Il Sole 23.3.16
La commozione non basta
di Adriana Cerretelli
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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-03-23/la-commozione-non-basta-063212.shtml?uuid=ACgSTNtC
Il Sole 23.3.16
Il fallimento della politica
di Alberto Negri
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http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-03-23/il-fallimento-politica-070652.shtml?uuid=ACd4rNtC
Il Sole 23.3.16
Gli anni di piombo in Italia e la lezione per sconfiggere il terrorismo islamico
di Vittorio Parsi
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http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-03-23/gli-anni-piombo-italia-e-lezione-sconfiggere-terrorismo-islamico-082445.shtml
Il Sole 23.3.16
Per Schengen può essere il colpo finale
Gli Stati, in risposta agli attacchi terroristici, potrebbero archiviare la libera circolazione delle persone
di Vittorio Da Rold
Gli attentati terroristici di Bruxelles, la sede dell’Unione europea e della Nato, il cuore politico e militare dell’Europa, portano a una serie di implicazioni anche per la libera circolazione dei suoi cittadini all’interno delle sue frontiere.
L’accordo di Schengen sulla libertà di movimento delle persone tra i Paesi aderenti è nel mirino da mesi e ora potrebbe essere colpito a morte. Il Trattato, che doveva essere salvato proprio dal recente accordo sui migranti deliberato a Bruxelles la settimana scorsa con l’accordo con la Turchia, sembra ora sul punto di cadere sotto i colpi delle esigenze della lotta ai terroristi jihadisti che hanno coperture e reti proprio nel Belgio, il crocevia d’Europa.
A 31 anni dalla sua nascita, il Trattato di Schengen rischia di finire la sua esistenza nell’archivio dei tanti sogni infranti europei. Preoccupati dalla carenza di controlli alle frontiere esterne dell’Unione, allarmati dall’arrivo in massa di rifugiati e ora dalla sequenza criminale degli attentati terroristici jihadisti, otto Paesi hanno già deciso di reintrodurre i doganieri e i controlli alle proprie frontiere.
Francia e Belgio, ma anche Austria, Ungheria, Germania, Norvegia, Danimarca e Svezia. Paesi con governi di sinistra e conservatori hanno deciso la retromarcia. «La reintroduzione dei controlli è temporanea», si sono affrettati a precisare ed «è prevista dal Trattato», ma dopo gli ultimi eventi rischia di diventare permanente, con conseguenze pesantissime per l’economia del Vecchio continente, già provata da deflazione e crescita asfittica.
Ma ora più che l’esigenza di creare barriere per fermare i migranti, peraltro bloccati in Grecia, è la caccia ai terroristi e la difesa da nuovi attentati a essere il principale motivo per l’abbattimento di Schengen. I jihadisti creano basi in uno Stato e da lì ne colpiscono un altro contando sulla mancanza di coordinamento tra intelligence europee.
Anche la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi - l’elemento chiave dell’operazione Ue-Turchia negoziata la scorsa settimana – sarà messa alla prova nel dibattito al Parlamento Ue. Molti deputati hanno già manifestato dubbi e perplessità sul tema nella convinzione che l’esenzione dal visto per i turchi aumenterebbe i rischi per la sicurezza europea.
Quanto potrebbe costare l’abolizione di Schengen? Nell’area circolano 60 milioni di Tir all’anno, 1,7 milioni di lavoratori transfrontalieri e oltre 200 milioni di viaggiatori. Se saltasse Schengen ci troveremmo in un Europa con una sola moneta in tasca e il ritorno dei controlli alle frontiere per merci e persone. Un passo indietro al 1995. I costi economici sarebbero salatissimi per il mercato interno: secondo France Strategie, un think tank francese, si arriverebbe a 100 miliardi di euro all’anno con il ritorno ai controlli alle frontiere, mentre la tedesca Bertelsmann Stiftung stima la perdita in 140 miliardi annui, che nel decennio fanno ben 1.400 miliardi, il 10% del Pil dei 28 Paesi Ue.
Tra il 2016 e il 2025, le perdite nella sola Germania sarebbero pari a 77 miliardi; in Italia ammonterebbero a 49 miliardi. «Se le barriere doganali dovessero tornare su in Europa, ciò peserebbe ancor di più su una crescita già debole», ha detto Aart De Geus, presidente di Bertelsmann Stiftung.
E l’Est Europa? La Slovacchia è il fornitore di componenti just-in-time per l’industria dell’auto tedesca. La Repubblica Ceca è tra i principali esportatori europei di prodotti agricoli. L’Ungheria è la nazione con la maggiore apertura internazionale dell’economia. «La fine dello Spazio Schengen metterebbe seriamente a rischio la catena di valore», ha avvertito recentemente a Bruxelles Emma Marcegaglia, presidente di Business Europe, la Confindustria europea.
