Il Sole Domenica 13.3.16
Non è mai troppo tardi
Rai Storia, televisivamente il Massimo
di Asif
Imprigionato
in uno studio tutto virtuale – schermi saettanti, grafiche scorrevoli,
candore cibernetico, e un solo, rassicurante, analogico, divano di
autentica eco-pelle – Massimo Bernardini si muove anacronistico, col suo
completo elegante e sobrio, la cravatta bene annodata, la montatura
degli occhiali sottile, l’atteggiamento rilassato e contenzioso, da
bonario – ma rigoroso – professore di greco o di trigonometria.
Starebbe
più comodo dietro una scrivania di mogano, con una tazza di tè fumante
in mano, e l’enciclopedia Treccani alle spalle, un po’ nascosta, come a
siglare un sapere acquisito, assimilato per davvero, senza bisogno di
ammiccamenti, ostentazioni o sparate.
Perché di cose, Bernardini,
ne sa, ne sa parecchie, eppure c’è sempre in lui un’assoluta,
primordiale curiosità, che ne fa un esemplare raro se non unico nel
bestiario televisivo nostrano: un conduttore che ascolta quello che
hanno da dire i suoi ospiti, professori, storici, esperti, che a Il
tempo e la storia, in onda dal lunedì al venerdì alle 13.10 su Rai 3 e
in replica su Rai Storia, introducono le tematiche, raccontano dettagli e
aneddoti, analizzano le ricadute sull’attualità.
Che si tratti
degli affari commerciali delle Compagnie delle Indie (quelle società per
azioni che nel 1600 hanno importato in Europa zucchero e caffè, non
quelle bande di sciamannati che andavano in giro in barca a vela a
insaponarsi), o della disfatta di Caporetto («In quell’occasione sono
venuti a galla tutti i difetti tipici degli italiani: lo scaricabarile,
la litigiosità, la superficialità»); che riguardi la fascinazione degli
studiosi contemporanei per i romanzi di Camilleri («Nel suo continuo
gioco tra il vero e il falso, tra la filologia e la finzione narrativa,
Camilleri gioca con noi storici»), o il viaggio in India dei Beatles
(«Cantare sulle rive del Gange è un ottimo modo per meditare»), lo
sguardo di Bernardini resta sempre acceso dalla fiammella
dell’attenzione, talvolta corredato da smorzate espressioni di giubilo
euristico («E chi se l’aspettava», «non si finisce mai di imparare»,
«questa proprio non la sapevo»), o da pacati gridolini di apprezzamento.
Perché
è contento, il Massimo, quando impara qualcosa di nuovo. E questa
gaiezza del sapere, così bandita dalle nostre tavole, così diversa dal
chiacchiericcio casuale del palinsesto ordinario, non solo scalda il
cuore, ma è pure contagiosa.
Il risultato è che ci ritroviamo giulivi anche noi, in una minuta e consolatoria oasi di quiete catodica.