Il Sole Domenica 13.3.16
Abitare le parole / Dio
Il Nobel e Francesco
Il segretario della Cei inaugura la sua rubrica per «Domenica» con un intenso dialogo con l’ateo, quasi novantenne, Dario Fo
di Nunzio Galantino
«Facciamo
silenzio prima di ascoltare la Parola perché i nostri pensieri sono già
rivolti verso la Parola […] Facciamo silenzio solo per amore della
Parola». Prendo in prestito queste poche battute dal pastore luterano
Dietrich Bonhoeffer, fatto impiccare da Hitler. Lo faccio per presentare
uno spazio ideato con il responsabile di questo supplemento,
Massarenti, e che mi piace intitolare «Abitare le parole», come il
titolo di un mio piccolo libro, pubblicato qualche tempo fa. In questa
rubrica, che la Domenica del Sole 24 Ore mi affida, proverò a costruire
un piccolo dizionario partendo da parole che penso interessino l’uomo,
ogni uomo e ogni donna di buona volontà. Una sorta di vocabolario di
antropologia che descrive la relazione fra l’Io e il mondo, che si apre
agli altri e alla società fino a incontrare l’Altro.
Quest’esigenza
nasce dalla consapevolezza che stiamo perdendo il senso più profondo
delle parole. Le parole: le scarnifichiamo, le banalizziamo, le
ripetiamo, le riduciamo. Sono sempre le stesse. Riduciamo le parole,
riduciamo i sentimenti e d’improvviso abbiamo «anime afone». Non è
l’istruzione che manca; manca la consapevolezza della complessità del
reale in cui siamo inseriti. La società contadina sapeva «nominare»
attrezzi, alberi, piante. La nostra società fa fatica a conservare il
senso delle parole, le riduce sempre più spesso a suoni.
Accetto
la sfida di «abitare le parole», iniziando dalla parola più … complessa
di tutte: Dio. Lo faccio stimolato, come dirò più avanti, da una
recentissima mia lettura. Parto dalla parola Dio, assumendomi un compito
difficilissimo, perché Dio è una parola paradosso. Per alcuni c’è solo
il termine e non c’è il soggetto corrispondente, per altri c’è il
soggetto corrispondente ma non va nominato e secondo altri ancora il Dio
di Mosè non tollerava di essere rappresentato, per cui si poneva anche
il problema della non – visibilità di questo termine. Ad esempio, negli
Esercizi di Ignazio di Loyola, Dio è parola di massima creatività. Negli
Esercizi Dio va immaginato e per raggiungere la contemplazione occorre
una vera e propria “composizione di luogo”. Anche Calvino, nelle sue
Lezioni Americane, ci ha ricordato che Dio è il principale protagonista
della visibilità e che fu così anche per Dante e per Michelangelo. Con
la parola Dio, e con la realtà alla quale essa rimanda, possiamo
permettere alla nostra mente di viaggiare in ampi spazi e di fare
esperienze straordinariamente cariche di vita, sia partendo dalla parola
e aprendoci alla fantasia, sia partendo dall’immagine e poi
ricollegandoci alle parole.
La parola di cui stiamo parlando è di
certo la più difficile perché la più ricca e parte dal concetto di luce.
Un bambino avrebbe difficoltà a seguire il nostro discorso, perché lui
sa che dietro la parola «mamma» c’è una mamma; ma dietro la parola Dio
cosa c’è? Cosa dirgli? Se i bambini non ci capiscono abbiamo fallito il
nostro discorso. Io qui proverei a cavarmela con Dante e a dire che…
anche dentro la fantasia può piovere («poi piovve dentro a l’alta
fantasia»). Non perché Dio sia fantasia, ma per spiegare a un bambino
che può piovere anche da realtà invisibili, ma esistenti. Con un bambino
proverei a cavarmela così.
Mettiamo invece che io mi trovassi a
dialogare con Dario Fo, un premio Nobel alle soglie dei suoi novantanni,
partendo dal suo ultimo libro.
