domenica 13 marzo 2016

Il Sole Domenica 13.3.16
Piero Calamandrei / 2
Il suo obiettivo? La ricostruzione
All’indomani della caduta del fascismo, capì più di altri la necessità dell’Italia di riedificare un corpo sociale e politico assai danneggiato
di Luigi Mascilli Migliorini

Personaggi-enzimi li chiama con una espressione insolita e felice, Giovanni De Luna nella sua Introduzione, parlando di quelle figure dell’Italia post-fascista che si affannarono a riconnettere il tessuto morale e materiale di un Paese che la dittatura e la guerra avevano sconvolto con così tragica radicalità che qualcuno ha per esso potuto anche parlare di “morte della patria”. Figure non sempre in primo piano nella lotta politica o, più semplicemente, nella vita pubblica, ma comunque sempre appartate anche quando venivano a trovarsi alla ribalta, perché in essi, in qualsiasi situazione e qualsiasi fosse il loro ruolo, prevaleva il pudore del sentimento e la severità della morale. Tra di loro, assai più numerosi di quanto si creda perché il pudore e la severità amano l’anonimato, Piero Calamandrei spicca, senza dubbio per la chiarezza con la quale egli comprese quale fosse la condizione in cui veniva a trovarsi l’Italia , all’indomani della caduta del fascismo, della fine della guerra, della proclamazione della Repubblica, ed ebbe, dunque, più di altri consapevolezza di quale necessità quell’Italia avesse di enzimi, appunto, che alla retorica insidiosa del riscatto e della novità preferissero il silenzioso lavoro della ricostruzione di un corpo sociale e politico assai più danneggiato di quanto l’apparenza, pure drammatica, rivelava.
Parlando del fascismo Calamandrei lo spiegava bene nell’editoriale che apriva il primo numero de «Il Ponte», la rivista da lui fondata a Firenze nell’aprile del 1945 e che sarebbe diventata presto la casa di un pensiero e di un’azione certo minoritaria ma senza i quali –non è esagerato dirlo- l’Italia sarebbe stata assai peggiore di quella, pur non sempre esaltante, in cui siamo vissuti. «Nessuna vittoria militare per quanto schiacciante – scriveva in quei giorni che erano giorni di speranza - nessuna epurazione per quanto inesorabile, potrà essere sufficiente a liberare il mondo da questa pestilenza, se prima non si rifaranno nelle coscienze le premesse morali, la cui mancanza ha consentito a tante persone di associarsi senza ribellione a questi orrori, di adattarsi senza protesta a questa belluina concezione del mondo». Dietro la crisi politica che, come una voragine si era aperta, alla fine della dittatura, egli, dunque, scorgeva una ancor più vertiginosa crisi morale. Avvertiva l’odore di «quell’Arcadia che ci è rimasta nelle ossa» che Francesco De Sanctis aveva pure annusato meno di un secolo prima, in altri giorni di vittoria e di speranza che non avevano tardato a tramutarsi in giorni delusi e sconfitti, come rischiava di accadere di nuovo in quella primavera del’45.
Ora, però, il Risorgimento era stato di popolo assai più di quello vissuto da De Sanctis. La Resistenza aveva portato sulla scena della storia un’Italia, degli Italiani, che avevano saputo reagire contro un’altra Italia e altri Italiani. E i morti di quella battaglia – come scrive in una delle tante, bellissime pagine di questa preziosa antologia- ora avrebbero giudicato i vivi aiutando a vincere il ritorno «di un’antica malattia». La Resistenza, nota ancora De Luna, diventa per Calamandrei il luogo storico della nuova moralità, diventa –in quanto esperienza realmente accaduta- la garanzia che l’accidiosa passività di una collettività troppo spesso tentata dal “ma che te lo fa fare” possa essere definitivamente derubricata dal carattere nazionale.
Le nottate non passano aspettando come vorrebbe il protagonista di Napoli milionaria quasi che esse fossero catastrofi naturali e non vicende storiche in cui recitano la volontà e la responsabilità degli uomini. E così la Costituzione –quella forma giuridica in cui la Resistenza è diventata fonte di diritto non astratto ma positivo- «non è –dice Calamandrei- una macchina che va avanti da sé». E da qui prende le mosse la battaglia che egli comincia, infaticabile, a combattere per l’attuazione della Carta costituzionale, denunciando le ambiguità della nuova classe politica che, dieci anni dopo, la lascia ancora incompiuta in alcuni dei suoi aspetti fondamentali, del tradimento che di essa fa un ceto di burocrati, insegnanti, magistrati, i quali, piuttosto che apprendere le parole di questo sillabario della nuova democrazia preferiscono sbirciare tra gli articoli dei Codici fascisti su cui si sono formati e che l’Italia repubblicana lascia colpevolmente in vigore. È la battaglia contro la “desistenza”, nuovo morbo di una società che vuole vivere senza farsi troppi problemi e allontana modelli troppo ingombranti con il catalogo –lo snocciola Calamandrei- del qualunquismo di sempre: i fascisti…in fondo brava gente; la liberazione…ma se non c’erano gli Alleati;la Resistenza…roba di banditi.
Quanto di tutto questo appartenga o, meglio si rifletta, nelle discussioni di oggi, ciascuno, sfogliando le pagine di questo libro potrà giudicarlo, misurandolo, forse, sul proprio sentire privato ancor più che sul dibattito pubblico. Ma le otto pagine sobriamente intitolate «Appunti sul professionismo parlamentare», scritte giusto sessant’anni fa, poco prima della sua morte, quelle certamente sono dei nostri giorni. In esse perfino Piero Calamandrei perde le certezze che lo accompagnano da sempre e si affaccia, come noi, smarrito sul mare pericolosamente ondeggiante della democrazia contemporanea.
Piero Calamandrei, Lo Stato siamo noi, Milano, Chiarelettere,  pagg.136, € 8,50