Quanto a Brexit i l premier britannico David Cameron ha affermato che Londra sarà più sicura in Europa, ma questi ultimi drammatici eventi, al contrario, potrebbero favorire un voto a favore dell’uscita britannica il 23 giugno.
il manifesto 23.3.16
Soffia la caccia allo straniero
Migranti. L’accoglienza o il respingimento, una contrapposizione che rivede classi e forze sociali. I governi europei sono in gran parte lanciati, all’inseguimento delle destre. Ma si tratta di una vana rincorsa
di Guido Viale
Il cordoglio e la pietà per le vittime degli attentati di Bruxelles dovrebbero renderci più umani e non più feroci nell’affrontare il vero conflitto con cui dobbiamo misurarci se vogliamo prosciugare lo stagno dove sguazza il terrorismo islamista: quel conflitto verso i profughi che rende l’Europa così fragile e debole. L’urgenza di difenderci non deve farci dimenticare che il terrorismo non si combatte con la guerra, che é ciò che lo ha prima covato e poi nutrito nel corso degli ultimi anni.
Né con lo Stato di polizia, che non fa che promuoverlo, e meno che mai con la “caccia allo straniero”; bensì combattendo le discriminazioni e il disprezzo di cui si alimenta il rancore che di cui si alimenta il terrorismo. Per questo non c’è niente che metta in forse la convivenza in Europa quanto il cinismo e la ferocia con cui i suoi governi trattano i profughi che si presentano alle sue porte per sottrarsi al terrore che rende impraticabili tutti quei paesi – e non solo la Siria – da cui cercano di fuggire.
Quello che si è aperto, soprattutto nell’area che abbraccia Europa, Medio Oriente e Africa centrosettentrionale, è uno scontro intorno al riconoscimento di un diritto ovvio, perché “naturale” nel senso più banale del termine, ma ostico e difficile da accettare.
L’asilo, la protezione internazionale accordata ai profughi e normata dalla convenzione di Ginevra, era stato concepito finora, più che come un diritto, come una concessione delle democrazie liberali a chi fuggiva per sottrarsi a una dittatura e poi, per estensione, a una guerra civile. Ma oggi quelli con cui l’Europa e gli Stati che per ragioni geografiche o storiche gravitano intorno al Mediterraneo si confrontano sono esodi di massa in cui i fattori guerra e dittatura si mescolano inestricabilmente con quelli ambientali e climatici. Tanto che all’origine di molti dei conflitti armati in corso – compreso quello in Siria – non è difficile riconoscere un deterioramento ambientale provocato dallo sfruttamento incontrollato di risorse locali, ma, sempre più spesso, dai cambiamenti climatici in atto. Questo rende priva di fondamento la distinzione tra profughi di guerra, da accogliere, e migranti economici, da rimpatriare.
In un modo o nell’altro, sono ormai tutti profughi ambientali – una figura non contemplata dalle convenzioni sulla protezione internazionale – ma la cui presenza sarà centrale nel contesto sociale e politico dei decenni a venire.
Quello scontro tra chi rivendica un diritto “naturale” alla vita e chi glielo vuole negare si ripercuote, all’interno degli Stati membri dell’Unione europea, in un conflitto sempre più acceso e centrale – tanto da far passare in second’ordine tutti gli altri, o da subordinarne ad esso le manifestazioni – tra chi si schiera a favore dell’accoglienza e chi si mobilita per sostenere i respingimenti. Ai due poli di questi schieramenti, che stanno facendo piazza pulita della configurazione tradizionale dei partiti e delle forze politiche, troviamo da un lato una folta schiera di volontari, delle più varie estrazioni sociali e anche politiche o religiose, che si adoperano in mille modi per assistere e accogliere i profughi. Dall’altro degli squadristi impegnati in assalti ai siti dove i rifugiati vengono spesso solo “immagazzinati”.
Ma intorno a questi squadristi si sta creando un cordone di condivisione e di aggregazioni politiche di stampo nazionalista (o “sovranista”) e, in buona misura, razzista, in netta avanzata ovunque. Mentre la simpatia che suscita l’azione dei volontari stenta – per usare un eufemismo – a farsi strada sia in termini di appoggio politico che come “comune sentire”. Anche perché le soluzioni prospettate dalla destra sono semplici, spicce e non affrontano le loro inevitabili conseguenze: una stretta, non solo politica, ma anche economica e sociale, sui diritti di tutti, una guerra che trasforma in nemici tutti coloro che oggi cercano e non trovano salvezza in Europa, una serie infinita di stragi in terra e in mare che finirà per configurarsi come un vero sterminio; mentre la scelta di accogliere, al di là delle emozioni immediate che suscita la vista di tanta miseria, è complicata, richiede programmi, ragionamenti, svolte e impegni radicali.
