domenica 13 marzo 2016

Il Sole Domenica 13.3.16
Piero calamandrei / 1
La scuola dell’ascolto
Il grande giurista vide nel figlio Franco, tra i tre e i cinque anni, l’espressione di una libertà preziosa che si perde crescendo
L’impegno per un’istruzione pubblica di qualità per tutti, capace di promuovere quel «ricambio sociale che è la vita stessa della democrazia»
di  Franco Lorenzoni

L’ipotesi di Piero Calamandrei, che è all’origine della scrittura dei suoi Colloqui con Franco, sta in un radicale rovesciamento di sguardo: ciò che osserva con interesse il padre in suo figlio dai tre ai cinque anni, non è tanto ciò che apprende crescendo, ma piuttosto la libertà di pensiero e sentimento delle cose del mondo che il piccolo Franco inesorabilmente perde, giorno dopo giorno. Da qui l’esigenza di documentare, con precisione da entomologo, qualcosa di prezioso che sfugge, riassunta nella frase con cui termina lo scritto: «Franco, tu parli ormai come parliamo noi grandi: come parlano le signore nei salotti, come parlano i deputati in parlamento... Che malinconia!»
La reciprocità, regina
del pensiero infantile
Nella progressiva stratificazione di notazioni acute e poetiche, il linguaggio di Piero Calamandrei ha la capacità di far precipitare chi legge in una sorta di vertigine per cui, a un certo punto, a furia di tentare di avvicinarci al mondo misterioso di suo figlio, viene anche a noi il desiderio di possedere l’arte magica del trasformare le cose.
Franco, di fronte al suo legnetto divenuto bicchiere, s’accorge a un tratto che s’è svuotato e dunque, senza por tempo in mezzo, ecco che trasforma quello stesso legnetto in bottiglia capace di riempire il legno-bicchiere e poter dare felicemente da bere alla mamma. In questa semplice e geniale intuizione generosa, troviamo una traccia remota dell’origine dell’inventare storie, che è l’arte che ci offre la preziosa possibilità di rendere più sopportabile il nostro mondo, in cui i bicchieri vuoti non sanno riempirsi da soli, mutandosi in generose bottiglie piene da svuotare.
L’intera letteratura, ci suggerisce Franco con la sua invenzione inconsapevole, ci piace perché ha il potere di trasformare lo sguardo che noi abbiamo sulle cose. Non serve dunque solo per tentare di comprendere il mondo, ma anche per fantasticare e provare a costruirne altri, di mondi. (...)
Oggi, nel curioso andirivieni delle mode pedagogiche, fa sorridere il fatto che da qualche anno tutti parlino di emozioni, da quando alcune scoperte nel campo delle neuroscienze insieme a pubblicazioni uscite da numerose università statunitensi, sembrano aver dato finalmente dignità teorica al peso delle emozioni nell’attività educativa, nota peraltro ad Atene, qualche millennio fa.
In tutt’altro contesto, Piero Calamandrei fu a suo modo acuto sperimentatore di una sua personale pedagogia dell’ascolto ed è particolarmente interessante tornare a leggere questi colloqui oggi, perché capaci di dare respiro e nutrimento a coloro che si cimentano nell’educazione di bambini e ragazzi a scuola e a casa. (...)
Piero Calamandrei, aiutato dallo sguardo e dalle parole del figlio, ha l’accortezza di non prendersi mai completamente sul serio, perché capace di guardare alle vicende della vita sempre da due punti di vista. Ed è proprio questo continuo accostamento tra i pensieri di un adulto e di un bambino, che dà a queste pagine una lievità ed ironia capaci di fare da contrappunto a considerazione amare e a volte tragiche sulla condizione umana, come quelle che riguardano la guerra appena conclusa, in cui risulta evidente anche un altro aspetto rilevante dei colloqui, che si tratta di conversazioni tra maschi.
Maschi in guerra
Un giorno Piero, di fronte a un suo ritratto da soldato, ascolta il figlio dire:
« Quando sono grande compro un fusile, compro una brizichetta, prendo quella strada lì e vado alla guerra dove si ammazzano gli òmini».
