il manifesto 8.3.16
La ricolonizzazione della Libia
di Manlio Dinucci
Nella
commedia degli equivoci per il teatrino della politica, il primo attore
Renzi ha detto che in Libia «l’Italia farà la sua parte», quindi –
appena il Pentagono ha annunciato che l’Italia assumerà il «ruolo guida»
– ha dichiarato: «Non è all’ordine del giorno la missione militare
italiana in Libia», mentre in realtà è già iniziata con le forze
speciali che il parlamento ha messo agli ordini del premier. Questi, per
dare il via ufficiale, aspetta che in Libia si formi «un governo
strasolido che non ci faccia rifare gli errori del passato».
In
attesa che nel deserto libico facciano apparire il miraggio di un
«governo strasolido», diamo uno sguardo al passato. Nel 1911 l’Italia
occupò la Libia con un corpo di spedizione di 100mila uomini, Poco dopo
lo sbarco, l’esercito italiano fucilò e impiccò 5mila libici e ne
deportò migliaia. Nel 1930, per ordine di Mussolini, metà della
popolazione cirenaica, circa 100mila persone, fu deportata in una
quindicina di campi di concentramento, mentre l’aviazione, per
schiacciare la resistenza, bombardava i villaggi con armi chimiche e la
regione veniva recintata con 270 km di filo spinato. Il capo della
resistenza, Omar al-Mukhtar, venne catturato e impiccato nel 1931. Fu
iniziata la colonizzazione demografica della Libia, sequestrando le
terre più fertili e relegando le popolazioni in terre aride. Nei primi
anni Quaranta, all’Italia sconfitta subentrarono in Libia Gran Bretagna e
Stati uniti. L’emiro Idris al-Senussi, messo sul trono dagli inglesi
nel 1951, concesse a queste potenze l’uso di basi aeree, navali e
terrestri. Wheelus Field, alle porte di Tripoli, divenne la principale
base aerea e nucleare Usa nel Mediterraneo.
Con l’Italia re Idris
concluse nel 1956 un accordo, che la scagionava dai danni arrecati alla
Libia e permetteva alla comunità italiana di mantenere il suo
patrimonio. I giacimenti petroliferi libici, scoperti negli anni ‘50,
finirono nelle mani della britannica British Petroleum, della
statunitense Esso e dell’italiana Eni. La ribellione dei nazionalisti,
duramente repressa, sfociò in un colpo di stato incruento attuato nel
1969, sul modello nasseriano, dagli «ufficiali liberi» capeggiati da
Muammar Gheddafi. Abolita la monarchia, la Repubblica araba libica
costrinse Usa e Gran Bretagna a evacuare le basi militari e nazionalizzò
le proprietà straniere. Nei decenni successivi, la Libia raggiunse,
secondo la Banca mondiale, «alti indicatori di sviluppo umano», con una
crescita del pil del 7,5% annuo, un reddito pro capite medio-alto,
l’accesso universale all’istruzione primaria e secondaria e del 46% alla
terziaria. Vi trovavano lavoro oltre 2 milioni di immigrati africani.
Questo Stato, che costituiva un fattore di stabilità e sviluppo in
Nordafrica, aveva favorito con i suoi investimenti la nascita di
organismi che avrebbero creato l’autonomia finanziaria e una moneta
indipendente dell’Unione africana. Usa e Francia – provano le mail di
Hillary Clinton – decisero di bloccare «il piano di Gheddafi di creare
una moneta africana», in alternativa al dollaro e al franco Cfa.
Per
questo e per impadronirsi del petrolio e del territorio libici, la Nato
sotto comando Usa lanciava la campagna contro Gheddafi, a cui in Italia
partecipava in prima fila l’«opposizione di sinistra». Demoliva quindi
con la guerra lo Stato libico, attaccandolo anche dall’interno con forze
speciali e gruppi terroristi.
Il conseguente disastro sociale,
che ha fatto più vittime della guerra stessa soprattutto tra i migranti,
ha aperto la strada alla riconquista e spartizione della Libia. Dove
rimette piede quell’Italia che, calpestando la Costituzione, ritorna al
passato coloniale.