Da tempo i governi europei si sono in gran parte lanciati all’inseguimento delle forze di destra. Una rincorsa vana, perché quegli argomenti li sanno usare meglio le forze apertamente razziste. Ma soprattutto perché sono incapaci di fare i conti con la dimensione effettiva del problema e delle misure necessarie per farvi fronte: rinuncia all’austerity, alla contrazione di spesa pubblica e welfare, a quella precarizzazione del lavoro che ha creato milioni di disoccupati, e un impegno effettivo nella conversione ecologica, unico modo, peraltro, per creare milioni di nuovi posti di lavoro utili a tutti. Quella incapacità li sospinge così verso politiche sempre più feroci e antipopolari, come gli hot spot, il filo spinato, la guerra in Libia o l’indecente accordo con la Turchia, insensato e suicida quanto cinico e spietato. Che però ha fatto contenti tutti i governanti, che possono così aspettare qualche mese, fino a una nuova resa dei conti, per ammettere che non sanno che cosa fare; compreso Renzi, che si è improvvisamente fatto paladino di un’Europa più “umana”, ma che ha chiesto subito l’estensione di quell’accordo alle altre situazioni su cui verranno deviate le prossime ondate di profughi.
Sostenitori e nemici dell’accoglienza, si ritrovano, tanto tra le forze di sinistra e di centro quanto nel mondo cristiano e soprattutto in quello cattolico, che si questo tema rischia una frattura storica e persino tra molte persone di destra (tra cui c’è ancora qualche emulo di Perlasca). È una contrapposizione che lavora alla dissoluzione degli schieramenti e dei rituali politici tradizionali, ma anche a un riposizionamento di classi e forze sociali, verso le quali c’è bisogno di un approccio politico nuovo, prammatico, non rituale né “ideologico” senza il quale la vittoria delle destre e del razzismo è scontata.
Oggi non è più possibile “fare politica”, lavorare alla ricostituzione di un fronte sociale che faccia valere gli interessi delle classi e dei cittadini sfruttati e oppressi, senza individuare nelle varie forme di volontariato, nelle loro pratiche, nelle loro necessità, nelle loro iniziative e, soprattutto, nei legami che riescono a creare con la nazione dei profughi un riferimento irrinunciabile per ogni possibile ricomposizione delle forze che vogliono un’altra Europa perché vogliono un’altra società.
il manifesto 23.3.16
Costituzione e governo, raccogliamo la sfida di Renzi
Referendum. Il presidente del consiglio ha dichiarato di volere intendere questa prova come un referendum sul suo operato. Prendiamolo sul serio e leghiamo la battaglia sulla riforma alle politiche economiche, alle nuove leggi contro i diritti sociali
di Leonardo Paggi
Dieci anni orsono Berlusconi indiceva un referendum istituzionale che, come quello su cui andremo a votare ad ottobre, puntava su un drastico passaggio di potere dal parlamento all’Esecutivo. Il 61% degli italiani difese lo spirito e la lettera della Costituzione contro il 38%. Nel Mezzogiorno i No raggiunsero il 74%. Il paragone aiuta a capire tutte le difficoltà dell’oggi. Esisteva allora un centrosinistra che, pur variegato al suo interno, respingeva compatto la violazione della legalità, tratto permanente e distintivo del governo di Berlusconi. Il problema della forma istituzionale assumeva subito, in questo contesto, concreti contenuti politici. Si trattava di un no ad personam e a uno stile di governo che scandalizzava quotidianamente l’opinione pubblica democratica anche nella sua componente più moderata e benpensante.
La crisi del 2008 segna anche a questo proposito una scansione fondamentale. La finanza internazionale, che ha soffiato sul fuoco delle bolle speculative, si converte repentinamente all’austerity per speculare sui debiti sovrani che si sono gonfiati in ragione dei salvataggi bancari. In questo nuovo contesto la limitazione del poterei dei parlamenti diventa una garanzia di attuazione delle “riforme strutturali” che sono presentate come indispensabili per una strategia di contenimento del debito.
