martedì 8 marzo 2016

Il Sole 8.3.16
Al confine tra Grecia e Macedonia si accalcano 15mila migranti
Nel limbo di Idomeni un esercito di disperati
di Vittorio Da Rold

IDOMENI Il piccolo gruppo di profughi formato da uomini, donne e bambini si allontana nei campi in direzione Albania dopo aver capito che la frontiera di Idomeni resterà chiusa per sempre per loro. Dicono di essere siriani, ma probabilmente sono afghani o pakistani che sono stati respinti da giorni dalle guardie di confine macedoni e rifiutano di tornare al campo di accoglienza di Salonicco.
Anche Wajid, siriano di Kobane, è pronto a riprendere la marcia verso la Germania. «Domani mattina alle sei cercherò di passare la rete metallica di confine ed evitare di restare intrappolato in Grecia», dice deciso davanti a due suoi amici poco convinti.
L’unica certezza è che Cristo si è fermato a Idomeni, avrebbe scritto Carlo Levi vedendo l’umanità disperata dei 15mila migranti bloccati al confine tra Grecia e l’ex Repubblica jugoslava di Macedonia in cerca di un passaggio tra i fili spinati appena spuntati in un confine che descrive più di ogni parola la difficoltà di trovare una voce unitaria dell’Europa sui profughi.
Aafke Zuidervliet, olandese del gruppo Adm, aiuta a fornire pasti ai 15mila rifugiati che si affollano al confine greco-macedone in attesa di avere un via libera verso un destino di speranza. Aafke è arrivata venerdì dall’isola greca di Chios, un hotspot, e mostra la ricevuta di un supermercato dove ha comprato con altri volontari cibo e acqua per 2.500 persone: chili di cipolle, pasta, arance, patate. E adesso, nell’ora del pasto, aiuta a mantenere in ordine la fila infinita dei profughi che si accalcano per avere ristoro dopo due ore di coda.
L’ambulanza dei volontari svedesi fa da studio medico volante lungo la strada per i numerosi ammalati del campo che si mettono in fila per una visita e un farmaco.
Kostantina, giovane greca di 35 anni, agronoma disoccupata, trasporta cibo e vestiti al campo profughi di Policastro a 20 chilometri da Idomeni: «Porto maglie, sciarpe e cappelli di lana ai bambini fatti dalle associate di “Knitting solidarity”, “lavoro a maglia per solidarietà”», una associazione di donne tra cui molte nonne che aiutano i profughi con il lavoro a maglia di tante volontarie. «Qui di solito tra la città di Policastro e Idomeni in questa stagione c’è la neve e i migranti sarebbero morti nelle tende non riscaldate. Comunque i bambini che sono il 40% del totale dei profughi, si ammalano perché il freddo è intenso di notte».
Maria, giornalista greca di Ert, la televisione pubblica appena riaperta dal governo Tsipras, ha deciso di venire a dare una mano da Salonicco come volontaria al campo di Idomeni in un giorno festivo. Un giornalista francese ,in mezzo al fango mentre da un camion vengono scaricati centinaia di pezzi di legna per riscaldarsi offerti e pagati da “Medici senza frontiere” in un formicolio di braccia e gambe, sbotta: «La giungla di Calais rispetto a Idomeni è un resort a cinque stelle». Msf paga anche l’affitto del vasto terreno dove è sorto il campo profughi tollerato dalle autorità.
A tenere alto l’onore dell’Europa in questo campo che assomiglia a un girone dantesco ci sono l’organizzazione dell’Onu per i profughi e i rifugiati, l’Unhcr, la parrocchia locale della Chiesa ortodossa, i volontari e le Ong tra cui Medici senza frontiere, Save the Children e Praksis. E tanta gente comune che solidarizza con i profughi donando una pagnotta o pacco di biscotti senza clamore.
Come la crisi del debito sovrano nel 2010 ha messo a rischio l’euro, così la crisi dei migranti mette a rischio il Trattato di Schengen e la libera circolazione delle persone. Nessuno aveva previsto per Schengen sanzioni o procedure centralizzate di identificazione e ognuno è tentato a tornare ai confini nazionali in attesa che passi la bufera.
Il villaggio di Idomeni è diventato il punto focale di una crisi troppo grande da gestire per un Paese così piccolo e così provato da sei anni di recessione. Circa 30mila migranti sono rimasti bloccati in Grecia e di questi un terzo sono fermi proprio a Idomeni dalla unilaterale decisione macedone di bloccare dal 23 febbraio i confini. Skopjie ha il sostegno austriaco e dei Paesi balcanici che hanno inviato anche proprie guardie di frontiera, oltre al favore dei Paesi del gruppo di Visegrad.
Atene ha chiesto alla Ue aiuti per 480 milioni di euro per far fronte alla crisi ma intanto è l’esigua popolazione di Idomeni, in maggioranza anziani, a dare la prima solidarietà ai migranti anche se c’è un misto di insicurezza di fronte ai numeri in crescita esponenziale dei nuovi arrivati: la prima cosa che fanno ogni mattina i cento abitanti del piccolo villaggio è guardare crescere il campo di tende colorate che si avvicina sempre di più ai suoi confini.
Anche il prete greco ortodosso distribuisce buste raccolte fra i parrocchiani colme di spaghetti, acqua e frutta, ma è una goccia nel mare in attesa di un miracolo che moltiplichi i pani e i pesci.
Nell’unico bar del villaggio i profughi bevono tè nero con calma mentre attendono che i loro cellulari si ricarichino. Mohamed, 23 anni, è scappato da Aleppo, è studente in archeologia, e vuole raggiungere il fratello di 19 anni a Colonia. Un suo amico, perito informatico, si fa avanti e racconta la sua storia: viene da Kobane, ha passaporto siriano ed è curdo. «Sono fuggito perché non voglio arruolarmi per combattere per Assad. In Turchia nei campi profughi dove sono rimasto per un anno non c’è futuro e quindi sono passato sull’isola di Castellorizzo, poi ho raggiunto Atene, Salonicco e infine qui per andare in Germania. Sono deciso non mi fermerò».