Il Sole 24.3.16
Il Maghreb dietro la Grand Place
A
Bruxelles uno stretto canale separa due mondi. Divide le lacrime di chi
commemora le vittime dalla paura di chi teme di subire ancor più
discriminazioni. È la paura di chi vive a Molenbeek
di Roberto Bongiorni
Le
lacrime e il dolore di chi accende candele e canta slogan contro
l'estremismo islamico, la paura di chi teme di subire ancor più
discriminazioni di quante già si lamenta di subirne. A Molenbeek nei
giovani la paura non di rado si trasforma in una tangibile diffidenza. A
volte rasenta il rancore.
Il giorno dopo la strage di Bruxelles,
sul grande quartiere battezzato la “roccaforte del jihadismo europeo”
grava una cappa pesante. È strano percorrere 15 minuti a piedi dalla
Grand Place e dai suoi lussuosi negozi e ritrovarsi in questo angolo in
cui tutto ricorda il Maghreb e dove, al di là di qualche giornalista
straniera, vedere una donna senza l’hijab (il velo islamico) è piuttosto
raro. Se non fosse per i tipici edifici fiamminghi in mattoni rossi,
sembrerebbe di ritrovarsi in una città del Nord Africa. Dove tutto ha il
sapore dell’Islam. Dagli odori che si sprigionano dai ristoranti, alle
musiche, fino ai narghilè.
Qui Chokry Akbar passa inosservato. La
sua lunga e candida barba islamica, la bianca veste musulmana che lo
ricopre fino ai piedi, cinti dai sandali, tutto ciò attirerebbe
l’attenzione dei passanti nelle città italiane. Pakistano, 66 anni,
pensionato, Chokry pare il paradigma della divisione generazionale tra
la vecchia immigrazione e la quarta generazione. «Abito qui da 34 anni.
Non ho paura ma i giovani mi preoccupano. In moschea ormai siamo quasi
solo anziani. Capisco che la disoccupazione generi rabbia, ma la rabbia
non porta a niente. Questi estremisti non hanno compreso l’Islam. Non
sono musulmani. Io trascorro la mia vita tra la casa e la moschea».
Chokry è loquace, ma la maggior parte dei passanti si rifiuta di
parlare.
A Molenbeek vivono 95mila persone, di cui 40mila di
origine marocchina. La percentuale di musulmani è del 45% ma in alcune
aree si arriva all’80. Il tasso di chi non ha un lavoro o è inattivo è
altissimo, addirittura del 60% tra i giovani musulmani.
Eppure
questo distretto, il secondo più povero delle 19 municipalità di
Bruxelles (ognuna con un proprio sindaco), era un tempo una fiorente
città industriale, dove le fonderie davano lavoro a migliaia di persone.
Tanto da meritarsi l’appellativo di piccola Manchester. Poi gli anni di
crisi. E l’atteggiamento delle autorità di “delegare” ai leader della
comunità musulmana compiti che dovevano essere gestiti quantomeno
congiuntamente.
Molenbeek è grande; sei chilometri quadrati che si
addossano al centro città come una propaggine disordinata. È facile
nascondersi. Chi accetta di parlare spesso nega che il jihadismo abbia
trovato un terreno fertile. Fatima, nata in Belgio, ma originaria di
Tangeri, arriva a una conclusione che suona paradossale: «Qui non esiste
l’estremismo islamico. Molenbeek è tranquilla. Io penso che sia una
complotto straniero o dei servizi segreti per colpire l’Islam».
E i
numerosi foreign fighters partiti da questo quartiere per unirsi
all’Isis in Siria e in Iraq? «Sono stati reclutati da estremisti
siriani, che hanno sfruttato la loro rabbia», irrompe la sua amica che
si allontana subito, irritata.
Eppure siamo ancora sulla piazza
del Municipio. E se da un lato c’è il municipio presidiato da mezzi
dell’esercito e difeso da barriere, giusto sul lato opposto si trova un
edificio bianco dove ha vissuto fino all’anno scorso un certo Salah
Abdelslam, vale a dire il terrorista fantasma ricercato per la strage
del 13 novembre a Parigi e catturato sabato scorso a pochi chilometri da
qui.
Sono troppi i precedenti per parlare di caso fortuito. A
Molenbeek, una cellula qaedista aveva organizzato l’assassinio del
leggendario comandante afghano Shah Massoud, nemico dei talebani, il 9
settembre 2011. Sempre qui è stata pianificata la strage alla stazione
ferroviaria di Madrid del 2004. E tra le case in mattoni di questo
quartiere ha vissuto per mesi anche uno dei due fratelli Kouachi, gli
autori della carneficina nella redazione parigina di Charlie Hebdo.
Sempre a Molenbeek aveva trovato ospitalità per mesi Mehedi Nemmouche,
l’autore dell’attentato al museo ebraico di Bruxelles nel maggio 2014,
costato la vita a quattro persone. E ancora qui ha vissuto Ayoub
el-Khazani, il terrorista che l’estate scorsa aveva cercato di aprire il
fuoco a bordo del treno Amsterdam-Thalys diretto a Parigi. Molenbeek.
Sempre Molenbeek. Dove è cresciuto Abdelhamid Abaaoud, la presunta mente
degli attentati di Parigi, ucciso in novembre dalle forze speciali
francesi.Sempre in questo quartiere, dove trovare un’arma non è
un’impresa, sono state comprate la piccola mitragliatrice e la pistola
utilizzate nell’attentato nel negozio kasher a Parigi. Ed è stata
noleggiata la Volkswagen Polo nera usata dal “commando del Bataclan”.
Il
problema esiste, è evidente. Qualcuno che fiancheggia i terroristi ci
deve pur essere. Ma chi accetta di conversare apertamente preferisce
parlare dei fattori che, a suo avviso, avvicinano i giovani all’Islam
radicale. «Quando sento parlare di musulmani moderati mi monta il sangue
alla testa. Tutti i musulmani sono moderati, l’estremismo non
appartiene all’Islam. Io un lavoro ce l’ho, e posso mantenere la
famiglia. Ma vi assicuro che la radicalizzazione è figlia della
disoccupazione e dell’emarginazione», precisa Salim, marocchino, tre
figli. «È stata una strage terribile. Noi musulmani siamo molto
addolorati. Ma siamo anche le prime vittime di questo estremismo. La
gente a Molenbeek non vuole la criminalità, ripudia l’estremismo. Siamo
700mila musulmani in Belgio. I terroristi saranno qualche decina. Al
massimo».
Nella piazza da cui parte la Rue Ribacourt i bar
ricordano quelli di Fez. E la clientela sono soprattutto giovani seduti
all’esterno, lo sguardo perso nel vuoto.Quando cerchiamo di filmare
l’interno del pittoresco locale uno di loro si alza, urla, vuole il
telefonino per controllare che non siano state scattate foto. Non
demorde. Minaccia. «Non siete i benvenuti», ci urla contro fino a
invitarci ad andarcene via. Ma c’è anche una diversa Molenbeek. Quella
di giovani aperti e integrati, che ripetono incessantemente: «La
soluzione vincente è l’integrazione. Il peggior nemico del radicalismo».