Piero riflette sul fatto che, pur avendo sempre descritto al figlio la guerra come «un’oscura follia piena di orrori» lui senta «istintiva, in fondo al suo piccolo cuore, una voluttà di questa triste cosa “dove si ammazzano gli òmini”, e ne parli come di una felicità che l’avvenire ti riserba».
Il padre riflette che anche lui giovinetto era «pieno di quella vaga nostalgia di eroismo che ogni adolescente cela nel cuore». Ma poi la guerra, «venne davvero, diversa da come me l’ero immaginata un tempo». Memorie più lontani prendono così il sopravvento, portando Piero a ricordare quando, nel momento della nascita di Franco, un colonnello – «babbo anche lui» – gli concesse la licenza per potere venire a dare a suo figlio «il primo saluto , che poteva essere anche il solo».
Le considerazioni che seguono sono particolarmente amare per Piero, che conclude il capitoletto scrivendo «pare che questa sia la legge del mondo: che ogni tanti anni la guerra debba tornare, a risvegliare negli uomini infiacchiti la forza di dare la vita per quelli che verranno...».
È difficile da condividere oggi l’idea che si debba mostrare coraggio, dando la vita in guerra per quelli che verranno, ma fa impressione ricordare, con il senno di poi, quanto profetica fosse quella frase, perché Franco, poco più di vent’anni dopo, partecipò in prima persona alla resistenza e alla lotta armata contro il nazifascismo.
Noi che leggiamo oggi, tuttavia, vorremmo fermarci tre righe più su, facendo nostra l’illusione e la speranza di Piero, che afferma: «qualcuno ha fatto la guerra per amore dei suoi figli, nell’illusione che fosse l’ultima, e che dopo il mondo rinsavisse per sempre».
Per una scuola incubatrice
di vocazioni
Il racconto di Piero è concentrato nell’osservazione di suo figlio. Ma noi, leggendo delle imprese del piccolo Franco, non possiamo non pensare a tanti altri bambini a noi più vicini, perché la qualità di un testo letterario sta nella capacità di far arrivare una voce lontano nello spazio e nel tempo, dandoci la possibilità di ascoltarla e rispecchiarci anche a un secolo di distanza.
Silvia Calamandrei, figlia di Franco, ricorda in uno scritto che in quegli stessi anni Piero, pur lavorando all’Università di Siena, «fece frequenti soggiorni a Montepulciano, dove si impegnò sul fronte della scuola primaria e dell’educazione degli adulti, propagandando l’attività del “Gruppo d’azione per le scuole del popolo”, costituitosi a Milano tra maestri elementari».
Quell’impegno e quella convinzione portò Calamandrei a difendere con forza, nel suo ruolo di costituente e negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, la necessità di una scuola pubblica di qualità per tutti, convinto com’era che la scuola costituisse «il più importante dei diritti di libertà» e la «fondamentale garanzia di liberazione sociale».
In queste pagine possiamo rintracciare, nella tenerezza e nell’attenzione verso suo figlio Franco, una delle sorgenti di quel suo impegno civile per una scuola unica, capace d’essere «incubatrice di vocazioni». Scuola capace di promuovere quel «ricambio sociale che è la vita stessa della democrazia», così lontano dall’essere raggiunto nel nostro paese ancor oggi, a cinquant’anni dalle accorate denunce di Don Lorenzo Milani e dei suoi ragazzi del Mugello. Scuola che, in uno scritto per «Il ponte» del gennaio 1946, Calamandrei paragona all’acqua dove vive la vallisneria, «singolare pianticella palustre, radicata nel fondo degli stagni». «Ogni pianta a primavera spinge attraverso l’acqua che la ricopre un sottile tentacolo a spira che continua a sgrovigliarsi fino a che non trova l’aria: e li si affaccia e fiorisce. E tutta la superficie dello stagno appare allora, per chi la guardi dall’alto, come un continuo prato fiorito, fino al quale il popolo subacqueo, condannato a viver nel fondo, spinge i suoi vertici incaricati di reclamar per breve ora la sua parte di sole».
Testo tratto dall’introduzione di Franco Lorenzoni al libro di Piero Calamandrei, Colloqui con Franco, Edizioni di storia e letteratura, Roma, pagg. 202, € 18