Corriere 18.3.16
Cinque anni di guerra
Siria, la lettura ardua della crisi
Assad ha vinto la sua scommessa?
di Antonio Ferrari
Fra
 analisi e letture «suggerite» dalla propaganda delle diverse parti 
impegnate nella terribile guerra (300 mila morti), difficile capire. Ma 
dai blog degli analisti Usa emerge una diversa verità: Bashar ha scelto 
di condizionare il potere del suo clan per poter avere aiuto da Mosca. 
Una mossa che, forse, salverà per qualche tempo il suo regime
Meno
 male che esistono i blog e i social, omaggio all’innovazione, e che si 
possono leggere e consultare gli analisti americani — omaggio alla 
competenza e alla profondità —, altrimenti della crisi e della 
sanguinosa guerra di Siria avremmo compreso soltanto le coordinate 
generali, al netto di qualche apprezzabile servizio di cronaca. Della 
Siria si parla troppo sapendo troppo poco. Di sicuro si conosce il tono 
della propaganda di parte, ma dipende da quale parte ci serviamo del 
binocolo: tra ingrandire e rimpicciolire c’è grande differenza. Oggi, 
con il ritiro dei russi (per adesso più annunciato che reale), i binari 
di pacificazione tracciati dall’Onu, il prudente atteggiamento degli 
Stati Uniti, stiamo entrando con un filo di speranza in una nuova fase 
(nella foto Reuters sotto, un soldato fedele ad Assad accanto a un carro
 armato ad Aleppo).
La prospettiva di un’ambigua stabilità
Si
 può persino immaginare che la guerra più cruenta degli ultimi anni, 
costata quasi 300 mila morti e milioni di emigrati e sfollati, possa 
finire, con l’affermarsi di un’ambigua stabilità. Mosca è molto più 
forte di prima nella regione e anche altrove: il presidente Vladimir 
Putin si è dimostrato un vero statista, scaltro sia sul piano militare 
che su quello politico; il presidente siriano Bashar Al Assad è stato 
più avveduto di quanto i suoi avversari immaginassero; anche il 
presidente degli Stati Uniti Barack Obama si è rivelato più abile di 
quanto una pulciosa propaganda lo consideri. Ogni dato va insomma 
studiato con estrema attenzione, altrimenti correremmo il rischio di 
ripetere gli errori clamorosi compiuti nel 2003 per la guerra all’Iraq. 
Chi, allora, ne metteva in discussione la validità e l’efficacia è stato
 deriso. Oggi quella derisione si è trasformata in un ceffone sul volto 
di troppi osservatori superficiali, e soprattutto di parte.
Pochi dati, troppi comunicati
L’impressione
 che ricavo, negli ultimi giorni, sullo scenario mediorientale, è quella
 di una grande confusione. Anzi, la solita confusione, alimentata da 
comunicati e posizioni ufficiali, ma poverissima di fatti e di analisi 
credibili. Conoscendo un poco la realtà della Siria e il suo retroterra,
 e avendo frequentato costantemente quel Paese per oltre trent’anni, 
posso dire che è essenziale conoscere almeno alcuni dei gangli della 
Repubblica, dove non è nata una «primavera araba» come in Egitto o in 
Tunisia, ma è nata ed esplosa una catena di vendette, avviata da una 
maggioranza soggiogata per anni da una minoranza. Specularmente, quel 
che è accaduto in Iraq, è successo a ruoli contrapposti in Siria.
Assad padre riuniva i sunniti alla sua corte
Inglesi
 e francesi, per chiudere le rispettive «imprese coloniali» hanno 
commesso errori decisamente simili: dai tempi dell’accordo Sykes-Picot. 
Umilmente, devo ammettere che la Siria per me è sempre stata un quasi 
mistero. Il potere di Hafez al Assad , padre di Bashar, era fortissimo 
perchè il leader era stato capace di portare alla sua corte alauita 
(setta sciita) il fior fiore della maggioranza sunnita. I suoi più 
stretti collaboratori erano appunto tre sunniti: l’ex vicepresidente e 
ministro degli esteri Farouk Al Shara, uomo di notevole spessore e di 
grande cultura, che ho frequentato a lungo; l’ex vicepresidente Abdel 
Halim Khaddam, legatissimo al capo, poi fuggito in Francia per dissapori
 con le nuove leve del clan alauita, dopo la strage di San Valentino 
2005, a Beirut, dove fu assassinato l’ex premier libanese Rafic Hariri; 
l’ex ministro della Difesa Mustafà Tlass.
Tre uomini a garanzia del regime
Ciascuno,
 a suo modo, era per Hafez Al Assad solida garanzia della tenuta del 
regime. Il problema è che Hafez era uomo del passato, anche se sognava 
l’ereditarietà della sua Repubblica, immaginando di passare il testimone
 al figlio: non il borghese e tranquillo Bashar, che a Londra aveva 
sposato una bella sunnita, Asma, figlia di un celebre oftalmologo; ma il
 più taciturno, ruvido e grintoso Basel. Ho avuto modo di conoscere 
entrambi: Basel, che poi sarebbe morto in un incidente stradale, era un 
uomo d’armi. Cavallerizzo di gran talento, vinse la medaglia d’oro ai 
Giochi del Mediterraneo di Latakia. Con Bashar, richiamato dal padre per
 diventarne l’erede, e nominato presidente, ci siamo visti più volte: 
due interviste a Damasco, la prima nel 2003 (in presenza dell’allora 
direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli: la trovate 
sfiorando l’icona blu), e la seconda nell’anno successivo; poi un 
incontro ad Atene, durante una visita di Stato, e in un vertice arabo 
(nella foto Epa, bombardamenti russi in Siria).