Il 28 maggio 2013 J.P. Morgan, la gigantesca banca d’investimenti protagonista della crisi dei subprime , mette in circolazione un documento di 16 pagine in cui si chiede espressamente il superamento delle Costituzioni adottate in Europa dopo la caduta del fascismo, per i loro eccessi di rappresentatività politica e di contenuto sociale. La richiesta di J.P. Morgan è di fatto anche quella della Ue che, impegnata dal 2012 nella politica rudemente deflattiva del Fiscal compact, mette sistematicamente tra parentesi la facoltà di decisione dei parlamenti nazionali adottando procedure di governo che concentrano tutto il potere nel Consiglio europeo.
Le riforme dell’attuale governo si collocano inequivocabilmente in questa scia. La limitazione del controllo democratico non è più iniziativa di uno stravagante cacicco, guardato con sospetto da tutta l’Europa come frutto di un ancor più stravagante genio italico. È parte integrante di una strategia internazionale costruita su quelle che vengono chiamate le “svalutazioni interne” secondo cui, non essendo più possibile dopo Maastricht svalutare con il cambio, è indispensabile realizzare gli aumenti di competitività attraverso la limitazione dei diritti sociali (del lavoro, pensionistici e previdenziali).
Scendo nella cronaca con un esempio concreto. È del 18 marzo sul Corriere della Sera la proposta di Michele Salvati di cercare in una ulteriore riduzione dei salari il mezzo per ridare fiducia alle imprese, e quindi, a suo avviso, per garantire la ripresa della crescita. Più che “di destra” si tratta di una proposta insensata. È ormai convinzione comune che la stagnazione dell’economia italiana, iniziata ben prima della crisi del 2008, è dovuta proprio al crollo dei redditi con più alta propensione al consumo, in primo luogo i salari, quale si profilava già negli anni Novanta. Tornando al tema, mi viene da pensare che forse gli editorialisti del Corriere della Sera (e la importante area di opinione pubblica di cui sono espressione), che si scandalizzavano delle leggi ad personam e dei festini di Berlusconi, non voteranno contro le riforme di questo governo a cui, soprattutto dopo il crollo della destra, stanno attaccati come ostriche allo scoglio, decisi a vedere in esso l’ultima Thule della democrazia italiana.
Insomma la riforma del Senato e l’Italicum non sono altra cosa dalla soppressione dello Statuto dei lavoratori. Sono parte di una medesima linea politica, che nonostante le sempre più patetiche richieste di flessibilità avanzate dal presidente del consiglio, è saldamente inscritta all’interno degli indirizzi economici e politici della Ue.
Alla luce di queste considerazioni suggerirei che l’appello per sostenere le ragioni del No al referendum costituzionale non ignori il contesto in cui si svolge la battaglia politica nel nostro paese. Se sarà troppo racchiusa in considerazioni giuridiche sulla forma istituzionale la campagna per il No rischia di non convincere. Sembra che il testo eviti qualsiasi richiamo al rapporto stretto che passa tra le limitazioni del sistema dei controlli democratici e politiche economiche consapevolmente indirizzate ad abbassare i livelli esistenti di protezione sociale. Niente si evince da quell’appello sul qui e sull’ora della storia in atto del nostro paese e a quali forze ci si intenda richiamare. Gli stessi firmatari, molti dei quali sono per me stimati conoscenti e amici di una vita, non mi sembra possano, né intendano, fornire una adeguata rappresentazione dello scontro sociale in atto nel paese e di cui il referendum verrà ad essere volenti o nolenti un importante momento riassuntivo. Vi sono stati importanti pronunciamenti per il No dell’Arci e dell’Anpi. Ma la posizione dei sindacati e del complesso sistema associativo del paese? Il presidente del consiglio ha dichiarato di volere intendere questa prova come un referendum sul suo operato di governo. Ritengo decisivo per gli esiti del voto raccogliere questa sfida. Soprattutto in considerazione della profondità degli scollamenti sociali che si stanno determinando nel paese.
Voterà per il Si, anche se non pienamente convinta nel merito, quella zona del paese che esprime un consenso attivo verso la politica di austerità. Ma voterà per il Si anche quella parte di opinione pubblica tradizionalmente orientata verso sinistra che in assenza prolungata di una valida e forte posizione critica accetta passivamente questa politica come un male inevitabile nei confronti del quale non esiste alternativa. La sinistra interna al Pd (e l’area elettorale forse non del tutto marginale che essa rappresenta) voterà per le “riforme”. Lo ha dichiarato pubblicamente il governatore della Toscana presentando la sua candidatura “alternativa” alla segreteria del partito. Ma del resto già nel giugno del 2012 in coincidenza con il Fiscal compact il riformista dal volto umano Pierluigi Bersani non aveva messo in Costituzione il pareggio di bilancio che cancella di fatto l’Articolo 3 ?