«Caro Maestro, c’è tutto un mondo
di sapere dentro quel “Però” nell’incipit del tuo nuovo libro. L’ho
letto nel poco tempo che resta a un prete–vescovo come me, che ogni
tanto prova nostalgia per la sua vecchia vita di professore. Quel “Però”
mi ha colpito. E così in questo mio nuovo spazio domenicale provo ad
abbozzare un dialogo con te. Tu rispondi a una domanda sull’esistenza di
Dio e dici Non c’è. Non esiste. Non ci credo… Però… Secondo te Dio è un
gran falsario che si è inventato da sé, un genio della Storia, perché
ha saputo creare la sua immagine. Un abile croupier. La tua
antireligiosità m’è parsa molto religiosa e il tuo libro mi è piaciuto
per questo, oltre che per il tono semiserio. Io so bene che l’abile
giocoliere di parole sei tu, che ti muovi da sempre con una perfetta
conoscenza “simpatica” dei testi religiosi. Caro Maestro, parli di Dio e
di Gesù e dello Spirito Santo come di tre persone dal carattere molto
diverso, perché a Dio non basta mai l’amore degli altri, mentre Gesù
fonda il suo sentimento sull’amore da dare e non da ricevere. È un bel
testo teatrale il tuo e ho sorriso parecchio, né credo che Dio si sia
offeso sentendosi dire che è un egocentrico a differenza di Gesù! Non
farò qui una lezione di teologia ovviamente, ma vorrei concentrarmi
ancora un po’ sulla parola Dio. Noi uomini abbiamo bisogno di
trascendenza e per noi cristiani l’essenza dell’esistenza umana si trova
nell’uscire da noi, nell’andare e nel sentirci proiettati oltre. Quello
che qualcuno chiama “autotrascendimento” non ci porta solo verso Dio,
vuol dire anche offrire pienamente noi stessi all’altro, alla persona
amata, al nostro lavoro. Siamo in cammino, sempre, andando oltre quella
che Ortega y Gasset chiamava “la mia circostanza”. Questa situazione
appartiene anche a un ateo, ne sono convinto. Il Dio di cui parli
appartiene solo al primo tempo del primo atto (per metterla nei termini
che più ti piacciono). Gesù è nel secondo atto ma è Dio e ci ha fatto
conoscere quello che senza di lui non avremmo mai saputo del Padre. C’è
un passo del tuo libro che condivido totalmente. Dici: Alla fine credo
che sia proprio questo che i farisei, i sacerdoti e i sedicenti giusti
non gli abbiano perdonato. La ’colpa’ somma che l’ha condotto sulla
croce è stata quella di aver portato il vessillo dell’”agape”, in greco
l’amore. Non l’amore sdolcinato, di maniera, o quello riservato
all’ambito familiare. Gesù chiede, pretende, l’amore difficile,
illogico, paradossale. Per il nemico, il diverso, l’estraneo, l’infetto.
Per le donne svergognate, gli schiavi, i lebbrosi, i pazzi. Non
uccidere. Non giudicare. Porgi l’altra guancia. Sono parole eversive in
un mondo basato sul conflitto e l’odio. Una innovazione inaccettabile
per il potere, che in quel messaggio vede un’autentica minaccia.
Parlando d’amore Gesù si scava la fossa. La sua condanna a morte nasce
da lì.
Lascio per un momento la parola Dio perché nel tuo libro
parli anche del Papa. L’ho apprezzato quel passo. Gesù, che per noi
cristiani è un protagonista che si è voluto rendere visibile al grande…
pubblico pagante, è stato un vero rivoluzionario, nei messaggi politici,
sociali e privati. Tu rivedi in questo Papa Francesco. Dici che lui sta
cambiando il volto della Chiesa senza indugi e senza far sconti.
Condivido ovviamente. Tutte le persone che finora son state lontane
dalla Chiesa vedono in papa Francesco colui che la sta cambiando. Trovo
un po’ esagerato, quasi ingiusto, questo modo di pesare per la Chiesa
stessa. Io sono stato nominato da lui Segretario generale dei Vescovi
italiani, penso di aver compreso il suo programma e mi permetto di
sottolineare che Francesco sta solo (e scusa se è poco!) aiutando la
Chiesa a vivere con più passione e con maggiore coerenza lo spirito del
Vangelo. Spirito Comunista di Morales dici tu? Io dico lo spirito di
Gesù, quello non comunista, ma di comunione. L’incontro con le povertà e
con le ricchezze che portano con sé le persone è alla base del credo
cristiano. Questo ha fatto Gesù e questo Papa Bergoglio lo sta
ricordando a tutti. Apprezzo i passaggi sul Buddismo, sul Marxismo,
sulla letteratura popolare etc. etc., degni di un uomo colto come te,
però l’attenzione di Francesco agli ultimi è qualcosa di più silenzioso,
dove si cerca di alleviare il senso dell’esistenza dura di queste
persone che più di altre, in alcuni casi, aspettano la morte o non si sa
che cosa. In loro non c’è neanche il grido di Bergman contro la morte,
c’è solo l’inutile senso di attesa di Beckett del che ora è? E la solita
risposta Sempre la stessa. Il tempo pesante che non passa mai. La vera
Chiesa deve guardare a queste esistenze disperate non come a un fatto
eccezionale, anche se a molti, come dici tu, sembra tale.
Ho letto
davvero di gusto il tuo libro, caro Maestro! In ciò che condivido e in
quello che non comprendo, nella convinzione che abbiamo tutti i nostri
ruoli, come a teatro: un nobile, impegnativo e affascinante teatro!
Perché – come dici tu – anche il cattivo si prende la sua croce e spesso
non è neanche così cattivo. Magari Giuda è costretto a prendersi quel
ruolo affinché si compia la missione di Gesù e alla fine (misero!) non
regge il disprezzo suo e degli altri per il tradimento e si suicida.
Dobbiamo allora stare attenti a sceglierci un ruolo degno, a teatro,
come nella vita».
Dario Fo e Giuseppina Manin, Dario e Dio,
Guanda, Milano, pagg. 176, € 15. Il volume, in uscita il 17 marzo, verrà
presentato al Piccolo Teatro di Milano (Via Rovello), lunedì 21 marzo
alle 18.30