Il Sole 31.3.16
Un governo che rischia di restare in alto mare
di Alberto Negri
Sulle
coste della Libia c’è un gran traffico, partono i migranti a centinaia
ma approdano anche i governi: e che governi. Questo non è ancora stato
riconosciuto né da Tobruk né da Tripoli, eppure i sui componenti guidati
dal premier designato Fayez al Serraj sono stati salutati dall’Onu come
i salvatori della patria: in realtà si tratta quasi di ostaggi che per
non restare del tutto imprigionati dalle inafferrabili e sanguinose
logiche libiche di cabile e milizie sono blindati dentro alla base
navale di Abu Settah.
Per entrare a Tripoli servono ben altre
garanzie di quelle fornite dal mediatore dell’Onu Martin Kobler. Del
resto anche il governo di Tobruk, nelle mani del generale Khalifa Haftar
e degli egiziani, per molto tempo è stato ormeggiato in porto: in Libia
le istituzioni oltre che fragilissime sono galleggianti e precarie
quasi quanto i gommoni dei migranti.
Il nuovo governo non si fida
ancora a insediarsi nella capitale e anche il giorno che lo farà sarà
comunque ostaggio delle fazioni locali. Degli ostaggi però che hanno un
certo valore, politico ed economico. Se questo governo dovesse
funzionare, almeno per finta, sarebbe destinato nei piani delle Nazioni
Unite a chiedere l’intervento internazionale per la “stabilizzazione”
della Libia, ovvero per dare il via a una nuova guerra sulle sponde del
Mediterraneo dove si è insediato il Califfato.
Questo governo è in
sintesi una forzatura voluta dalle Nazioni Unite per accelerare il
processo di formazione di un esecutivo che possa fare da interlocutore
con i governi occidentali. L’inviato tedesco Martin Kobler afferma che
la comunità internazionale «è pronta ad assicurare il necessario
sostegno per un pacifico e ordinato passaggio dei poteri». Ma le
premesse perché la transizione sia pacifica e ordinata sembrano non
esserci. Il 27 marzo le principali milizie libiche avevano respinto
l’insediamento, esortando la popolazione a opporsi a «un governo
designato dalle Nazioni Unite». In un comunicato i capi militari avevano
definito questo esecutivo «illegale» avvertendo che il suo eventuale
insediamento a Tripoli potrebbe trascinare la città «in un conflitto
armato permanente».
Eppure, nonostante, i proclami bellicosi, c'’
qualche possibilità di negoziare: gli “ostaggi governativi” possono
valere un compromesso. C’è da stabilire per esempio che fine faranno i
soldi del petrolio, della banca centrale con sede a Malta - 70 miliardi
di dollari di riserve - gli investimenti della Lia, con quote nelle
nostre banche e in diverse società internazionali, oggi quasi in
amministrazione controllata a Londra sotto lo sguardo attento del
fratello di Blair, giudice del tribunale.
Le fazioni tripoline,
dominate dagli islamisti, potrebbero fare quattro conti e decidere che
questo governo val bene una guerra all’Isis con un intervento militare
internazionale, magari ben calibrato che insieme ai jihadisti tenga a
bada Haftar e metta ordine spartendo la Libia in zone di influenza. Agli
occidentali questa guerra fa comodo: devono occultare la sconfitta in
Siria dove hanno vinto Assad e Putin. E gli islamisti si potrebbero
riciclare emarginando quelli di Tobruk. L’affare si può fare: la
trappola libica è pronta a scattare un’altra volta.