Il governo in carica ha portato fino alle estreme conseguenze un rovesciamento della impostazione programmatica del Pd iniziata nell’autunno del 2011, determinando così la crisi definitiva del sistema politico bipolare su cui era rinata la Seconda Repubblica. Il referendum può essere un’occasione importante per un riallineamento della sinistra del nostro paese a patto contribuisca a riportare alla luce il profondo malessere sociale che non trova espressione politica. Per questo è necessaria una piattaforma programmatica che guardi oltre quello che Paul Ginsborg ha chiamato “il ceto medio riflessivo” e si domandi : come raccogliere consensi a Scampia?
il manifesto 23.3.16
La rotta di Bolloré
Ri-mediamo. Il patron di Vivendi non ha dubbi sulla sua collocazione geopolitica. E Il tentativo di siglare un’intesa con Mediaset Premium sembra un cavallo di Troia per agganciare la casa madre del biscione
di Vincenzo Vita
Lo yacht è il messaggio, giusto per parafrasare ancora McLuhan. E, sul lussuoso naviglio di Vincent Bolloré, Sarkozy andò a festeggiare l’avvenuta elezione alla presidenza francese. Così è antica la contiguità tra l’uomo d’affari bretone e Silvio Berlusconi. Insomma, il patron di Vivendi (società assai attiva anche nelle comunicazioni, presente in Italia con un significativo 24,9% di Telecom, nonché un discreto gettone in Mediobanca) non ha dubbi amletici sulla sua collocazione geopolitica. Anzi. Il tentativo in corso di siglare un’intesa societaria con Mediaset Premium per la pay tv sembra un cavallo di Troia per agganciare la casa madre del biscione, cui in cambio verrebbe garantito un dolce atterraggio nell’universo delle telecomunicazioni; dove già la preziosa costola tecnologica di Cologno monzese Ei Towers ha messo un piede, prima con l’Opa su RayWay e ora con l’offerta su Inwit di Telecom.
Insomma, Bolloré riuscirebbe a conseguire tre risultati in un solo colpo: cambiare la strategia dell’ex monopolista riaprendo il fronte dei media, aprire lo scontro sui contenuti on demand con Netflix e i nuovi potenti della rete, realizzare un bel matrimonio se non d’amore almeno di convenienza con l’ex cavaliere. L’attrazione fatale d’Oltralpe ha varcato la soglia di palazzo Chigi, magari sotto il titolo dello sviluppo della banda larga. Il presidente del consiglio parrebbe aver dato la sua benedizione, ovviamente con la solita premessa che è il mercato a decidere. Frase rivelatasi ogni volta di pessimo auspicio.
Infatti, tutto questo ha una finalità che via via verrà in chiaro: la conquista da parte di un asse conservatore del peso prevalente nel settore in Europa, luogo quest’ultimo di un prevedibile scontro sui destini prossimi venturi sul quale sarà determinante il controllo delle piattaforme informative. Siamo dentro un Risiko complesso, dove l’aspetto politico conta molto. Si potrebbe immaginare una qualche intesa con il “terzo uomo”, il tycoon Rupert Murdoch. Del resto, le iniziative in corso, ivi compresa la vicenda Stampa-Repubblica, hanno il sapore di una pole position in vista della gara senza esclusione di colpi. Una lotta tra capitalisti, avrebbero scritto i classici, ma dove si gioca una partita colossale che tocca l’intera società, essendo la posta la conquista dell’immaginario collettivo. I modelli culturali, gli stili di vita e le logiche dei consumi. L’avvenuto incrocio tra i diversi media rischia, se non si definiscono regole adatte alla nuova soglia dell’evoluzione, di chiudere definitivamente lo scenario, con la suddivisione spietata del campo: pochissimi primi attori da una parte, un enorme numero di comparse ridotte alla schiavitù intellettuale dall’altra.
Servono normative adeguate a livello europeo, ma è lecito attendersi un’azione meno criptica e difensiva pure dalle e nelle sedi istituzionali italiane. Dov’è finita la lingua politica? L’età dell’oro del vecchio mappamondo (in cui Mediaset raccoglie il 57% della pubblicità televisiva e il 35% di quella radiofonica) è agli sgoccioli e si è passati ad una serie superiore. La rete delle telecomunicazioni è un bene comune e non è immaginabile che un aspetto cruciale dell’edificio democratico divenga merce di scambio o mero teatro di scontro. In breve: va riacquisita alla sfera pubblica. Non è il ritorno dello statalismo. Se mai, è il contrario.
Solo così entra in scena il plusvalore sociale, che apre i cancelli serrati dal mercato dei forti. E non si smantellano la forza lavoro e i piccoli azionisti.