Il Sole 5.3.16
Andrea Orlando
«Terrorismo, l’Italia dice no al coprifuoco
intervista di Donatella Stasio
«Non
siamo in guerra, non ci sono stati strappi costituzionali e la missione
in Libia non prefigura misure eccezionali contro il terrorismo». Il
ministro della Giustizia Andrea Orlando assicura che, nonostante
l’innalzamento del livello di allerta, «la strada scelta dall’Italia non
è il coprifuoco» ma «il rispetto delle garanzie e dei diritti
fondamentali».
«Non si tratta di tatticismo», in ossequio alla
prudenza raccomandata da Renzi, spiega in questa intervista, ma di una
scelta precisa, diversa dal «presunto pragmatismo» imboccato da altri
Paesi, «destinato al fallimento».
Signor ministro, la missione
italiana in Libia significa che siamo in guerra? In queste ore c’è chi
denuncia uno strappo alle regole in nome dell’emergenza, sia per la
mancanza di un preliminare passaggio parlamentare sia per aver previsto
che la missione sarà diretta dall’Aise, il servizio segreto della
sicurezza interna che risponde al premier e non alla Difesa...
Non
siamo un Paese in guerra. Per la guerra ci sono le procedure previste
dalla Costituzione. Il decreto presidenziale sulla missione in Libia non
configura un’azione militare e i poteri del premier sono quelli
contenuti in una legge approvata dal Parlamento. Quella prevista è
un’attività di sicurezza e prevenzione. Un nostro impegno diretto è
possibile solo nel quadro di una decisione della comunità
internazionale. Peraltro, dobbiamo sapere di essere entrati in una fase
storica in cui le categorie di guerra e di pace sono più sfumate.
Abbiamo una dimensione che unisce il fenomeno della guerra all'attività
di terrorismo internazionale e questo fa sì che l'attività di
intelligence sia sempre più legata al monitoraggio di ciò che avviene
sui teatri di guerra veri e propri.
L’incipit dell’articolo 2 del
decreto presidenziale fa riferimento a «situazioni di crisi e di
emergenza che richiedono l’attuazione di provvedimenti eccezionali e
urgenti». È la premessa anche per eventuali leggi speciali contro il
terrorismo, visto il contemporaneo innalzamento dell’allerta?
No.
L’Italia ha agito in modo tempestivo, ben prima dei fatti di Parigi, con
un decreto che ha superato i punti di debolezza del sistema, ampliando i
poteri della Procura antiterrorismo, individuando alcuni reati
funzionali alla repressione del terrorismo di matrice jihadista ed
estendendo alcune attribuzioni dell’intelligence. Credo che le
contromisure giurisdizionali siano già state prese tutte. Semmai, si
tratta di portare a compimento alcune azioni di carattere
amministrativo, come lo scambio di informazioni, e di monitorare il
fenomeno della radicalizzazione in alcuni contesti, a partire dal
carcere. Dico subito, però, che una normativa assunta solo in una
dimensione nazionale avrà il respiro corto.
I migranti fuggono da
Paesi che negano i diritti fondamentali ma si ritrovano in un’Europa che
nega anch’essa quei diritti. Sullo sfondo c’è anche la paura del
terrorismo...
Credo si debba riconoscere che l’Italia è sulla
strada giusta, e ci si è messa prima di altri Paesi, perché tutte le
altre strade sono percorse sulla base del presunto pragmatismo ma sono
destinate al fallimento. L’idea dei muri mette in moto meccanismi
destabilizzanti anche per i Paesi che pensano di essersi messi al
riparo. La vera domanda è: quando arriveremo a una politica comune?
Tutte le altre strade si sono rivelate e si stanno rivelando
fallimentari. Ci sono Paesi che rischiano di far esplodere di nuovo
un’area stabilizzata da pochi anni come quella dei Balcani.
La
Francia, dopo gli attentati di Parigi, ha scelto la via di un socialismo
pragmatico, appunto, più attento alla sicurezza interna che alla tutela
dei diritti. «Ne faisons pas de juridisme» ha detto il primo ministro
al Parlamento, riducendo a legalismo il rispetto delle regole
giuridiche, contrapponendole alle esigenze di sicurezza dei cittadini.
Possibile che le due cose siano in antitesi?
Bisogna trovarsi
nella situazione che hanno vissuto i francesi per rispondere... anche se
non mi convince molto la distinzione, penso utilizzata per fare i conti
con un’opinione pubblica comprensibilmente terrorizzata.
Quindi, se noi fossimo attaccati, sarebbe tutta un’altra storia?
Non
dico questo, anche perché noi non siamo in una situazione di
tranquillità. Dico che dobbiamo rispettare le loro decisioni,
augurandoci di non trovarci nella stessa situazione di fortissima
tensione e lacerazione. Dalla nostra abbiamo il passaggio storico della
lotta al terrorismo interno e quella guerra è stata vinta restando nel
perimetro della Costituzione. Ed anzi, continuando a promuovere la sua
attuazione legislativa.
«Resistere a volte vuol dire restare,
altre volte andar via. Per dare l’ultima parola all’etica e al diritto»
ha detto l’ex guardasigilli Christiane Taubira, dimettendosi in polemica
con le scelte di Holland, tra cui il tentativo di rendere permanenti le
misure eccezionali. Taubira era una che aveva le idee ben chiare sui
diritti. Lei farebbe lo stesso?
Non lo so. Non credo sia semplice
né opportuno giudicare le vicende interne di un Paese con cui cooperiamo
nel contrasto al terrorismo. Detto questo, ho apprezzato molto il
lavoro della Taubira e in questi due anni mi è capitato di trovarmi
spesso su posizioni comuni in contrasto con quelle influenzate da
populismo e xenofobia entrate anche nel dibattito dell’Unione europea.