Il riformista debole Bashar e le maglie del clan
Ho
 avuto, lo confesso, grande simpatia per la volontà riformista del 
giovane capo di Stato. Anche se temevo che il clan, e soprattutto le sue
 nuove leve, lo avrebbero imprigionato nelle logiche più spietate. 
Bashar non ha mai avuto, e forse non avrà mai il carisma del padre, che 
sapeva tenere a bada gli alauiti più duri, di cui si serviva soltanto 
quando lo riteneva necessario. Per esempio quando Hafez decise di 
soffocare nel sangue, ad Hama, la rivolta dei sunniti più estremisti e 
ribelli. Suo fratello Rifaat fece spianare interi quartieri della città:
 tra i 15 e i 20 mila morti. La fragilità di Bashar mi è parsa chiara 
dopo la strage del 2005, quando fu ucciso l’ex premier libanese Rafic 
Hariri, del quale ero diventato amico. I sospetti che si affollavano 
sulla Siria, o sui suoi apparati di sicurezza come mandanti del 
massacro, erano seri. Il suicidio (o più credibilmente l’omicidio) 
dell’uomo dei servizi siriani a Beirut, il generale Ghazi Kanaan, ha 
rivelato quanto fossero mefitici i rapporti all’interno del clan alauita
 di Damasco.
Il presidente ostaggio della «mafia» alauita
Ormai
 il presidente siriano era diventato un ostaggio: gli permettevano gli 
onori del ruolo, ma altri agivano anche autonomamente. L’inizio della 
«primavera siriana» cominciata cinque anni fa, è diventato subito il 
pretesto dello scontro mortale tra la maggioranza sunnita e la minoranza
 alauita. Bashar, con la piena e pesante responsabilità d’essere il capo
 dello Stato, ha avallato, credo per debolezza o per inadeguatezza, le 
decisioni dei suoi collaboratori. Non avrebbe potuto agire diversamente,
 pena la vita. Il clan dei duri alauiti può essere davvero paragonato a 
una spietata consorteria di stampo mafioso. Il mondo reagiva con sdegno 
agli attacchi del regime contro i ribelli, ma il dubbio che il 
sanguinoso gioco fosse diventato una partita truccata mi è venuto 
studiando un video e alcune foto, che avevano colpito numerosi colleghi.
 Almeno coloro che non sono abituati ad accontentarsi della versione 
ufficiale (nella foto Epa, profughi siriani in fuga verso la frontiera 
giordana).
La strana ricostruzione della strage con armi chimiche
Dopo
 l’attacco con armi chimiche di cui fu accusato il regime di Bashar, ci 
colpirono infatti le immagini dove si vedevano corpi e corpicini 
accostati con cura maniacale, come se si trattasse di una ricostruzione 
scenica. Quando qualcuno sostenne che un deposito di armi chimiche era 
stato conquistato dai ribelli, quell’impressione visiva si trasformò in 
un fondato sospetto. Obama aveva detto che l’utilizzo di armi chimiche 
era la «linea rossa», lasciando intendere che se fosse stata superata 
sarebbe stata guerra. Ma il presidente americano non è certo uno 
sprovveduto. Sa bene che tutte le guerre (dopo il secondo conflitto 
mondiale) con il coinvolgimento americano non sono state altrettanti 
successi. A parte la campagna per liberare il Kuwait, tutte le altre 
sono state fallimenti o quasi fallimenti. Non solo. (nella foto sotto la
 prima pagine di Le Monde con le accuse di attacco chimico il 23 ’agosto
 2013)
Il ruolo del Papa nel contenimento del conflitto
L’aiuto
 di Papa Francesco, che dispone di informazioni dettagliate dalla rete 
di nunziature mediorientali, è stato decisivo. Il pontefice ha detto 
parole gravi, accentuando il tono sui rischi mortali di un terribile 
conflitto. In quel momento preciso, come hanno intuito alcuni allertati 
analisti, si materializzò l’idea che a tirare le fila sarebbero state le
 grandi potenze. La Russia, che non poteva permettersi di perdere 
l’unica sua base in Medio Oriente, e che aveva la possibilità di 
riempire il vuoto lasciato dagli americani. Gli Stati Uniti, ai quali 
non dispiaceva lasciare il lavoro rischioso («sporco», si sarebbe detto 
un tempo) a Mosca. Pronti, quindi, a non opporre troppa veemenza nei 
confronti di Assad.
Il peso dell’offensiva mortale dell’Isis
L’Isis,
 creato dagli estremisti sunniti, e in particolare finanziato da Arabia 
Saudita e Qatar, aveva lanciato la sua offensiva mortale, proprio mentre
 l’Amministrazione Obama, d’accordo con Putin, stringeva per chiudere il
 dossier iraniano. Molti si chiedono quale sia stato l’atteggiamento di 
Israele, che formalmente ritiene l’Iran e i suoi alleati (Hezbollah, e 
anche Assad) i nemici più pericolosi. Sostanzialmente, l’atteggiamento è
 assai diverso. L’idea del crollo rovinoso di Bashar e del regime 
alauita per lasciar spazio a una potenza sunnita sopra la sua testa 
(guardare la carta geografica), ha fatto tremare persino Benjamin 
Netaniahu. Ecco perchè la guerra, combattuta soprattutto per conto 
terzi, alla fine — se vi sarà una consolidata pacificazione — vedrà 
prevalere l’accordo tra Usa e Russia, e quasi sicuramente — almeno a 
breve — salverà Assad. Il quale, a ben vedere, non aveva tutti i torti. 
Avendo compreso i limiti e le opportunità della grande partita 
mediorientale, ha scelto di chiedere aiuto a Mosca, pur sapendo di 
condizionare i poteri del suo onnivoro clan alauita.
 
