dei riformatori e l’eugenetica.
Per Woodrow Wilson, lo
Stato era un organismo vivente «che risponde a Darwin, non a Newton.
Giacché nessun essere vivente può sopravvivere se i suoi organi operano
gli uni contro gli altri, un sistema di governo dev’essere libero di
adattarsi alla propria epoca, se non vuol perire».
Di norma quando
si parla di “Darwinismo sociale”, perlomeno dai tempi di Richard
Hofstadter, ci si riferisce ad alcuni teorici del laissez-faire, in
pratica Herbert Spencer e William Graham Sumner. La «sopravvivenza del
più adatto», conio di Spencer, sarebbe il marchio di un liberismo senza
se e senza ma. Ma sia Spencer che Sumner erano pacifisti radicali,
durante la guerra ispano-americana Sumner denunciò la «conquista degli
Stati Uniti da parte degli spagnoli», il militarismo metteva in crisi
gli ideali dei padri fondatori. Né l’uno né l’altro pensarono mai che il
«miglioramento della razza» giustificasse anche la minima misura
coercitiva.
I loro avversari intellettuali erano di diversa
opinione. «Nell’Era progressista era inteso che la gerarchia umana fosse
una questione da stabilire su basi scientifiche. Esperti avrebbero
classificato scientificamente i gruppi dal migliore al peggiore». Negli
Usa, il 12% della popolazione era di colore, il 2% aveva altri difetti
irrimediabili, fisici o psichici. Il 14% degli americani, insomma, non
poteva che trasmettere ai propri figli un’eredità guasta.
La
straordinarietà del libro di Leonard sta nel riuscire a unire i puntini
fra movimenti e pretese scoperte scientifiche che sembrerebbero
indipendenti gli uni dagli altri, ma fecero assieme lo spirito dei
tempi. La nascita del taylorismo e del “management scientifico” da una
parte, l’Antitrust e l’ortopedia della concorrenza dall’altra, la
tecnocrazia ai primordi: finalmente era venuto il tempo di riprogettare
la società. L’evoluzione non era compresa come un processo di lunga
lena, che va avanti per impercettibili e non sempre fortunate
variazioni. I mutamenti potevano accelerare, schiacciando il bottone
giusto.
Le stesse confessioni protestanti subirono la seduzione
delle idee nuove. Per il pastore battista Walter Rauschenbusch, lo Stato
«deve eliminare il libero mercato, un sistema omicida governato dalla
legge della giungla, e sostituirlo con una repubblica cooperativa basata
sul cameratismo e la solidarietà». Ma per liberarsi di questo sistema
assassino, andava eliminata «la sostanza di cui si nutre, i non adatti».
Per un economista del calibro Richard Ely, «a chi è moralmente
incurabile (…) non andrebbe permesso di propagare la propria schiatta».
Era pensiero comune che «una nazione americana unita richiedeva
l’omogeneità razziale». Di qui, l’odio per l’immigrazione, soprattutto
per i cinesi, la cui disponibilità a lavorare per un basso salario era
una minaccia per il lavoratore americano. Il salario minimo era l’arma
perfetta: «a chi è economicamente improduttivo, a quelli che svolgono un
lavoro che vale meno del minimo legale, non si dovrebbe permettere di
entrare [nel nostro Paese]».
C’è da chiedersi se fosse l’obiettivo
di lungo termine, ovvero il “miglioramento biologico” della
popolazione, a giustificare quello di breve, cioè la tutela dalla
concorrenza di imprese e persone di altri Paesi, o il contrario. In un
caso o nell’altro, la semplice idea liberale che nulla deve frapporsi
fra un essere umano e l’opportunità di lavoro che egli si sa trovare,
era morta - e per sempre. Il libro di Leonard provocherà senz’altro una
discussione intensa. Il sogno di “fare l’uomo nuovo” oggi ci fa
inorridire. Ma che dobbiamo pensare, allora, delle policy e delle
istituzioni concepite precisamente per quello scopo?
Thomas C. Leonard, Illiberal Reformers, race, Eugenics and American Economics in the Progressive Era, Princeton, pagg.250, 35