venerdì 18 marzo 2016

Il Sole 18.3.16
La scommessa curda che scuote Turchia e Siria
di Alberto Negri

La Turchia fa paura o ha paura? Si può dire entrambe le cose perché nel Levante è in corso il più grande rivolgimento geopolitico dai tempi in cui gli accordi anglo-francesi di Sykes-Picot nel 1916 disegnarono i confini del Medio Oriente sulla polvere lasciata dal crollo dell’Impero Ottomano. Ma le inquietudini della Turchia, gli sconvolgimenti regionali, sono anche i nostri: per la questione dei profughi, per il terrorismo jihadista, ma anche perché si sta decidendo, come nel caso dell’irredentismo curdo, la sorte di interi popoli e nazioni il cui destino forse non è più comprensibile guardando l’attuale carta politica.
Il Califfato imperversa ancora su un vasto territorio a cavallo di Siria e di Iraq, Assad governa un terzo del Paese che dominava nel 2011, i curdi siriani hanno il controllo di un’area strategica, in Iraq quelli di Massud Barzani amministrano una regione autonoma ricca di petrolio: per capire dovremmo buttare la vecchia mappa e costruirne una nuova. Questo è il problema: la Turchia non è ancora Europa ma le frontiere dell’Unione sono slittate, sprofondate in Medio Oriente, altrimenti Bruxelles non andrebbe a contrattare con Erdogan per tenersi i rifugiati siriani.
La questione curda è uno dei nervi scoperti: divisi tra Turchia, Siria, Iraq e Iran, i curdi non hanno mai avuto un destino comune. Ma già la disgregazione dell’Iraq, con l’autonomia del Kurdistan di Massud Barzani, raggiunta nel 2003 dopo la caduta di Saddam, ha dimostrato che è difficile fermare il corso degli eventi.
La Federazione autonoma nel Nord della Siria proclamata dai curdi del Rojava è un primo passo verso la secessione o piuttosto verso la riorganizzazione della Siria? Sono aperte entrambe le strade ma una cosa è certa: l’irredentismo curdo scuote la Turchia, l’opposizione siriana e lo stesso regime, nemici su tutto ma per una volta d’accordo a condannare la mossa curda. Esclusi dai negoziati di Ginevra per il veto di Ankara, i curdi hanno fatto una sorta di investimento sulla Russia e la possibilità di trasformare la Siria in repubblica federale. I curdi si aspettano da Putin un appoggio per essere coinvolti nei negoziati e puntano anche sul sostegno americano: vogliono riscuotere il credito di essersi schierati contro il Califfato con l’eroica resistenza di Kobane.
La loro però è una scommessa. La Turchia, che ha una frontiera di mille chilometri con la Siria, vede materializzarsi l’incubo geopolitico di un embrione di stato che si può saldare con la lotta dei curdi turchi del Pkk: è una delle ragioni che hanno portato Erdogan ad appoggiare l’opposizione ad Assad e sostenere i jihadisti dell’Isis pur di tagliare la strada ai curdi siriani.
La Turchia è in guerra dentro e fuori. Eppure questa Turchia fino a qualche giorno fa sembrava così presentabile e sicura, e tutti spingevano per stringere al più presto un accordo sui migranti. La chiusura dell’ambasciata tedesca di Ankara e del consolato di Istanbul, anche se temporanea, è un gesto che viene letto come un atto di sfiducia nella sicurezza del Paese.
Ma conosciamo bene l’ipocrisia di fondo dietro al negoziato sui migranti: paghiamo Erdogan per tenersi 2,5 milioni di profughi e stare fuori dall’Unione, dove per altro non è neppure tanto interessato a entrare. Questo tra Bruxelles e la Turchia è un matrimonio di convenienza dove la sposa turca non piace affatto alla famiglia europea. E il sensale dell’”unione”, la signora Merkel, teme la vulnerabilità della repubblica fondata da Ataturk ora nelle mani, assai spericolate, del sultano Erdogan.