Il
filoso Ronald Dworkin diceva che il rispetto dei diritti umani non è un
impiccio di cui liberarsi per placare la paura e riscuotere consensi ma
è «la briscola», la carta vincente in ogni partita, anche quella sulla
sicurezza. Il governo, tutto, si rispecchia, secondo lei, in questa
metafora?
Il governo ha sensibilità diverse. Parlare di
un’adesione collettiva a una visione filosofica è un azzardo. Però
questa è la strada seguita fin qui. E l’abbiamo seguita fino in fondo.
Non è tatticismo, in ossequio alla prudenza raccomandata da Renzi?
Non
credo che la posizione di Renzi si limiti alla prudenza. La sua è stata
l'unica voce fuori dal coro quando ha detto, dopo Parigi, «Per ogni
euro speso per la sicurezza, un euro va speso per la cultura». Il
messaggio è chiaro: non solo repressione ma svuotamento dei bacini in
cui si nutre l’odio. E così ci siamo mossi e in parallelo ha preso
vigore una stagione di rafforzamento delle garanzie. Mi piace
contrapporre la nostra azione, che tiene insieme sicurezza,
rafforzamento delle garanzie e estensione dei diritti, a quella di altri
Paesi: noi abbiamo chiuso gli Opg, abbiamo fatto la riforma della
custodia cautelare, stiamo approvando quella sulle unioni civili ed è in
atto la discussione sulla tortura.
È una strada impopolare. Lega docet...
Non
lo so. Ma so che rinunciare a una cifra di libertà significa rinunciare
alla libertà di tutti e che non bisogna piegarsi a una destra che ha
imposto per anni un pensiero diverso. Non si tratta di essere impopolari
o provocatori ma di rovesciare un’impostazione, perché può essere più
conveniente per tutti. Se il prezzo per una presunta sicurezza totale è
avere città come quelle che controlla l’Isis, abbiamo regalato la
vittoria all’Isis. Non credo che gli italiani apprezzerebbero una vita
regolata dal coprifuoco.
La tenuta di questa identità garantista
del governo si misura anche su altri fronti, per esempio sul carcere.
Gli Stati generali da lei indetti sono una grande sfida culturale per
ridurre lo scarto tra diritti fondamentali e senso comune. Sempre che la
montagna non partorisca un topolino...
Intanto arriviamo a questo
grande appuntamento avendo fatto una serie di cose che lo giustificano,
e cioè, progressi significativi sul sovraffollamento e sviluppo
altrettanto significativo delle misure alternative. Ma, anche qui, non
si tratta di sfidare l’impopolarità bensì di dire la verità, perché
quando si parla di carcere non si va oltre gli slogan. Ricordo sempre
che spendiamo 3 miliardi per il carcere ma abbiamo il più alto tasso di
recidiva d’Europa. Il tema non è “carcere sì, carcere no” ma “quale
carcere”, qual è la pena che fa uscire da un circuito nocivo per la
tutela della sicurezza collettiva. È bene che si sappia che se le
carceri sono un’università del crimine, il contribuente paga la
formazione dei criminali.
Prima lei accennava alla
radicalizzazione dei terroristi in alcuni contesti, a cominciare dal
carcere. Il carcere dei diritti avrebbe gli anticorpi contro la
radicalizzazione? E quali?
Il binomio è semplice: scrupoloso
rispetto delle garanzie previste dalla legge, il che necessita di un
costante controllo, e monitoraggio sui fenomeni. Sono due elementi da
tenere insieme. Nessun eccezionalismo ma un controllo più stringente
soprattutto nei bacini dove si ritiene sia più facile la
radicalizzazione. Che non sono solo quelli che hanno matrice nel
fondamentalismo religioso.
Ministro, due domane fuori tema imposte
da un’altra attualità: il nuovo falso in bilancio ha spaccato la
Cassazione e andrà alle sezioni unite dopo appena sette mesi di vita.
Colpa dei giudici o della qualità scadente della riforma?
Premesso
che risolvere contrasti è il mestiere della Cassazione, la stagione
delle norme nitide è finita. Le norme penali sono sempre più spesso
frutto di mediazioni estenuanti, in particolar modo in un governo in cui
le posizioni di partenza sono molto distanti. Non bisogna quindi
stupirsi della ricerca di un punto di equilibrio, anche se non privo di
difetti, ma, semmai, di avercela fatta.
Così, però, si scarica costantemente sui giudici.
Credo
sia un dato strutturale delle società post moderne, caratterizzate
dalla frammentazione politica e, quindi, dall’esigenza di mediazioni.
Questo lascia alle nostre spalle le grandi codificazioni e scarica sui
giudici un ruolo sempre più importante, per cui il tema del “diritto
vivente” diventa cruciale. Perciò condivido il grido d’allarme lanciato
dal primo presidente della Cassazione Gianni Canzio.
Il 15 e 16
marzo lei presiederà a Parigi la Conferenza Ocse sulla corruzione. Ci
andrà con una serie di misure adottate ma senza la riforma della
prescrizione, in passato considerata dall’Ocse una priorità. Come si
giustificherà?
Vado a Parigi con una posizione solida perché, dopo
gli inasprimenti di pena introdotti dalla Severino e poi da noi, credo
che in Italia sia diventato improbabile far prescrivere i reati di
prescrizione.
Quindi la riforma è archiviata?
No, ma rispetto alla corruzione si può dire che il numero di processi prescritti dopo i nuovi aumenti tendono allo zero.